L’artista Giusy Calia racconta del suo lavoro creativo e delle sue ispirazioni, in particolare legate alla figura della donna e alle devianze: grazie al suo interesse per le istituzioni totali, quali i manicomi femminili, Giusy Calia ha avuto la possibilità confrontarsi con Alda Merini e la sua esperienza e visione di maternità.
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Ecco la trascrizione completa del video:
« Io riflettevo su una cosa, sulla parola Lunàdigas e mi fa venire in mente… siccome mi sono occupata tantissimo dei manicomi, della tripartizione dei manicomi: delle donne agitate, donne sudice e donne tranquille, no? e io avrei messo… cioè… mi sembra strano che non ci sia un quarto padiglione, no? Le “Lunàdigas”, perché la sento proprio una restrizione importante per la donna, il fatto di vederla come una persona senza figli, no?
Perché in realtà figli ne abbiamo sempre, non sono figli naturali ma possono essere figli dell’anima; anche le nostre opere sono in qualche modo nostri figli. Infatti per alcuni – si parlava soprattutto con le mie amiche artiste – lasciare andare i figli nel mondo è difficile a volte. Perché io le sento proprio a volte proprio mie creazioni, cioè cose che abbiamo partorito in tutti i sensi. Poi è chiaro che è molto differente il fatto di non avere figli… ed è difficile lasciarli andare.
Per molto tempo mi sono occupata della figura di Ofelia, di Ofelia che si è suicidata in acqua, e alla fine al posto di rappresentarla alla maniera di Millais – l’Ofelia presentata tantissime volte: fiume, letto di fiori e lei che si adagiava in questo utero – alla fine ho cercato di rappresentarla proprio come se lei fosse in un grembo materno e partorisse se stessa. E quindi ho fatto dei video e delle riprese subacquee in cui c’era un cordone e questa donna che, in qualche modo, partoriva se stessa.
Ecco, io mi sono sempre chiesta se avessi il desiderio di avere figli, cioè in che modo mi confrontassi con il desiderio di avere figli e non l’ho sentito come istinto naturale; non mi sono sentita, forse perché mi sono presa cura di altri. Ci sono anche figli genitoriali e io credo di essere stata una figlia genitoriale. Ho sentito molto mia mamma mia figlia in certi anni soprattutto, parte topici della nostra vita, in cui io mi sono presa cura di lei in maniera diciamo totale e come se avessi una bambina. E credo che quando un figlio assume questo ruolo sia difficile poi avere figli propri perché in qualche modo li abbiamo avuti, ed è stato uno stravolgimento anche questo della realtà e della quotidianità.
E poi nel tempo comunque ho avuto questo istinto, all’inizio con alcune persone, con i miei studenti, con uno in particolare, mi sono sentita sua madre. E’ stato un transfert importante perché è la prima volta che ho sentito la maternità. E’ stato molto forte… boom, ed è stato bello perché in realtà ho sentito che ho potuto trasmettere in questo rapporto dialogico, questo io-tu bellissimo: di comunione, di nutrimento… tutto il mio affetto, tutta la mia, diciamo, possibilità di nutrimento… è stato bellissimo.
Credo che sia complesso come discorso, un discorso estremamente complesso.
Ho sentito anche la pressione di mio padre nel chiedermi ogni tanto: “beh, un nipote? beh, un nipote, un bel nipote?” e nel suo migrare verso i suoi nipoti, che potevano partorire. Quindi ho visto anche questo, il sentire quest’ombra che cadeva su di me e poi mio padre che si affidava a questo essere nonno “fittizio” dei suoi nipoti.
È stato strano perché in qualche modo ti fa sentire come in deficit, cioè ti toglie… però se tu rimani fedele a te stesso, a quella che è la tua natura non puoi sentirti così snaturato da te, no? Ma senti che la società ti vede come qualcosa che è mancante di.
Ho riflettuto moltissimo sui manicomi anche perché ho conosciuto Alda Merini e ho potuto fare la tesi con lei, la mia seconda tesi l’ho fatta con lei, cioè l’abbiamo fatta a quattro mani nel senso che lei mi ha aiutato tantissimo. Lei mi parlava dell’essere madre. E’ stata una cosa che lei ha vissuto con grande dolore perché poi i figli le sono stati tolti e in questo continuo entrare e uscire dal manicomio… e quindi il marito appena usciva la metteva incinta, poi ritornava in manicomio e quindi c’era questo moto ondoso, no? E lei si sentiva solitamente frustrata nel dare figli al mondo che poi venivano tolti. Però in qualche modo lei si è sempre sentita madre delle figlie in maniera viscerale perché diceva che comunque c’era qualcosa all’interno che collega sempre, che collegherà sempre la madre e il proprio figlio; e comunque si sentiva anche figlia del manicomio, quindi in questa dicotomia importante: il sentirsi anche strappata, queste viscere che venivano strappate, le figlie che venivano portate in altre famiglie. Ha scritto anche dei diari importanti su questo strappo delle figlie e diceva che il manicomio generava proprio mostri, generava mostri di catalogazioni. E c’erano donne che avevano partorito e avevano anche ucciso i propri figli; c’erano delle donne che invece avevano delle gravidanze isteriche; c’erano delle donne che molto spesso avevano dei bambolotti come figure sostitutive dei propri figli e lei s’interrogava sul fatto che la natura veramente creava delle possibilità diverse, lei non si meravigliava – chiaramente, essendo là – però ha detto: “ho voluto sempre cantare quello che le donne hanno detto”, quella che è la voce del silenzio delle donne, perché è una voce che chiaramente la storia ha fatto tacere per anni, secoli e millenni. E chiaramente una donna che non ha figli è una donna fuori dal coro: ancora oggi ti guardano strano: “eh … ma come mai non hai figli? C’è qualcosa che non va in te?”. C’è sempre questa idea della normalità e dell’anormalità di non averli, oppure ti guardano con compassione come dire “non sai cosa ti perdi”, no? Senza chiedere mai ad una persona: “tu cosa vuoi realmente?”, “tu chi sei?”. Ecco questa domanda della società è una domanda che viene omessa. Il “tu chi sei realmente”, no? Questo discorso che è stato fatto sempre dai grandi filosofi e poi mai messo in pratica, no?
Lèvinas, “la teoria del volto”; il volto che ci guarda e che ci riguarda mi interroga moltissimo; ecco perché faccio tante iridi, perché mi piace lo sguardo dell’altro e attraverso lo sguardo dell’altro io mi riconosco e se lo sguardo è deformante mi chiedo: che cosa riconosco di me? Che cos’è che mi rimanda lo sguardo dell’altro? Il fatto di non essere una donna perché non ho figli? Il fatto di non essere una donna perché non vivo una vita “regolarmente”… diciamo accettata, accolta? Oppure di essere una persona che comunque è venuta al mondo per trasformare quella che è la linea tradizionale della società? Cioè nel portare una voce nuova nonostante io senta ancora il profondo disagio dello sguardo che deforma. Questa è una cosa che mi fa molto, molto male; è lo stesso sguardo che può sentire una persona così affermata come Alda Merini che si è sempre sentita matta e lei ha detto – mi piaceva molto questa definizione – mi diceva: “Giusy, sai perché sono stata in manicomio? Perché mi preservava dalla follia delle persone che sono fuori”. Ed è stato bellissimo perché può essere una cosa di retorica però in effetti la capisco, perché quando si è in una situazione limite, estrema, in queste istituzioni totali che vengono create per rinchiudere le diversità – ancora oggi ci sono le istituzioni totali, che son le menti delle persone – lo sguardo dell’altro può veramente fare molto, molto, molto, molto, molto male e anche uccidere. »
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