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Elena racconta la sua esperienza di madre di un figlio quindicenne. Riflette sull’impreparazione personale e generale al diventare genitori, dovuta perlopiù alle narrazioni parziali e giudicanti che vengono fatte della maternità (e della non-maternità), lasciando nelle donne un senso di inadeguatezza e solitudine. Elena invita a generare rapporti di sorellanza e mutuo sostegno tra donne nel rispetto del diritto di scelta in ambito riproduttivo.

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Ecco la trascrizione completa del video:

«Io sono Elena, ho cinquantuno anni e vivo in questo posto bellissimo, non proprio qua nel bosco, ma qui nel paesino qua sotto che è Malosco da circa dieci anni. Sono nata però in Lombardia.
Ho un figlio che si chiama Matteo e che è sicuramente l’amore della mia vita e che però, diciamo, è anche un’avventura molto più complessa di quello che io avevo preventivato, diciamo così. Ho desiderato tanto di avere un figlio anche se, spero che lui questo non lo sappia mai, non è stato proprio cercatissimo. È un po’ capitato. Quando ho saputo di aspettare mio figlio per un attimo sono entrata nel panico più assoluto. Avevo trentasei anni, quindi non ero una ragazzina, pur desiderandolo moltissimo non ero proprio convinta che fosse la cosa giusta averlo e averlo in quel momento dove ancora niente era chiaro nella mia vita. Non che io abbia avuto molta chiarezza di percorsi nella mia esistenza però, una volta che è arrivato, io ho sentito che era la cosa giusta averlo e spero che sia stato veramente così.
Non c’è dubbio che pur davvero provando un amore che io non credevo possibile – cioè quello per un figlio è un amore che difficilmente uno può, secondo me, capire finché non lo prova perché è talmente smisurato che uno non crede neanche di esserne capace, secondo me, finché non gli capita -, però nonostante questo, più di una volta, mi è capitato molto sinceramente di pensare che la mia vita sarebbe stata molto diversa senza di lui. Nel bene e nel male. Cioè da un lato ho pensato più di una volta che forse la sua presenza mi abbia salvata da me stessa più che altro, dal fatto di non avere molti limiti, di essere una che voleva sempre fare tutto e in ogni momento per qualsiasi cosa, che non aveva… non molto equilibrata diciamo. Invece il suo arrivo mi ha imposto un po’ di ordine, un po’ di ordine della vita proprio, di cose anche rispetto alla gestione quotidiana della esistenza; dall’altro, però, mi sono anche chiesta se non mi abbia un po’ frenata rispetto a tante cose che avrei voluto fare. Forse proprio anche rispetto al fatto di fare esperienze diverse, di andare a vivere in un paese straniero, di fare esperienze di lavoro differenti dove potevo mettermi alla prova su cose diverse. Ci ho pensato, più di una volta, e sono giunta alla conclusione che sicuramente le cose sarebbero state diverse senza di lui. Però la sincerità prevede che io dica che potrebbero essere migliori sì, ma anche forse no, nettamente. Cioè un pochino il suo intervento salvifico, la sua esistenza … io la vivo un po’ anche in questo senso. Un po’ come se mi avesse dato uno scopo diverso rispetto a quello di pensare solo a me, ecco. E visto che io non è che mi volessi proprio tanto bene, forse voler bene a lui ha creato un altro piano di esistenza per me.

Io ricordo molto bene una sera con alcune tra le mie più care amiche dell’infanzia dove chi di noi era diventata mamma si guardava nelle palle degli occhi e si diceva: “Ma tornando indietro tu lo rifaresti?” e ognuna di noi si è onestamente detta, perché eravamo in un ambiente molto protetto e quindi tra di noi, ci siamo dette: “Ma cosa cazzo avevamo in testa quando volevamo uno, due, tre figli? Cioè sinceramente, a che cosa stavamo pensando?” e mi ricordo che quello è stato un momento bellissimo di grande liberazione, di grande consapevolezza di gruppo e anche un po’ come dire: “Caspita, meno male non sono sola nel pensare che questo, pur essendo straordinario, è comunque difficile, pesante, faticoso e a volte, veramente, ti toglie il fiato”. Quindi è vero, le mamme che hanno il coraggio di ammettere che questa avventura è sì un’avventura ma è anche tanto faticosa, sono in realtà poche, e di solito lo fanno, riescono ad ammettere questo, se si trovano in un ambiente protetto, in mezzo a amiche o persone da cui sanno di poter essere capite. Altrimenti la società, è vero, non accoglie volentieri queste considerazioni. Anzi mi vengono in mente quei raccapriccianti gruppi social delle mammine, pancine, cuoricini eccetera dove imperversa un’ignoranza abissale, questo è vero, però è anche vero che i figli diventano l’unico motivo di vita di queste persone e l’unica ragione addirittura del fatto di stare con un uomo o di avere una relazione.
Addirittura parlano dei rapporti sessuali come dei doveri da assolvere pur di poter ottenere il grande risultato di avere dei figli. Questo è atroce, secondo me, cioè che ci siano queste donne completamente incapaci di vivere con serenità e con onestà la propria maternità eventuale e invece si sentono costrette in un qualcosa che in fondo non appartiene neanche loro la trovo terribile come realtà.

Sinceramente io credo che la società non sia pronta ad accettare il fatto che una donna possa decidere di non avere figli.
Un po’ perché per sfortuna siamo le uniche a poterlo fare, cioè le uniche a poter portare avanti la specie, quindi diventa quasi un po’ un obbligo morale quello di non fermare l’umanità; d’altro canto anche il fatto di poter ammettere che la maternità è comunque difficile, viene accolta dalla società come uno sgarro rispetto a questo dono straordinario che c’è stato fatto di essere capaci di figliare. Che, per l’amor di dio, io ricordo che quando ho partorito mi sono sentita veramente Wonder Woman, ma proprio dio, in quel momento la creazione della vita è stata una botta d’adrenalina inimmaginabile e davvero mi sentivo onnipotente, creare una vita è eccezionale, però d’altro canto se cerco di ricordare tutto il primo anno di vita di mio figlio, io ho dei ricordi estremamente vaghi, confusi di una stanchezza mortale, di pochissime ore di sonno nelle ventiquattro ore, di questo essere un continuamente succhiata, di essere completamente a disposizione di questo esserino che mi prendeva tutto: il tempo, il sonno, le energie, il latte e mi faceva male tutto… Perché poi comunque il mio parto è stato particolarmente rapido, che da un lato è stata un’ottima cosa però mi ha sconquassato, addirittura avevo un nervo schiacciato sotto l’ascella per cui mi è rimasto un braccio in questa posizione per quattro-cinque mesi prima di riuscire a poterlo riutilizzare.
Cioè io ho questo primo anno di vita di mio figlio dove ricordo solo pannolini, tette al vento, una carenza di sonno terribile e qualche flash di un bambino che cresceva, che mi sorrideva e che cominciava a pronunciare le prime parole. Ma è stato faticosissimo, faticosissimo e lo vedo ancora nelle ragazze che partoriscono adesso, le amiche, le persone che conosco, che a questa prima fase nessuno ti prepara e tu ti ritrovi veramente completamente schiacciato dalla fatica, dalla responsabilità, dalla paura. Persino prenderlo in mano le prime volte ti fa sentire a disagio perché non sai, hai paura di romperli perché sono così piccoli… Insomma tutta questa leggenda per cui quando una diventa mamma sa esattamente che cosa fare è una leggenda. Non è vero. si impara ogni volta e ogni giorno e non finisce certamente quando hanno pochi mesi, ma avanti.
Adesso mio figlio fa quindici anni fra dieci giorni e sinceramente io, ancora oggi, non ho idea di quello che sto facendo, sto navigando a vista e anche questo è una cosa che si fa fatica a dire perché altrimenti risulti come quella che non ha abbastanza spirito materno.
Basta vedere quello che succede quando, per l’amor di dio, quando in situazioni terribili e drammatiche le mamme uccidono i figli. Quando succede questo sembra che sia persino più grave di un qualsiasi altro omicidio. Come se alla madre non fosse permesso di essere umana, di avere delle debolezze, di avere paura, di non essere in grado di gestire una situazione, di arrivare all’omicidio perché non riesce a gestire… Mentre ai maschi addirittura spesso e volentieri viene trovata qualche giustificazione, no? Penso: “Ah ma era geloso, era accecato dalla gelosia, accecato dalla passione, delitto passionale…”
Perché non è mai stato parlato di delitti passionali quando è la mamma ad uccidere i propri figli? Più passionale di quello che cosa potrebbe esserci? Eppure non viene neanche preso in considerazione perché naturalmente è un peccato morale, più che un peccato mortale. È un peccato morale cioè: tu non puoi permetterti di non essere madre fino in fondo. Quindi tu devi essere a disposizione, devi essere tutto per tuo figlio. Devi esserlo.
Scusa se salto di palo in frasca ma, mi viene in mente anche questa cosa: penso a come vengono giudicate le donne che decidono di non allattare, che fanno figli e decidono di non allattare per mille motivazioni personali proprie. Io sento persino altre donne che le giudicano in maniera terribile come se il fatto di desiderare di avere delle altre priorità fosse sbagliato. Neanche umanamente ragionevole ma proprio sbagliato, profondamente disonesto nei confronti del proprio figlio. Caspita, ma me lo sono cresciuto dentro, me lo sono portato in giro per nove mesi, gli ho dato la vita, lo sto crescendo, e se non mi faccio anche ciucciare via la vita da lui … sto sbagliando comunque? È terribile. Quindi non so, penso davvero che sia un patriarcato così prepotente che non prende ancora neanche vagamente in considerazione quelle che possono essere le paure, le esigenze e le scelte delle donne. Tutto è scontato, la donna è fatta per avere dei figli? e quindi faccia questo.

L’istinto materno, secondo me, anche questo è estremamente soggettivo. Io posso soltanto raccontare quello che ho vissuto io: per me l’istinto materno è stato nel momento in cui io sono rimasta incinta. Prima avevo una grande simpatia, una grande tenerezza nei confronti dei bambini, li trovavo amabili, divertenti finché non erano a casa mia, però credevo di volere un figlio ma non avevo questo grandissimo sentimento tant’è che insomma sono arrivata a trentasei anni senza soffrire per non averli avuti fino a quel momento. Poi però nel momento stesso in cui è arrivato, era tutto un casino, perché comunque il suo papà era ovvio che non sarebbe stato il mio compagno di una vita, la situazione era strana, facevo un lavoro part-time, era tutto molto poco adatto alla creazione di una famiglia, di una vita, di un figlio eppure io non ho voluto neanche… cioè non ho preso neanche in considerazione l’idea di fare degli esami per verificare che fosse sano… Cioè è stato come un istinto di protezione immenso, subito nei suoi confronti, ed è l’unica cosa che mi sento di dire che è rimasta fino ad oggi, costante: un profondissimo istinto di protezione, più animale che umano, proprio mi sono sentita un po’ come una lupa, una leonessa, un animale che protegge il proprio cucciolo da qualsiasi cosa quindi dalla malattia, dalla persona esterna, dal freddo, dalla fame. Un fortissimo senso di protezione però davvero più animalesco che non… ragionato, una cosa proprio istintiva.
Istinto materno per me può essere solo questo, altro non c’è. Non è il bisogno di avere un figlio, il desiderio di averne più di uno. È solo il fatto di proteggerlo una volta che c’è, in questo riesco a vivere questa definizione.

C’è una cosa che, secondo me, ancora oggi manca tanto, più andiamo avanti e più mi sembra che le ragazze giovani non capiscono l’importanza di questa cosa, che è proprio la sorellanza, il gruppo di donne che si si sostiene.
Ai tempi la mia mamma, che era del ‘28, lei mi raccontava che loro erano in cinque sorelle a casa loro, erano tempi di enorme povertà, di una società completamente diversa, però c’era una solidarietà femminile, c’era un modo di creare la comunità femminile all’interno della comunità di riferimento, che diventava un po’ il famoso villaggio che cresceva il figlio.
C’è quel proverbio africano che dice: “ci vuole un intero villaggio per crescere un bambino”. Secondo me il villaggio è proprio quello che veniva creato dalla comunità di donne, di mamme che si trovavano insieme e che quindi si aiutavano proprio, si sostenevano anche, in tutti quegli aspetti così delicati, così difficili da affrontare, tanto più con degli uomini che non sono veramente, tante volte, in grado di comprendere alcuni aspetti di quello che significa la maternità per una donna.
A me sembra di vedere che questo modo di sostenersi tra donne stia, purtroppo, sempre più ritrovandosi in alcuni gruppi, ma non sia la regola; è come se fosse venuto un po’ a mancare questo senso di solidarietà femminile che è quello per cui l’onestà nell’affrontare determinate cose, la trasparenza del potersi dire anche gli aspetti meno semplici, meno facili del tutto, ci appartiene e dovrebbe essere una cosa nostra, una cosa che ci fa stare bene. Mi sembra che addirittura queste ragazze giovani che hanno figli, a volte veramente prestissimo addirittura intorno ai venti anni, ventidue anni, e che secondo me è molto molto presto considerata la nostra società odierna, addirittura cambiano talmente tanto la propria vita da non frequentare più neanche le loro amiche come se il loro status fosse talmente cambiato da obbligarle ad avere uno stile di vita che non prevede più le amiche. Come se le amiche fossero quelle con cui si sta in giro quando si è single, si va a divertirsi, si va a ballare, si va a fare questo e quell’altro. Quando diventi mamma, ah no, allora devi avere o delle amiche che a loro volta sono mamme, in modo tale per condividere questo piccolo mondo della propria maternità, o, tutt’al più, delle amiche che ancora figli non ne hanno ma ne vogliono, come se fosse quasi pericoloso frequentare una donna che figli non ne vuole quando tu ne hai uno. Chissà, forse perché ti riporta, un po’, alla consapevolezza che è possibile anche quello e per qualcuna forse è proprio doloroso pensare: “Oddio, io adesso sono qui con il mio bambino e invece vorrei essere con lei a ballare chissà dove”. Non lo so. Però mi chiedo, davvero, quante di loro si rendono conto di quanto invece sia importantissimo continuare a stare con le proprie amiche, con le proprie persone di riferimento, con le persone con cui sei cresciuta, le persone che ti fanno stare bene perché quelle sono quelle con cui puoi essere completamente te stesso. E quando tu puoi essere completamente te stesso puoi anche dire qualcosa che magari non è ortodosso a tutti i costi come: “In questo periodo mio figlio mi sta sui maroni”. Perché è una cosa che a me è capitato di dire e che in alcune amiche ha suscitato una gran risata e un grande senso di solidarietà: “Anche il mio, guarda, mi risponde in un modo, non lo sopporto in questo periodo, quando mai lo abbiamo avuto!” In altre situazioni sono sentita invece molto giudicata e addirittura come dire: “Come puoi dire una cosa del genere? Non puoi dire una cosa del genere! È sbagliato, è immorale dire una cosa del genere!”. Mentre si sfido qualunque madre di adolescente a non dire che almeno cinque volte al giorno gli vorrebbe mettere le mani al collo. Io sfido voglio vedere una mamma di adolescente maschio o femmina, che sia, che dice: “No, no, tutto bene, tutto perfetto. È solo amore!”. Io non ci credo, neanche morta, non ci crederò mai.
Il problema è che quello che fai è sempre sbagliato. Per cui se non fai figli e “sei un’egoista e come puoi non avere a cuore il destino dell’umanità e come puoi non assolvere al tuo compito naturale che quello di fare un figlio?”… Se ne fai uno solo: “Eh, però come mai hai fatto un figlio solo? Ma ti rendi conto che per lui è sbagliato e chissà come si sente solo e poi uno solo lo vizi”… Se ne fai due: “Eh però due, sai, adesso con la sovrappopolazione…”. Ne fai cinque: “Ma che cosa ti salta in mente, ma sei fuori, ma chi paga per queste spese?”…
Insomma, dove ti muovi ti muovi, sbagli. È come il tizio con l’asino, no? Che se ci sale sopra maltratta l’asino, se ci cammina affianco è scemo perché ha l’asino e non lo sfrutta, se se lo porta in groppa e ancor più scemo… Insomma sembra proprio che qualsiasi scelta facciano le donne, possono essere giudicate e giudicate malamente, non in base alle proprie scelte, ma in base al fatto che si permettono di scegliere. È questo che a me sembra il problema principale. Cioè che in questa società la donna venga ancora presa come una che non ha il diritto di scegliere, perché qualsiasi cosa faccia non è quella giusta.

Io non avevo consapevolezza del desiderio di maternità. Era un po’ forse anche quello un po’ dettato dalla società, dal fatto che nella mia famiglia eravamo in tanti e le mie zie e i miei cugini e ognuno aveva più o meno tre figli a testa; quindi, insomma c’era questa ambiente pieno di ragazzi giovani e sembrava la cosa giusta. Poi la mia era una famiglia profondamente cattolica… quindi ovviamente il senso della famiglia e di quello che ci girava attorno era altrettanto importante e quindi sì, io avevo un po’ questo desiderio di avere dei bambini, mi piacevano tanto, come dicevo, questi bambini belli, morbidi, paciocconi, simpatici, profumati, mi sembravano una cosa deliziosa ma io non avevo realmente capito che cosa questo avrebbe portato alla mia vita.

Ricordo un discorso molto bello fatto con una mia carissima amica, quasi una sorella, una ragazza turca, con cui ho instaurato uno stupendo rapporto di sorellanza, che è stata la prima a sapere che aspettavo un figlio, tra l’altro, e che dopo un annetto circa è rimasta a sua volta incinta.  Lei era sposata con un ragazzo olandese e avevano viaggiato tantissimo nella loro vita e continuavano, facevano una media di… prendevano l’aereo una media di sei, sette volte l’anno. Ricordo che lei mi disse: “Adesso ho capito che cosa significa quando ti dicono che un figlio ti cambia la vita!” e lei il figlio non lo aveva ancora avuto quindi ho detto: “In che senso? Cosa vuoi dire?” E lei mi disse: “Sai, io ho preso tanti di quegli aerei da non sapere neanche il numero. Ieri per la prima volta sono salita su un aereo ho pensato: “Oddio e se casca?”…”’
Secondo me questo è estremamente simbolico di quello che veramente ti fa, tra virgolette, la presenza di un figlio, no? In questo senso ti cambia la vita: tu per la prima volta cominci a ragionare non solo più per te e fa un enorme differenza perché tu su quell’ aereo ci sei salito simbolicamente milioni di volte senza mai minimamente preoccuparti del fatto che potesse cadere e se anche fosse caduto: ciao! Invece per la prima volta tu ti rendi conto che non vivi più solo per te e questo ti cambia completamente. E se tu avessi questa consapevolezza prima di concepire un figlio ci penseresti sopra molto bene, molto molto bene.
Questa amicizia con la mia amica turca che dura, grazie a dio, ancora oggi con tantissimo affetto e amore, anche se lei è tornata a vivere ad Istanbul, è stata una delle cose più importanti per me.
Io quando sono appunto rimasta incinta e sono andata da lei piangevo disperata, perché se da un lato ero veramente felice e sentivo in un modo del tutto inspiegabile e indescrivibile l’immensa gioia di sapere che qualcosa stava crescendo in me, dall’altra io ho avuto una vera e propria crisi di panico. E se non ci fosse stata lei ad ascoltarmi, a starmi vicina, a valutare con me i pro e i contro di quello a cui stavo andando incontro, io mi sarei sentita così profondamente sola da non essere forse in grado di affrontare la cosa. Forse sarei riuscita lo stesso a portare a termine la gravidanza, non dico di no, però quando si affronta una gravidanza essere soli è terribile. È la cosa peggiore che ti può capitare. Perché tu stai affrontando una serie infinita di cambiamenti, a partire dal corpo, che sembra uno scherzo perché ormai tutti siamo abituati a pensare: “Oh, che bello, guarda che bel pancione!”. Ma vedersi crescere una pancia in maniera così spropositata, non riuscire più a camminare, non riuscire più ad allacciarsi le scarpe, trovare sollievo soltanto in acqua perché la schiena ti fa male… questo seno che cresce enormemente, tutto ti si gonfia a dismisura e la gente che ti dice: “Come sei bella!” e tu ti guardi e ti vedi mostruosa, gonfia, perfino i pori ti sembrano diversi e quindi già questo cambiamento è terribile. Per qualunque donna: sia quella che è abituata a sentirsi bella, sia quella che è abituata a non vedersi particolarmente bella. E sentirsi soli in un cambiamento del genere è terribile. Quindi, io credo che se davvero tra donne cominciassimo a parlarci, ad ascoltarci, anche a raccontarci queste cose in maniera più tranquilla, più serena, più libera, mettendoci al corrente un po’ di quello che ci aspetta, senza scoraggiare nessuno, per l’amor del cielo – io penso, tra l’altro, che se una persona desidera avere un figlio puoi dirle tutto quello che vuoi, puoi anche raccontarle il parto minuto per minuto, ma il figlio se lo porterà a termine in ogni caso -, però è bello sapere: “Guarda, sai, a me è successo così, io mi sono sentita così, io ho avuto questi momenti di depressione, di stanchezza, di fatica. Non sentirti sola, non aver paura se ti succedono perché è normale”. Oppure: “Sai, ho avuto dei momenti in cui ho seriamente pensato che forse non avrei dovuto avere un figlio!”. “Oh! Davvero anche tu?”. “Sì, anche io!”. Riuscire a ad essere più libere su questo forse potrebbe aiutarci davvero a liberare anche queste future generazioni di ragazze che hanno bisogno di sentirsele dire queste cose; hanno bisogno di sapere che la loro deve essere una scelta e una scelta consapevole in qualunque direzione vadano. Sia che decidano di non avere figli, sia che decidano di averne venti. L’importante è che sappiano che possono scegliere e che questa cosa diventi sempre più chiara, che noi, per prime, smettiamo di giudicarci, di pensare: “Però guarda quella lì cosa ha fatto, e ne aveva già cinque, ne ha fatto ancora uno, ma che cosa le è venuto in testa!”. Oppure: “Ma pensa quella lì, con tutti i soldi che ha, perché non si fa dei figli?”. Perché io questi discorsi li ho sentiti e invece noi dovremmo essere le prime a dire: “Che bella quella amica, voglio essere sua amica, voglio avere un bel rapporto con questa donna e chissà magari mi racconterà, se vuole o no dei suoi figli”. Perché questo dovrebbe essere, cioè avere delle relazioni pulite semplici e chiare che portino le ragazze a potersi sentire libere di fare queste domande, di dire: “Ma a te è capitato? Ma tu come ti sei sentita? Sai, io vorrei, cosa ne dici?”. Con la libertà di sentirsi umane e di poter essere umane.

Per me Lunàdigas è una pietra più che miliare. Lunàdigas rappresenta un varco di luce in un buio terribile. Lunàdigas è: “tu donna hai una scelta”, in una società dove il discorso è invece “tu donna di scelte non ce ne hai; tu sei femmina e devi fare quello che la natura ti ha imposto facendoti femmina”. Lunàdigas è il modo per creare questa comunità, questo sentirsi vicine le donne, le une alle altre. È la possibilità di raccontarsi è la possibilità di raccontare delle proprie scelte, è la possibilità di far sapere a qualcuna che la sua scelta non è giudicabile ma che è la sua scelta e quindi questo per me è preziosissimo e mi domando come… sono così felice di farne parte, anche se di un pezzettino, perché, veramente mi fa sentire parte di una comunità di donne libere e questo per me ha un valore immenso. »

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