Alessandra Quattrocchi, romana, femminista, giornalista, studiosa di letteratura inglese dell’Ottocento, parla della sua vita e della sua esperienza come sorella di una persona con disabilità, condizione che l’ha fatta sentire responsabilizzata fin dall’infanzia. Alessandra affronta anche l’importante tema dell’eredità di una donna senza figli.
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Ecco la trascrizione completa del video:
ALESSANDRA: « Non so se posso dire che mi sono ispirata, però sicuramente ho trovato conforto – diciamo – nella storia di parecchie donne. Io sono di formazione, per passione, una letterata insomma, una studiosa di letteratura e una femminista, cose che si sono, comunque sia, un po’ accavallate nel corso degli anni, e ho trovato conforto, se non ispirazione, nella vita di tante donne, soprattutto le scrittrici inglesi dell’800, delle quali praticamente nessuna ha avuto figli e ho sempre pensato che fosse non so se una scelta, ma una conseguenza molto chiara. Sono riuscite a diventare scrittrici e diventare famose, a fare e a scrivere libri di successo perché non avevano le cure di una famiglia da seguire, alcune anche consciamente, scegliendo di non sposarsi. Penso a Jane Austen, che è il mio faro letterario in assoluto, però che ha anche rifiutato di sposarsi a un certo punto. Non sappiamo perché, però sappiamo che sicuramente la sua vita sarebbe stata diversa se avesse seguito la scelta tradizionale di sposarsi e quindi fare figli, perché le due cose erano conseguenti all’epoca. Oggi è diverso ma all’epoca se ti sposavi era evidente che potevi fare figli e magari anche morire di parto, cosa che era molto frequente.
La mia storia è un po’ particolare, anche se non è l’unica e non credo che quello che ho detto si applichi solo alla mia storia. In famiglia eravamo in due: mio fratello era più grande di me, adesso non c’è più. Aveva una forma di disabilità, una malattia genetica progressiva di cui è morto a quarantotto anni. Quando ti trovi a crescere in una famiglia dove c’è una persona con una disabilità, e credo, in realtà, anche se questa disabilità è fisica e soprattutto una malattia genetica progressiva, gli altri fratelli – in questo caso c’ero solo io – si trovano in una situazione particolare, una situazione di iper-responsabilizzazione fin dall’infanzia.
È una cosa che viene sempre più studiata col passare degli anni, adesso c’è sempre maggiore attenzione su questo. Però insomma questi fratelli o sorelle di persone con disabilità – ed è anche la mia storia – si trovano in una situazione di genitorialità, cioè si trovano a fare da genitori fin da molto molto piccoli. Quindi in un certo senso non è proprio come avere un figlio, però è come avere le responsabilità di un figlio: nel senso che non sei mai solo, non sei mai autonomo e indipendente, hai sempre l’ombra, la presenza di un altro fratello che ti è accanto e che fa parte di te, un po’ come se fosse un figlio, fin da quando sei molto piccolo. Sai che avrai la responsabilità di una persona, ecco, a un certo punto.
Allora, poi si possono fare figli per tanti motivi. Però chi è nella mia situazione, chi è stato nella mia situazione non ha scelto di avere un figlio: si trova fin da quando è piccolo ad avere un’altra persona che in qualche modo è anche tua responsabilità. E allora si può reagire in tanti modi. Io conosco persone che hanno reagito facendosi una famiglia propria fin da piccoli perché volevano, invece, avere un nucleo familiare loro, in cui erano prioritari e primari, oppure si può reagire come ho fatto io, in qualche modo scegliendo di non uscire mai dalla famiglia d’origine, di restarci dentro, anche perché uscire dalla famiglia d’origine diventa un tradimento, diventa crearsi delle priorità che sono esterne a quella famiglia.
Poi ad un certo punto, l’età avanzando, mi sono detta: “Lo voglio davvero un figlio?”. Mi sono proprio posta la domanda in termini molto più diretti e a un certo punto ho cominciato a pensarci sul serio e poi alla fine, soprattutto dopo che mio fratello se ne è andato, la risposta finale è stata: “Sì, io un figlio lo vorrei, però adesso che, finalmente, non sono più responsabile di nessuno, adesso che sono libera e che posso pensare solo a me stessa, non me la sento. Non me la sento di rientrare in una condizione in cui – poi a un’età abbastanza avanzata – dovrei mettermi di nuovo a fare una scelta di occuparmi di qualcuno e di sapere che c’è qualcuno che è totalmente dipendente da me. Non ce la faccio, non voglio. L’ho fatto tutta la vita”. E questa è una cosa che spesso chi sceglie di fare un figlio in età adulta, non riesce a capire, assolutamente.
Non è detto che avere figli riduca una donna al ruolo di mamma e basta, anzi direi che dice molto sulla persona-donna il fatto che una volta che hanno avuto figli parlino solo dei figli o meno. Ci sono un sacco di donne che dei figli parlano relativamente poco, poi ci sono quelle che anche su Facebook postano continuamente foto dei figli, mettono le foto del profilo con i figli, inondano… Lo fanno anche certi uomini, inondano di ragazzini… E poi ci possono essere anche delle reazioni: io controbatto con il gatto, però anche quello diventa una…
Poi c’è sempre qualcuno che dice: “Eh non hai figli? Perché metti le foto dei tuoi gatti allora non hai avuto figli”, per cui tendo a cercare di evitare questi eccessi di leziosità. Per me i gatti sono tutti belli; nei confronti dei bambini ho… dipende molto… poi si è anche influenzati un po’. Mia madre, per esempio, che ha lo stesso atteggiamento nei confronti dei ragazzini, ha sempre detto: “I bambini? Non è che mi piacciono i bambini, mi piacevano i miei ” e mi ha anche sempre detto: “Non fare figli, perché poi una volta che li hai fatti, ti piacciono, gli vuoi bene e non te ne liberi più”. Questa è una cosa che mia madre mi ha ripetuto infinite volte fin da quando ero bambina: “Non fare figli, perché una volta che li hai fatti poi ce li hai, è una schiavitù per la vita. Quindi se vuoi essere libera, non fare figli“.
In realtà era un discorso un po’ ipocrita da parte sua, perché lei sapeva benissimo o avrebbe dovuto saperlo: io libera non ero perché comunque avevo un peso familiare da gestire. Mio padre l’ha sempre rimproverata. Mio padre le ha detto varie volte, non di fronte a me: “Se tua figlia non ha avuto figli è colpa tua, perché tu le hai sempre detto che non doveva avere figli perché era una cosa che ti legava per la vita”. E mia madre rispondeva: “Però è vero”.
Secondo me effettivamente chiedersi a chi lasciare le proprie cose è uno dei pochi veri motivi per fare un figlio. Non solo le proprie cose materiali, soprattutto forse l’eredità immateriale. Io sono cresciuta nella cucina di mia nonna e di mia madre. Quello che mi manca di più è proprio pensare di non trasmettere la mia eredità. Le cose materiali in qualche modo si lasciano, hanno meno importanza ecco; ma l’eredità immateriale, i libri letti, i piatti imparati in cucina, l’abilità di certi lavori manuali, lavorare a maglia, lavorare all’uncinetto… queste cose qui non trasmetterle a nessuno è molto pesante».
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