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Francesca, artista e performer, racconta la sua esperienza di maternità, sì desiderata ma non in linea con la comune retorica, fatta piuttosto di esercizio quotidiano applicato alla definizione di sé, al rapporto di coppia, alla gestione del lavoro. Quello di Francesca è un invito alla condivisione delle storie delle donne perché si arrivi ad articolare le proprie scelte riproduttive in modo più consapevole.

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Ecco la trascrizione completa del video:

FRANCESCA: «Sono una performer, artista multidisciplinare, una danzatrice, autrice, terapeuta. Non so quale altro cappello posso mettere. No, scherzo. Fatico molto a dare una definizione. Sto in una complessità, quindi insomma in un processo che ha scelto come… o è stata insomma scelta, sono stata scelta dall’utilizzo di alcuni linguaggi per stare al mondo e per spiegarmi un po’ il mondo. Questo.
Ho un figlio, ho scelto di avere un figlio. Non è stata una scelta completamente consapevole. Sicuramente è stato desiderato. L’ho proprio chiamato. Anzi è anche una bella storia, perché l’ho chiamato la notte del mio compleanno, sotto le stelle, in barca. E esattamente un anno dopo, il giorno del mio compleanno, ho avuto le prime contrazioni e il giorno dopo lui è nato, con due meravigliosi arcobaleni, nel cielo, quindi bello però anche complesso, perché appunto non è stata una scelta consapevole, quindi si è aperto un panorama molto danneggiato. E danneggiante.
Ci sono stati moltissimi momenti in cui mi sono sentita molto pentita di questa scelta, al netto dell’amore che ho per lui e della bellezza che so che ha. Ma proprio rispetto alla maternità, anche confrontandomi con delle amiche in modo molto chiaro, mi sono detta: “ma perché? Ma appunto, un cactus da curare, no?”
Magari, ma no, anzi, uso spesso questa… questa espressione di dire “nella prossima vita no, anche no”. Tanta contemplazione e tanto altro, ma no. Ma proprio per la non possibilità di vivere la maternità in modo… in modo sereno. In modo non per forza deprivante, ecco, perché sicuramente è (almeno per me lo è) un’esperienza disarmante, ma nel disarmo ci posso stare. Ma nella deprivazione che non ha nulla a che vedere con appunto il sacrificio, nel senso del rendere sacro, è proprio una condizione sì deprivante rispetto anche al contesto lavorativo, cioè in cui sono inserita… per cui il dedicare tutto un aspetto di cura della relazione con lui, anche della distribuzione dei ruoli all’interno della coppia, mi ha permesso, se non con una grande enorme fatica e anche secondo me sì, rischio salute psicofisica, di poter continuare a fare insomma il mio mestiere. Quindi magari nella prossima vita tanta contemplazione.
Penso di non aver incontrato donne consapevoli di questo tipo di narrazione possibile, di potersi narrare anche in quella difficoltà. Quindi penso anche a mia mamma, che è stata una donna secondo me coraggiosa rispetto ad alcune scelte, consapevole per altre, rispetto a questa narrazione qua non lo era, non lo è stata, non me l’ha… non me l’ha raccontato. È vero che era in una condizione diversa anche come tempo.
Io sono nata alla fine degli anni ’70, e a cavallo degli anni ’80, la mia infanzia… con un padre anche molto presente, molto capace di mettersi a misura. Mia nonna un po’ mi aveva avvisato. Mia nonna è del 1915, quindi insomma un’altra epoca, un’altra struttura. Una donna tosta, però non mi parlava della maternità, mi parlava della relazione di coppia. Quindi mi diceva: “Prima di sposarti pensaci bene, pensaci molto bene. Oltre i trent’anni, eh!”
Tant’è che infatti ho fatto saltare un matrimonio, cioè sono arrivata lì per… e poi ritirata. Ma non sulla maternità, no, non ho avuto narrazioni. E penso di sì, che forse avrei ascoltato. Sì, penso che avrebbe potuto fare una differenza.
Mi sono interrogata anche tanto su una… e non ho ancora trovato una risposta, su come ad un certo punto ci fosse su questa questione dell’orologio biologico, no? Il tanto nominato orologio biologico, per cui io mi sentivo di dover fare un figlio, cioè che proprio era il desiderio perché il mio corpo lo richiedeva, cioè la mia tensione alla cura. Però, appunto, successivamente mi sono chiesta, ma: è orologio biologico o è semplicemente pressione, narrazione, pensiero indotto? O appunto, colonizzazione di pensiero? Non ho una risposta.
Ne parlo spesso con le mie amiche. Ne ho in particolare due che ho conosciuto e sono diventate davvero sorelle in questo percorso; le ho conosciute attraverso i figli, perché abbiamo condiviso un progetto di asilo che era, diciamo così, sempre comunale, però comunque particolare perché nella collina, in mezzo al bosco, tanto outdoor. E loro anche si interrogano sulla questione.
Al pari ho la mia migliore amica da trent’anni, cioè conosciuta sui banchi del liceo, che lei ha proprio scelto di non avere figli. Ho proprio avvertito come ad un certo punto fossero due strade separate. Lei, che aveva scelto di non fare figli e io che invece un figlio l’avevo avuto: queste due strade che si separano e che fanno molta fatica ad incontrarsi, ma non per amore e desiderio, ma per i tempi, per il tempo a disposizione. Ed è un dolore per entrambe, perché non c’è più il tempo. Non c’è più quello spazio, ricavarlo è difficilissimo, mentre appunto è più facile trovarlo con le altre madri, perché si condivide quel pezzo. Quindi anche socialmente è davvero impattante questa cosa.
Non so a me appunto ha ferito molto la… Non so, non ho mai pensato tanto all’assenza delle istituzioni. Forse perché appunto [sono] a partita IVA nel campo artistico, sono abbastanza abituata ad arrangiarmi. Ci sono io, ho fatto la mia scelta, sono responsabile, viaggio, la realtà è questa, ho scelto di di vivere in Italia. È così. L’ho scelto di vivere in Italia, cioè per resistenza e resilienza, non so definirla in altro modo. Cioè, potevo andare in Germania, magari poteva essere veramente una storia diversa, però sono qua. Quindi mi sento responsabile e non delego alle istituzioni. Però invece ho proprio avuto la ferita rispetto a quello che mi aspettavo dalla relazione e quindi da chi ho anche sposato per tutelare, sempre dal punto di vista istituzionale… per i diritti sul figlio e tutelarlo. Sì, tutta una serie di questioni. E lì sì, lì è stato proprio una apertura su una realtà di cui io prima non ero così consapevole, cioè mi sentivo veramente molto, molto libera, molto… indipendente, molto capace di gestire anche emotivamente le relazioni, una relazione con il maschile invece lì è proprio saltato un tappo completamente.
E mi sono proprio vista depotenziata e relegata in un ruolo, mentre per lui era tutto più semplice. E non si poteva neanche utilizzare un linguaggio comune perché quelle cose che io vivevo non erano proprio viste, riconosciute. E ho dovuto agire una parte di me che non avrei mai… cioè proprio della minaccia, della minaccia di una fine, perché a quelle condizioni “anche no”. Allora lì sì, c’è stata la possibilità di un lavoro, ma è anche un’altra… insomma, c’è un tempo, c’è una fatica, sicuramente una porta di accesso, una profondità e un altro know-how. Grazie, ma quanti ne devo avere? Preferivo, avrei preferito, insomma, sì un qualcosa di già acquisito. Mi aspettavo questo.
E quindi c’è stata anche tutta una riflessione sempre sulla mia responsabilità. Su quanto io, quanto in generale, perché non è solo una mia questione, è proprio collettiva rispetto alle donne che si pongono, o con cui sono in relazione… che si pongono questa domanda, di una responsabilizzazione su di sé. “Ah, dovevo informarmi prima di come era lui”: ma non è possibile, non è fattibile. Veramente un figlio fa saltare completamente tutte le… Sì delle sovrastrutture e si arriva a una mandorla. È proprio una spogliazione, si è davvero a nudo, molto a nudo ed è molto doloroso.
Penso che una comunicazione molto diretta tra donne rispetto alla consapevolezza di una scelta di maternità possa essere molto utile e possa cambiare le prospettive rispetto a una scelta che non ha negazione. È proprio una scelta.
Quindi sì, assolutamente penso questo. Credo che sia importantissimo proprio perché i pensieri formano altri pensieri, no? E con quelle idee pensiamo altre idee, quindi è un generare una nuova storia che ha a che vedere con una collettività, no? Per me, è importantissima proprio la questione del generare parentele. E’ il generare parentele, la questione. E quindi non è tanto il figlio o il non figlio, è in quella parentela, in quella chiarezza parentale, di esperienza di donne, ma anche di uomini. Allora sì, si genera il futuro.
Maternità e lavoro per me viaggiano proprio su due binari. C’è un piano pragmaticissimo, nel senso che ci sono luoghi non accessibili rispetto al mio lavoro. Per cui… Ma proprio per la richiesta di poter essere all’interno di alcuni sistemi anche nel mondo dell’arte, con un figlio, in maniera, appunto, sostenibile significa adeguata per ritmi, adeguata per condizioni. Quindi parlo di viaggi, di costi e di sostenibilità, di qualità.
E lì io ho sentito proprio che non c’è luogo, c’è un’inaccessibilità e quindi c’è una condizione, la definisco proprio così, di disabilità. Io mi sono sentita proprio disabilitata. Poi sicuramente il mio ambiente è molto particolare, ci sono… Alla fine io sono eterosessuale, con un figlio, bianca, quindi sono privilegiatissima, riconosciuta come privilegiatissima, quindi non dovrei neanche lamentarmi perché la narrazione nei miei ambienti funziona esattamente all’opposto: cioè quanto più al contrario hai una condizione di non privilegio, allora in questo momento hai voce. Parlo della ricerca, nella zona della danza di ricerca, teatro di ricerca. E però… però ci sono anche io. Quindi per me è stato veramente impattante.
Al pari, invece, c’è stato un aspetto che ho trovato preziosissimo. Quando ho iniziato a trovare un altro canale per poter riaccedere in modo sostenibile alle mie ricerche, quindi a questi ambienti con la mia identità, il fatto di avere Leonardo, con tutto il suo mondo incredibile di creature multi-specie, immaginari incredibili, ecco quello è stato un nutrimento pazzesco. Ha informato tanto il mio lavoro, soprattutto nell’ultimo anno. L’ha proprio informato.
E quindi lì ho sentito di nuovo una potenza, una potenza e non dover adattare l’immaginario e dover aderire anche a… “Vabbè, sì, questa se si mette a danzare cosa farà? Sarà per i bambini”. Cioè, la narrazione è un po’ quella. E invece no. Quel pezzo lì è stato importante.
Io ho conosciuto solo una nonna che era la mia nonna, quindi ho quel riferimento molto specifico, rispetto al suo corpo, perché è un corpo di cui mi sono presa cura quando avevo diciassette anni. E quindi per me… scusami, e aggiungo in questo momento mi sto occupando di progetti per over sessanta.
Un gruppo di donne che incontro il mercoledì mattina, con cui sto facendo un lavoro di destrutturazione, proprio iconoclasta, rispetto alla scuola di Atene che era il dipinto, che stiamo andando proprio a sfrangiare in maniera significativa rispetto alla postura e alla creazione di quella cultura, perché quello è stato… insomma, è una pietra potente, no? Pietre miliari ce ne sono tante altre, ma insomma un immaginario potente. Sono tutti uomini. Non c’è natura, c’è uno squarcio di cielo. Invece stiamo proprio spostando l’immaginario. Io sono con loro e sento che c’è la nonnità, cioè che è una… che è un legame di cura e di sguardo reciproco, loro nei miei confronti, di affidamento anche, ma è reciproco perché anch’io mi affido a loro, a quello che hanno tratteggiato.
Mi ha colpito tantissimo perché questo progetto nasce da un bando vinto con l’Università di Torino tra Dipartimento di studi umanistici e Neuropsicologia, quindi loro sono state le prime che sono venute a frequentare lo Studiumlab per dei test proprio specifici sul movimento.
Quando le accompagnavo per i corridoi dell’università sentivo che parlavano e dicevano: “Beh vabbè, ma che mortorio! Quando eravamo noi in università, qua si occupava, qua si faceva la rivoluzione, ma che è sta roba?” E io ho detto: “no vabbè, ma loro sono meravigliose. Wow!”
Ed è stato bellissimo perché c’è stato… con un altro gruppo… poi dopo i test abbiamo avuto dei momenti proprio di ingresso nelle pratiche di movimento e durante queste pratiche e dopo emergevano tutta una serie di argomenti molto legati alla sessualità, alla sessualità per gli over, quindi cosa significa, dopo la menopausa… E io veramente ero incantata perché mi sentivo… non ho un termine, ma avevo al tempo stesso otto anni e duecento, perché ero completamente aperta, però al tempo stesso mi sentivo veramente io, molto vecchia in quello che poteva essere il mio immaginario da bimba della persona anziana perché questi erano discorsi potentissimi.
A casa mia si è sempre parlato di sesso, quindi non è tanto… ma quel modo così libero, molto consapevole per me era davvero inaspettato. Avevo io un immaginario dell’over molto colonizzato. Quindi, penso appunto al corpo di mia nonna, a come l’ho visto, a come ho rivisto il mio. Ho proprio avuto uno specchio, nel dire, io è possibile che diventerò così. È stato in qualche modo spostato poi dall’incontro con queste altre nonne, che però sono anche madri, che sento o sorelle per cui non ho più categorie. Siamo in una parità.
Sì, posso narrare questo in questo momento ed è un processo che sta andando avanti. E si sta proprio depositando. Sono bellissime, cioè le trovo bellissime. Belle potenti. Belle potenti. “Facevamo la rivoluzione. Ma che state facendo qua?” No, ma io vi guardo… effettivamente hanno ridipinto i corridoi, è tutto pacatissimo in università. “Facevamo la rivoluzione” [dicono]. C’è stata una meravigliosa che ha detto, questo invece in Lavanderia a vapore: “No, ma io vado a suonare i tamburi nel bosco”. Cioè, questa proprio è rifiorita ad un certo punto, ha preso in mano la sua vita e ha detto: “Torno a quando ero adolescente. Ho bisogno di quella cosa lì”. Poi sicuramente sono donne che hanno un accesso a delle informazioni per cultura, mi rendo conto, anche elevate. E però appunto, lei diceva: “io mi sono riappropriata di questo, superato però tutto, la questione maternità, cura, ho gestito i figli, ho fatto, ho dato, adesso io ritorno e sono felicissima perché sono in menopausa, non mi frega più niente, non ho più niente da perdere, da dimostrare. Ciao, vado a suonare i tamburi nel bosco”. Vai! Non so, era molto, molto… al di là, e anche lì, dello stereotipo, della narrazione su quello che può essere andare a suonare un tamburo nel bosco. Sembrava semplicemente molto, molto libera. Sì, una grande potenza, una grande delicatezza ma in tutte. In tutte.
No, sono persone che mi hanno cresciuta negli anni ’80, svezzandomi con la macrobiotica. Mio padre lavava e stendeva i panni, cioè, erano proprio molto… quindi no, non hanno mai chiesto questo e non hanno mai… Mi hanno proprio dato libertà in tutte le scelte che ho fatto, sostenendomi, ma anche dicendomi: “Prenditi le tue responsabilità”. Quindi no, anche quando avevo fatto saltare il matrimonio sono stata molto sostenuta, anzi, secondo me si sono preoccupati quando a due anni di distanza ero già nuovamente in un’altra relazione. Però c’è stato un momento molto, molto personale che mi ha colpito e ci ho ripensato stasera guardando il video. Non avevo mai più pensato a questo episodio. C’è stato questo pezzo: mio padre ha avuto un momento di difficoltà per questioni sue, aveva perso sua mamma quando era molto piccolo, quindi ha rielaborato solo in tarda età questo lutto. Ed è stato sostenuto da una terapia psicologica di un uomo. Ad un certo punto, per una serie di vicissitudini, io mi sono trovata a dover contattare questo psicologo e riferire alcune questioni. E questa persona in maniera assolutamente indelicata, tra l’altro lo conosco molto bene quindi lui sapeva perfettamente della mia condizione, cioè di artista, dell’aver appunto detto di no a un matrimonio…  sapeva, mi ha detto: “Ma guarda, Francesca, tuo padre ha bisogno di diventare nonno. Tuo padre è pronto per diventare nonno”. A me questa cosa ricordo che ha gelato, ma non ci ho mai più ripensato. Intanto mi ha fatto molto arrabbiare per cui ho chiuso questa telefonata in maniera educata, ma proprio dicendo: “Dio mio! cioè, veramente quanta scarsa professionalità”. Anche lì forse un’aspettativa dal punto di vista di un terapeuta di agire ben altre parole. E poi sì, questa informazione che arriva così, proprio in un momento in cui avevo fatto delle scelte molto chiare, molto dichiarate, tra l’altro a seguito del non-matrimonio, ero una relazione di passaggio molto particolare, questa persona era a conoscenza, mi è sembrato veramente un atteggiamento manipolativo. E mi ha punto, mi ha proprio punto. E stasera guardando il documentario mi è tornato in mente e ho detto: “ma questa informazione chissà dove ha posato in me perché io comunque mi son sentita inadeguata. Io mi sono sentita inadeguata”. E nel mio percorso di analisi io questa cosa la riportavo, l’inadeguatezza, il fatto che a trentacinque anni non avessi ancora figliato. Era stata una corsa alla fine, ribadisco, al netto di un desiderio secondo me un po’ più puro e anche poetico, che tengo e di cui ho cura. Però c’è un’altra parte che era proprio solo: “Per favore riconoscetemi non diversa”. C’è già una vita di fatica come artista o come neurodivergente per la mia alta sensibilità. Cioè, è già una vita di fatica, per favore datemi il mio posticino che però poi ha stappato ben altro.»

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