Adelasia di Torres, nobile regina e giudicessa, tramite la voce di Lia Careddu e la penna di Grazia Deledda, racconta della sua condizione di donna omosessuale nella corte medievale di Federico II di Svevia.
La raccolta scritta Monologhi impossibili, raduna le voci, le parole e le idee di tante donne (e uomini) reali e immaginarie, accomunate dalla scelta di non aver avuto figli.
Un bel gruppo di lunàdigas ante litteram.
I Monologhi impossibili, attraverso un viaggio nel Tempo, danno voce sia a reali personaggi storici vissuti in altre epoche quali eroine, dive del cinema, artiste, poetesse, mistiche, banditesse e altre, sia a figure del Mito e dei fumetti, e ancora alle donne e agli uomini della letteratura antica e moderna.
Donne (e uomini) forti e risolute, celebri e non solo, che siano state anche involontariamente un riferimento per la scelta di essere Lunàdigas.
Il titolo Monologhi impossibili si riferisce esplicitamente alla famosa serie radiofonica degli anni Settanta intitolata Le interviste impossibili e da quella prende spunto per far parlare, in forma scritta, donne di tutte le epoche. Frida Kahlo, Dora Maar, Vittoria Colonna, Jane Austen, Barbie, Marilyn Monroe, Dorothy Parker, Maria Callas, Camille Claudel, Rosa Luxemburg, Lucy Van Pelt, Dafne, Hélène Kuragina, Jean D’Arc, Coco Chanel, Francesca Alinovi e molte altre meravigliose donne lunàdigas, tali ancor prima che questa definizione fosse stata inventata.
Il libro Monologhi impossibili rappresenta il contributo che l’autore Carlo A. Borghi ha voluto offrire al progetto Lunàdigas – che lo comprende – per sottolineare quanto la scelta di non esser madri sia stata elaborata e ragionata in modo profondo da tutte le persone che l’hanno abbracciata.
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Ecco la trascrizione completa del video:
ADELASIA DI TORRES: «Dai miei lombi di nobildonna non sono mai venuti figli, e dunque neanche un erede diretto al quale lasciare le mie terre, i miei palazzi, i miei castelli, le mie chiese. Solo Grazia Deledda, che non era una nobile ma ha avuto un Nobel, mi ha attribuito una figlia chiamata Elena. Ma si tratta solo di un parto della sua fantasia di narratrice.
Io sono Adelasia, giudicessa di Torres, sono nata nel 1207 e ho vissuto 52 anni. Sono sepolta in un sacello sotto l’altare della chiesa di Santa Maria del Regno in Ardara, in provincia di Sassari. Una chiesa così pochi se la possono permettere: tutta di basalto, pietra lavica, nera come ludisia. Qui mi sono sposata con Enzo, figlio di Federico II di Svevia, perciò questa chiesa è anche una cappella palatina.
Se avessi davvero partorito quella bimba, Elena, che dice la Deledda, ne sarei stata felice, e magari avrebbe potuto succedermi come giudicessa e regina. A Palazzo i giudici non potevano sopportare che una giudicessa non fosse matrice e fattrice di nobile progenie.
Del mio corpo non è rimasto nulla dentro il sepolcro sotto l’altare della Cattedrale di Ardara. Io ho avuto due mariti: un Ubaldo Visconti e un Enzo di Svevia. Noi donne di stampo medievale siamo spesso state merce di scambio, utili per risolvere faccende di potere fra casati e reami. Con re Enzo di Hohenstaufen siamo stati insieme per poco tempo, lui era dovuto partire in armi per battersi in campagne di guerra di conquista, in continente. E su di me circolano leggende di ogni genere, compresa quella delle mie terze nozze con Don Michele Zanche, vicario di Enzo. Figuriamoci, se c’è qualcuno che avrei potuto sposare è Gulna, la mia badante tedesca, che mi ha assistito e confortato fino all’ultimo di miei giorni. Ma quelli erano… quelli non erano tempi di matrimoni fra persone dello stesso sesso.
Il mio fantasma di giudicessa senza figli si aggira spesso in chiesa, ma solo le donne lunàdigas possono vedermi, se capita. Se volete saperne di più leggetemi in Grazia Deledda, ma ricordatevi che in sardo giudicessa si dice “juguissa”.»
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