A seguito della proiezione del film “Lunàdigas o delle donne senza figli”, un gruppo di donne di Latina si mette in dialogo nella forma di cerchio dando vita a uno spazio di confronto, di condivisione e di testimonianza delle molteplici sfaccettature dell’essere figlie, madri, non madri, donne.
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Ecco la trascrizione completa del video:
[le partecipanti si salutano – vocio indistinto]TATIANA: «[Nicoletta] È venuta a Latina a settembre, invitata dal collettivo “Primo Contatto” perché tramite Lavinia Bianchi, che è una pedagogista femminista (io questa cosa la ripeto sempre perché mi sembra bellissima), hanno organizzato questo primo evento nei giardini del Comune. Chi di noi era presente quella sera ha visto che… (l’abbiamo visto anche dopo) sono state intervistate delle donne che si riunivano a Firenze, in altre città, alla “cena delle donne” e quindi ovviamente prese dall’entusiasmo abbiamo detto: “riproponiamolo anche a Latina”.
E in attesa di questa prima scena abbiamo contattato le donne della cena delle donne di Firenze che, a loro volta prese dall’entusiasmo, perché questa cosa dell’entusiasmo credo che sia molto femminile, ci hanno invitate ad andarle a seguire. Loro si incontrano tutti gli ultimi venerdì del mese da quindici anni e non hanno mai perso un incontro.»
DANIELA: «Io mi chiamo Daniela e ho cinquantotto anni e non sono sposata, non sono più sposata. Ho una figlia. E ho fatto per molti anni… ho lavorato come grafica. Poi ho iniziato a lavorare nell’azienda della mia famiglia che è un’azienda di forniture industriali per il settore farmaceutico… e adesso abbiamo deciso di vendere, quindi io adesso a cinquantotto anni mi ritroverò…»
VOCE OFF: «…una ricca ereditiera!»
DANIELA: «… una ricca ereditiera. No, mi ritroverò una ricca ereditiera mi sembra troppo, però una persona che non ha – diciamo – un’urgenza economica. Però io amo lavorare e quindi dovrò inventarmi qualche cosa quindi diciamo sto un po’ affrontando questo momento un po’ destabilizzante. Poi… non lo so… io sono stata invitata da Patrizia, però sono una persona curiosa, mi piace stare in mezzo agli altri, mi piace conoscere persone nuove, mi piace condividere le mie esperienze, mi piacciono le donne e quindi… sono venuta. Diciamo la psicologia femminile, l’essere donna… non so come spiegarlo, sì, in questo senso. Mi piace stare con le donne, mi piace molto e quindi sono venuta qui, pronta a una nuova esperienza.»
PATRIZIA: «Allora io sono Patrizia. Ho sessantuno anni.»
VOCE OFF: «Va beh… ma diteci qual è il segreto!»
ALTRA VOCE OFF: «… infatti stavo pensando la stessa cosa!»
PATRIZIA: «I cioccolatini, infatti ne ho già presi tre, cioè i dolci salvano la vita. [ridono – vocio indistinto] L’entusiasmo, l’entusiasmo. Dunque non ho figli se non degli amici molto infantili che ogni tanto mi chiamano però… E sono una regista, una regista di documentari e lavoro molto sul sociale e mi occupo anche… sono un regista anche di strumenti di comunicazione, come dei video, spot e cose del genere.
Ho abitato a Latina fino al ‘91, no ’93 e adesso invece vivo a Roma e sono qui perché dovevo portare Daniela, sono amica di Tatiana e non sapevo assolutamente di che cosa si trattasse. Quindi sono curiosa e sono qua.»
STEFANIA: «Io mi chiamo Stefania. Tutti hanno detto l’età, quindi ne ho sessantatré e dal primo luglio sono in pensione.
Per una vita ho lavorato come assistente sociale, mi sono sempre occupata degli altri, proprio nello stereotipo della donna che si prende cura di. In realtà ho sempre cercato me stessa anche nel rapporto con gli utenti, me ne sono resa conto poi nel tempo scrivendo di tutto quello che vivevo. Che dire? Nella mia vita ho sempre vissuto in bilico tra due culture: un papà straniero, mamma romana, quindi insomma tanti tanti impicci e tante difficoltà di trovare un’identità che mi raccogliesse. Sicuramente molto importante [è stata] la figura di mia nonna croata che m’ha cresciuto per la maggior parte del tempo.
Ho sempre [avuto] questa figura di donna che è stata molto importante.
Ho quattro figli, di cui tre figlie e un bambino. Allora uno dice: perché stai qui? Conosco Tatiana. Intanto la cena delle donne, il collettivo di donne… non potevo non esserci, nel senso che per me ha sempre rappresentato (appunto a partire da mia nonna, dalla mia infanzia, a tutta la mia vita, il rapporto con le mie figlie), ha sempre rappresentato qualche cosa di molto importante, molto molto significativo.
Io credo che tutti noi cerchiamo solo un’identità e capire chi siamo e devo dire che come specchio le donne sono molto importanti. E quindi sto qui molto contenta di condividere con voi qualsiasi cosa. Non credo assolutamente che sia caratterizzante della donna avere figli. Io il primo figlio l’ho avuto a trent’anni. Non li ho voluti prima e invece li ho voluti dopo, forse in un momento bello della mia vita, ho incontrato la persona giusta con cui metterli al mondo. Sono una grande responsabilità. Mi sono sempre distinta tra l’essere donna e mamma, cioè non è mai confluita la cosa in una confusione totalizzante. Non è così. Ho sempre cercato di mantenere principalmente me stessa, le mie scelte, i miei desideri, le mie cose. A quarant’anni mi sono iscritta all’università. Mi sono messa a studiare, pure con i bambini, insegnando loro il rispetto delle scelte che fa la persona. Io ho sempre rispettato molto loro, loro hanno sempre rispettato molto me. E continuiamo in questo rapporto devo dire molto bello, quindi mi sento anche molto fortunata su questo. Ho sempre pensato che ad essere mamma uno ci deve arrivare dopo un lungo percorso di ricerca di se stessa e non è detto che ci debba arrivare, se ci arriva va bene, se non ci arriva è bene uguale.»
MARZIA: «Io sono qui stasera intanto perché l’idea della cena delle donne – come diceva anche Stefania – mi piaceva tanto (infatti quando Ilaria mi ha raccontato, “l’entusiasmo” è stato abbastanza forte). E in più perché mi piaceva anche l’argomento di questa sera perché io sono mamma, ho due figlie, ma non mi bastano. Non nel senso che ne voglio altre, per carità: bastano e avanzano quelle. Ma non mi bastano nel senso che non mi fanno sentire piena di grazia. E non lo puoi dire. Non lo puoi dire perché sei una pessima madre se lo dici ad alta voce, oppure non hai rispetto per chi i figli magari non ce li ha. Quindi non puoi dire che non sono il tuo tutto. Ho però un buon rapporto con le mie figlie. Ho due figlie femmine anche io. È stato molto sconvolgente questo. Quando ho saputo che sarebbe arrivata la prima bambina, sono stata un po’ presa dal panico, nel senso che mi sono sentita una responsabilità maggiore, oltre a quella dei figli anche il fatto che mi stesse arrivando una figlia femmina. Mentre aspettavo la prima bambina ho letto “Dalla parte delle bambine”, sono rimasta sconvolta e quindi il rapporto che cerco di avere con loro (mi prende, questa cosa mi fa molto) è un po’ il rapporto di cui parlava Stefania, un rapporto di rispetto delle scelte altrui. Io ho odiato allattare, ho difeso il talamo nunziale con i denti perché ho sempre voluto dividere il mio essere madre, dal mio essere persona, dal mio essere moglie. E però anche questo, a volta, non lo puoi dire. È come se nel momento in cui tu metti al mondo due figlie, sei solo quello. L’idea di condividere questa cosa con un gruppo di donne, che immagino siano abbastanza aperte di mente per poterlo fare, nel senso… Attualmente mi ritrovo a frequentare soprattutto mamme, ma soprattutto mamme con cui non mi ritrovo… a parte Ilaria [ride]. Io e Ilaria volevamo le magliette “Free Annamaria” e Annamaria sarebbe la Franzoni. A un certo punto abbiamo quasi pensato che avesse un minimo di ragione…»
ILARIA: «Questo è umorismo cinico, non siamo delle assassine…»
MARZIA: «No, per carità. Mia figlia, mentre vedevo il film “Lunàdigas”… la più piccola, che ha nove anni, mi ha detto: “Mamma, ti prego, non vedere queste cose perché ti viene voglia di abbandonarci!” [ridono] E alla fine del film ho pensato: “Forse forse… forse ho fatto la cazzata!”[ridono] E niente, ecco qua! Questo è quanto.»
SERENA: «Per farvi capire, insomma, da dove provengo… quando oggi pomeriggio ho raccontato a mia mamma cosa avrei fatto stasera, lei mi ha detto: “Tu saresti dovuta andare alla cena degli uomini” [ridono] nel senso che io sono single e non ho figli, quindi “invece di andare a una cena dove ci sono tutte donne, vai a quella degli uomini così forse è la volta buona”. [ridono] Soprattutto mia mamma mi ha cresciuto con il vecchio… lei veniva dal Sud e sognava per noi proprio la classica… poi noi siamo due femmine realizzate, ma la realizzazione passa ai suoi occhi anche attraverso l’avere un compagno, un marito e dei figli. E ancora questo non succede né da parte mia né da parte di mia sorella. E quindi io ho cercato sempre un po’ di combattere contro questo ideale, nutrendomi in realtà di molto altro e quindi, insomma, mi ritrovo quotidianamente a combattere. Ce l’ho dentro casa il nemico, diciamo.
Allora, in realtà non credo di avere ancora una posizione mia personale in merito a questo argomento perché in realtà io amo molto i bambini però non so se amo quelli degli altri o amerei anche i miei. Sono proprio affascinata dal mondo dei bambini. Insomma, in realtà ancora devo riflettere su questa cosa. E poi mi faceva piacere riflettere insieme ad altre persone così come il fatto di creare anche una rete di conoscenze che poi ci permettesse anche di fare molto altro insieme. Quindi, grazie.»
FEDERICA: «Allora, io sono Federica. Oggi ho deciso di festeggiare il mio compleanno con voi perché compio quarantasei anni. [applausi e auguri] Grazie! Sono felice di essere qui con voi e soprattutto di ascoltare. Io sono una psicologa, ma in realtà lavoro come educatrice nelle scuole, sia medie che elementari. È stata una scelta mia personale perché nel corso degli anni ho fatto tantissime esperienze lavorative e questo è quello che mi piace fare. Trovo proprio grandissima realizzazione in quello che faccio. Io, per quanto riguarda il mio percorso personale, ho subìto negli anni una grande metamorfosi. Per dieci anni ho provato ad avere figli. Non è stata una scelta mia di non avere figli, ma è stata una scelta della natura, insomma. Però poi questa cosa si è trasformata, nel corso del tempo, in una consapevolezza che forse è stato meglio così. Ci ho sofferto tanto e poi invece è diventata una consapevolezza di dire: “ok, forse è meglio così”. Quando spesso mi chiedono perché – anche magari i bambini con cui lavoro… mi chiedono: “maestra, ma quanti anni hai? E quanti figli hai?”, io gli dico: “Io non ho… siete voi tutti i miei figli. Io ho tutti voi però la cosa bella è che quando torno a casa io vi rimando dai vostri genitori – [ridono] – quindi durante tutto il giorno state con me però poi torno a casa e mi godo la mia solitudine, la mia libertà di fare quello che mi piace, insomma”. E quindi c’è stata questa profonda trasformazione. Ovviamente c’è volute tempo, ci ho lavorato tanto, ho veramente fatto un grande lavoro su me stessa su questa cosa però veramente adesso ho questa consapevolezza di dire: “forse per me è stato meglio così” perché adesso sono felice di quello che ho, di come sono e di quello che… degli affetti in generale che ho, ne ho tantissimi, dalle amicizie profonde alla mia famiglia, insomma. Quindi sono veramente appagata per quello che ho, dal mio lavoro che mi soddisfa veramente tanto. E nulla, io vi ringrazio perché veramente ascoltare le esperienze, la diversità, le scelte mi arricchisce, mi dona sempre qualcosa. Grazie.»
MANUELA: «Allora, io mi chiamo Manuela. Ho trentatré anni, sono assistente sociale e lavoro in due strutture sociosanitarie. Sono molto contenta di questo spazio perché dal confronto con l’altro in generale, ma soprattutto con altre donne, mi sono sempre riconosciuta, scoperta, messa in discussione. Mi ha sempre fatto sentire adeguata sia nella diversità sia invece in qualche cosa in comune.
Non ho figli e credo di non volerne. Ho un sacco di gatti. [ridono] Però è sempre stato un argomento che non mi sono mai sentita di riportare alla mia famiglia, anche un po’ al di fuori, anche nelle amicizie, perché è sempre un qualcosa… l’ho sempre vissuto come un qualcosa che l’altro vedeva come scomodo. Mi sono sempre sentita un po’ inadeguata in questa scelta. E quindi “Lunàdigas” mi ha permesso di sentirmi meno sola. E quello che vorrei è questo spazio, ma anche spazi più grandi ancora, per poterne parlare liberamente. Tutto qua.»
IRIDE: «Io sono Iride, appunto. Non ho figli. Ho sessantatré anni anch’io, quindi insomma in un momento della mia vita in cui questo desiderio è passato. Sono qui perché sentendo alcune di voi mi sono rivista, ritrovata un pochino in tutte, diciamo, nel senso che io sono una persona curiosa, sono una persona che sta facendo un cambiamento della sua vita perché sono andata in pensione e devo trovare delle altre cose da fare. Sono stata una persona sempre molto molto molto impegnata e quindi niente di meglio che cercare di trovare me stessa cercando di scartare, di superare tutte le cose che nella vita mi hanno accompagnato, quelle che non mi servono più, quelle che ho fatto che non mi piacevano ma le ho fatte lo stesso, eccetera eccetera. E ritrovare invece delle cose da cui mi sono allontanata. Ecco, una di queste cose erano proprio le amicizie femminili, un mondo femminile che per tanti anni… Una volta quando ero giovane c’era un mondo di contatti, di scambi, positivi o negativi che fossero, insomma, ma che poi ho completamente perso. Credevo non esistesse più. Quindi sono venuta qui la volta scorsa dicendo: “guarda, riprendiamo i contatti con qualcosa che avevo lasciato nel passato”, ma non perché non mi interessasse, ma perché i tempi erano diversi, avevo altre cose da fare che mi hanno preso… Adesso ho il tempo di riprendere. E adesso sono molto curiosa di conoscere questo nuovo mondo femminile che vive, che pensa, che cerca contatti che non siano di sola amicizia perché io di amici donne e uomini ne ho sempre avuti, non è che sono rimasta isolata nel mio mondo, nel mio lavoro, nella famiglia, nei miei doveri o quello che sia, però questa cosa l’avevo persa. Quindi la mia curiosità, il mio voler vedere, scambiare, conoscere qualcosa che evidentemente mi manca, mi ha fatto venire a vedere. Sono qui ancora in fase di osservatrice [ridono]. Ve lo dico perché poi quando decido qualche cosa sono molto più invadente. [ridono]»
ROBERTA: «Sono assistente sociale. Ho due figli grandi, uno in Africa e uno a Bologna. Sì, la professione aiuta eccetera, però io ho sempre creduto che prima di tutto ci sia la necessità di realizzare noi stessi. Poi dopo sì, la maternità l’ho voluta, l’ho cercata e sono contenta di aver avuto questi due figli però ad esempio ho studiato dopo che mi sono sposata, e ho fatto la magistrale dopo che mi sono sposata, con i due bambini che mi cercavano da tutte le parti, ma proprio perché ero convinta che un’autodeterminazione personale mi permettesse anche di essere una migliore madre. E su questo, ecco, ci tengo.
Mi piace il confronto. Quando sono venuta a vedere il video qui, ho portato mia figlia che quando siamo uscite mi ha detto: “Ma mi devi dire qualche cosa, mamma? Non ho capito perché mi hai portato qua!» [ridono]
VOCE OFF: «Ma quanti anni ha tua figlia?»
ROBERTA: «Ventidue.»
VOCE OFF: «Sono stata adottata?» [ridono]
ROBERTA: «E le ho detto: “No, perché credo che anche la maternità eccetera deve essere una scelta consapevole, perciò è bello che vedi che ci sono pensieri diversi e anche la consapevolezza di fare le tue scelte in maniera… non per preconcetti, insomma, ma per scelta”. “Ah”.
Quando ho visto che c’era questo incontro, questa gente eccetera, mi ha molto incuriosito e sono contenta perché finalmente a Latina qualcosa si muove [ridono]. E di questo ne sono felicissima. Perciò sono venuta volentieri e con la curiosità e la voglia di mettermi in gioco. Grazie a tutte.»
STEFANIA: «Ciao a tutte, io sono Stefania. Ho trentacinque anni. Sono sempre stata qui a Latina a parte i primi anni di università, in cui ho vissuto a Roma. In questo momento io studio e lavoro perché ho smesso per anni il mio percorso universitario per una serie di motivi personali, di salute e poi alla fine ho deciso di riprendere a studiare e adesso mi mancano due esami, devo fare la tesi, e quindi vediamo come andrà a finire questa storia.
Non ho figli, ho un compagno da quindici anni, però. Viviamo insieme da tredici però su questo fatto di avere figli, della maternità, è sempre stata una cosa un po’ particolare la mia vita. Io sono figlia unica e sono sempre cresciuta con i grandi, nel senso che sono sempre stata la più piccola della famiglia, quindi io i bambini li vedevo proprio come una cosa che non sopportavo, mi si avvicinavano e mi pietrificavo proprio. Però a diciannove anni ho iniziato a fare le ripetizioni. Per una vita ho fatto le ripetizioni, le ho fatte per quindici anni. E sono entrata nel mondo dei bambini e mi sono innamorata. Mi commuovo perché per me tutti sono stati un po’ come dei fratelli. È stato bellissimo fare questo lavoro. Mi ha aiutata in un periodo in cui stavo a terra. Scusate. Ce la faccio. Sono entrata nel mondo dei ragazzi in questo modo però io non ho mai sentito quello spirito materno, cioè l’ho sempre riversato nei miei alunni, chiamiamoli così, ma pensare a dei figli miei, insomma, non è una cosa che mi fa stare tranquilla, forse perché io non sto magari in un periodo della mia vita che mi fa dire “sto tranquilla, posso diventare madre! No, già sto esaurita, immagina se avessi il ragazzino” [ridono]. Forse è questo il problema, quindi diciamo la maternità la vedo ancora come un “ni”. Non lo so, se verranno, verranno, se non verranno, non verranno. Non è adesso il momento di pensare a questo, però, insomma, mi fa piacere sentire le storie perché ognuno ha una storia sua, personale che l’ha portato a fare delle scelte, alcune dal caso, alcune personali. E quindi vi ringrazio di questo spazio e di condividere con voi, queste cose.» [applausi]
ILARIA: «Sono fierescamente romana e Latina mi ha adottato ormai da circa vent’anni. Quando sono arrivata ero giovane ancora, con mille speranze, e pensavo insomma di trovare una città giovane, bella, ricca. Invece purtroppo le illusioni, le delusioni sono piovute dal cielo. [Si rivolge a una amica] Non ti ho conosciuta subito, è vero, cara è però…»
VOCE OFF: «Vivi a San Donato, però…»
ILARIA: «Sì, vivo a Culonia, sì, hai ragione, vivo a Culonia però… scelta mia di trasferirmi dalla città in campagna. Io non volevo essere mamma. Io ai figli non ci pensavo proprio. Non erano neanche nei mie lontanissimi programmi, questo perché di tutte le amiche che avevo con i figli, erano tutte terribilmente noiose e io dicevo: “ma io sono troppo figa per fare solo la mamma, cioè no”.
E poi per fortuna invece una mia amica ha avuto figli e lei era una mamma fighissima e ho detto: “vedi, allora si può fare, figaggine e figli. Ok, se un domani avrò dei figli, vorrei essere così”. E quindi io ho messo subito in chiaro le cose con quello che poi è stato mio marito: “io farò la madre, ma voglio anche rimanere figa”. [ridono – vocio indistinto]
Vabbè però dai, questo, diciamo, è un cerchio protetto, ce lo possiamo dire?
Dai, mi fai perdere il filo, mannaggia alla miseria.
E quindi quest’estate mi ha preso lo schiribizzo. Volevo cercare qualcosa di diverso, qualcosa che mi incuriosisse e per caso ho visto l’evento di “Lunàdigas”: donne senza figli. Ho detto: “mamma mia, ma che è sta roba? Poi a Latina! Vabbè, andiamo a sentire”. Quindi da sola – [rivolgendosi all’amica] perché non t’ho detto niente, te lo volevo dire ma non te l’ho detto – , sono andata da sola e lì la folgorazione perché ho detto: “anvedi, ci stanno donne fighe a Latina e non lo sapevo”. E quindi quando si è alzata lei, quando Tatiana si è alzata in piedi e ha detto: “dobbiamo fare la cena delle donne!”, io dall’altra parte dell’evento: “anche io ci vengo!”. [rivolgendosi a Tatiana] Ti ricordi? E ci siamo conosciute. E poi è stato un crescendo perché ovviamente ho detto: “vabbè, io qua purtroppo un po’ conosco un po’ no” perché ho un’associazione di mamme ovviamente, ma di mamme fighe, non di mamme noiose e quindi ho detto: “la mia cerchia ovviamente è mammesca, però vorrei insomma anche andare oltre”. E quindi poi con Tatiana abbiamo detto: “dai, mettiamo insieme i pezzi, che è quello che tra l’altro mi piace fare, e chiamiamo le donne barra mamme fighe di Latina e facciamoci sentire.»
VOCE OFF: «… ma qual è la definizione di mamma figa?» [ridono]
ILARIA: «Eh io per mamma figa, almeno per quello che mi rappresenta… mamma figa è quella che non è che quando la incontri le chiedi “come stai?” e ti dice: “ho raccolto pappe, ho pulito culi, ho lavato casa, ho stirato”. No, una noia, noia mortale. Mamma figa è quella che ti dice: “ma bene, ma senti quand’è il prossimo aperitivo? Ma… andiamo al cinema a vedere una cosa? Ma lo shopping come sei messa con lo shopping?” Ecco, quelle così, che poi quando ti vedi parli di tante cose.»
DANIELA: «No, è un po’ riduttivo…»
ILARIA: «Questo secondo me, poi ognuno ha la propria declinazione. È una che ci puoi parlare di tante cose, non necessariamente di cacche e pannolini, insomma. Poi ognuno la interpreta un po’ come vuole, insomma. Almeno per me è questo.»
NICOLETTA: «E’ chiaro che sono Nicoletta. Ho quarantatré anni, sono originaria di Latina. E sono agitata. [ridono] Sono sempre stata agitata, sì. [vocìo] Proprio agitata, neanche irrequieta, proprio agitata. E inizialmente non sapevo per quale motivo fossi qui. Cioè, nel senso… Serena ha postato una serie di cose e ha postato questa cosa di “Lunàdigas” e subito sono andata a vedere che cosa fosse “Lunàdigas” e ho avuto proprio una folgorazione. E ho detto: “Ah, caspita vedi? Finalmente si parla di donne che scelgono di avere un altro ruolo
nella società, cioè di ritagliarsi… di esserci come identità”. E poi sono arrivata qui sempre un po’ gentilina, sempre un po’ rigidina… E ho capito perché sto qui, perché siete proprio liberatorie [ridono], cioè sì, è veramente liberatorio. Marzia è proprio liberatoria.
Però devo dire… no, no, io sono mamma, però devo dire che per tanto tempo ho sempre dimenticato di presentarmi come madre. Perché? Perché non era la mia priorità e perché non è stata una cosa distruttiva nella mia vita. È stata un’esperienza, è un’esperienza, però spesso mi dimentico che invece le donne sono liberatorie. L’essere donna è liberatorio, incontrarsi con le donne è liberatorio e quindi ho capito perché per la prima volta ho voluto partecipare ad un collettivo di donne, cosa che io non avrei mai immaginato di fare, perché solitamente invece a me le cose mischiate, miste e strampalate mi piacciono.
E stasera è così, solo che siamo tutte donne, quindi è bellissimo.
Ecco sì, già vi dico è quello che mi porterò a casa. Mi porterò a casa proprio la libertà, quanto lasciare andare ho trovato immediatamente. È bello, è veramente bello, perché invece, secondo me, l’essere madri ci toglie un po’ questo, la liberatorietà, non la libertà, cioè il diritto a sentirsi sciagurate: sciagurate… che in qualche modo poi sembra… ha una doppia faccia del non essere madri. E io ho sempre guardato a chi non è madre non con invidia, ma con tanto rispetto e tanta curiosità perché ci vuole coraggio a non essere in un certo modo. Per questo, dicevo, io arrivo sempre un po’ rigidina, sempre un po’ bravina perché forse per un bel po’ di tempo ho cavalcato questa idea di me. E invece no, non sono né bravina né rigidina. Sono proprio sciagurata. Sono contenta di essere sciagurata con voi. [ride]»
MARZIA: «Io sono stata cresciuta da una nonna che è rimasta vedova a trent’anni, con tre figli, ha sempre lavorato, non si è mai voluta risposare. Ha costruito tre case, ha sistemato i figli. Mia madre è sempre stata la colonna portante economica della famiglia. Anche se hanno fatto quello che la società si aspettava, alla fine, alla ciccia, sono state outsider. Lei faceva riferimento alla mamma… Io sono stata fortunata. Dico sempre sono stata cresciuta da una famiglia matriarcale. Mio padre è una persona stupenda però è come se fosse una figura marginale nella mia famiglia, tanto che noi siamo tutte donne, gli uomini sono arrivati solo portati da noi. Tutte femmine, tutte figlie femmine, nipoti femmine. L’unica che è rimasta incinta di un maschio, a ventiquattro settimane l’ha proprio espulso, il bambino è nato. In casa mia, infatti, gira la leggenda che siamo noi donne a decidere. Mentre il sesso di solito lo decide l’uomo, nella mia famiglia c’è questa leggenda che sono le donne a decider il sesso [ridono].
Tanto del mio modo di essere e di pensare deriva proprio dal fatto che sono stata cresciuta da questo tipo di donna… e quindi è interessante sapere…»
SERENA: «No, è interessante perché invece il mio essere adesso è proprio perché ho combattuto contro quella figura.»
MARZIA: «Vedi, e siamo arrivate comunque più o meno allo stesso punto alla fine. [vocìo indistinto]. Gli stereotipi di genere che hanno sempre vissuto le donne mi sono sempre stati stretti. Io sono sempre stata il contrario di quello che ci si aspetta o che la donna, la femmina, la bambina doveva essere. Ho combattuto tutta una vita contro questa cosa, e quindi l’idea di avere delle bambine… Io ho due bambine che sono totalmente diverse tra loro, dimostrano sul campo che “bambina” non vuol dire essere questo e quest’altro, perché loro sono due femmine, portatrici sane di vagina ma sono poi totalmente diverse l’una dall’altra. E quindi…”
SERENA: «… perché invece, nella mia storia, io mi sono sentita più capita su questo aspetto dalla figura maschile di casa, cioè mio padre. Infatti è esattamente il contrario, l’opposto.»
NICOLETTA: «Oggi, parlando con mia madre, lei mi rimanda che io sono stata la sua emancipazione ed io questo ruolo l’ho sempre sentito perché fin da bambina io ho sempre detto “no”. No. Non c’era posto per me. Non c’era posto per me. E adesso mi commuovo perché è una roba forte, perché non c’era posto per me. E quindi la difficoltà è proprio, non lo sgomitare, è proprio “stare”. Non c’è bisogno di sgomitare. La difficoltà è proprio stare con calma, tranquillità ma lì, lì dove scegli di stare. Senza troppa agitazione. E quindi in questo senso io dico che sono contenta di essere cresciuta dentro una famiglia tradizionalista, cattolica, pesantona perché adesso che ho una figlia grande di tredici anni, che poverina ha una madre che la tartassa di novità, quindi lei ha questo ruolo che poveraccia le ho mollato… però la possibilità di dirle subito: “Tu sei quello che vuoi!” lei lo sa. Lo sa perfettamente. Non lo sanno quelli fuori. Quelli fuori non lo sanno. Lei lo sa. E poi ho altri due bambini, piccoli gemelli, che sono due “femmini”. Sono proprio due “femmini” nel senso che – e lei li conosce bene [si riferisce a Serena] – ho un bambino piccolo che dall’età di tre anni litiga con la cugina perché la cugina gli dice che lui non può indossare le calze e lui le dice: “Io faccio quello che voglio e tu non mi dici che il rosa non lo posso portare”! Poi parliamo veramente di sciocchezze però mio figlio non vede l’ora di tornare a casa per mettersi le calze perché vuole sentirsi contenuto. E penso pure che sia riduttivo dover spiegare continuamente che ci sono delle cose, delle motivazioni. Le motivazioni sono riduttive certe volte. Per quello io sono tanto contenta di aver trovato un gruppo dove non c’è bisogno che vi chiedo: “avete figli?” Perché mi dovete delle motivazioni? Le motivazioni ci riducono. Sono proprio riduttive. E quindi, basta.»
ECATERINA: «Io sono Ecaterina, vengo dalla Romania. Ad agosto faccio venti anni da quando sto a Latina. Praticamente sono arrivata a Latina la prima volta che sono arrivata in Italia e non mi sono mossa. Ho messo proprio le radici forti. Ho figli. Pensavo di averli voluti, poi mi sono resa conto che [ridono] mi sono capitati, li ho tenuti, li ho cresciuti, li ho amati però tornassi indietro non li farei con la mente di adesso. Li ho fatti perché la società era così, perché dovevi essere madre, perché dovevi sposarti, era tutto un iter che la donna doveva fare. Mi stava stretto ma non conoscevo altro. Facevano tutti così, anzi mi sono sentita sempre inadeguata perché non mi sentivo una brava madre. Sono dovuta arrivare a quarantasette anni a rendermi conto che ci sono tante donne come me, anche donne che non hanno scelto di avere figli, se hanno fatto un figlio dicono: “boh, io l’ho fatto però non è che ho il senso di maternità innato, me lo cresco”… e mi ci sono ritrovata.
Penso di non avere mai avuto vere amicizie tra le femmine per il discorso che dove giravo si parlava di figli, di marito, di cucina, di casa, che noia, che barba… A me ha cresciuto mio padre, non perché non ho una madre ma mia madre… non lo so, può darsi pure che pure lei non voleva figli. Non ci ha mai amati. Non ha fatto neanche lo sforzo di far finta che ci amasse. E invece mio padre mi ha dato tutto l’amore, la cultura, l’amore per i libri, per il cinema… quindi mi sentivo molto… Ci ho pensato tante volte: “ma forse dovevo nascere maschio perché a me piacciono più quelle cose”. Non mi ci trovavo nemmeno come donna, non mi ci riconoscevo. Ma non perché non sono donna, ma proprio perché pensavo ad altre cose, invece intorno a me le donne parlavano solo di quello, pensavano solo a quello. Tre anni fa ho scoperto un gruppo di lettura e mi ha colpito il fatto che una delle persone, una donna che partecipava a questo gruppo di lettura, ha detto: “Oh, finalmente posso parlare con qualcuno di libri e non di: cosa cucini oggi? Cosa hai fatto da mangiare stasera? O queste cose così”. E ho scoperto: “le donne mi piacciono!” [ridono]. Sono contenta, adesso sono contenta che sono donna. Sto ancora lavorando su me stessa. Mi sto scoprendo mano a mano che vado avanti, cioè sono arrivata a quarantasette anni e mi sto scoprendo adesso. Per me è una rinascita. E il fatto che ci siano così tante donne qua, mi sono trovata in tante di loro, per tanti motivi diversi, è bellissimo. È bello. Sono contenta.»
PAOLA: «Io vi ringrazio tanto per questa occasione di stasera che è bellissima. Ho partecipato agli altri incontri di “Lunàdigas” e non pensavo che fosse così bello. A tutti dicevo: “no, il due febbraio ho da fare” [ridono] – “Ma che devi fare?” – “Eh, ho da fare”. Non sono uscita ieri sera perché poi lavoro la sera. Le mie amiche si sono arrabbiate. “No, devo uscire domani sera” ho detto. Aspettavo questa serata. Ho quarantaquattro anni e vivo con una gatta di nome diù. Sono campana di origini. Sono arrivata qui nel 2006. Sono stata sposata. Non ho avuto figli. Adesso vivo con la mia gatta. Sono una docente di italiano per gli stranieri. Inoltre insegno nella sezione carceraria qui nel carcere di Latina, tra l’altro la sezione femminile. Sono state delle esperienze che sono arrivate nella mia vita in un momento particolare di trasformazione. E sono state bellissime. Pensavo di andare a insegnare e una delle prime classi che mi è stata data era di mattina, tutte donne. Ma donne favolose, che mi hanno trasmesso tantissimo, di una forza grandiosa. E per me non è andare a lavorare: afghane, indiane, rumene, curde… è un’occasione di crescita e un’esperienza di vita bellissima per me, che si arricchisce quest’anno con l’esperienza con… loro si fanno chiamare “le donne di via Aspromonte”. Sono le donne della sezione carceraria femminile di Latina. E anche lì ho scoperto la forza di donne straordinarie. Ci sono andata con paura e in punta di piedi perché avevo paura anche di ferire. Non volevo essere né aggressiva né… insomma, perché loro si sentono discriminate. Loro sono in carcere. E quindi la situazione è sempre chiedermi come sto lavorando, come stanno andando le cose, però anche lì si è creata una comunità. Io mi dimentico di essere nel carcere e sono con delle donne che mi stanno dando tantissimo. C’è uno scambio immenso. E la cosa che ho notato è che forse per la prima volta nella loro vita riescono ad essere anche donne perché fanno parte di famiglie molto strette dove forse venivano proprio annullate, dovevano essere mamme, mogli, zie, in nuclei familiari con una visione molto sulla cura della casa, dei figli e degli interessi che c’erano. E quindi per la prima volta anche loro, ed io con loro, riscopriamo la nostra identità, le nostre passioni. Lì stanno scoprendo se stesse e anch’io con loro. Vi ringrazio anche di quest’altra occasione che mi date per conoscermi e per crescere con voi. Grazie.»
ISABELLA: «Sono stata microfonata. Non pensavo di essere la penultima, di vivere con particolare ansia questa cosa. Sono Isabella, ho quarant’anni e – Marzia – sono assistente sociale pure io [ridono]. Però non è una cosa… non mi piace mai dire sono un’assistente sociale ma faccio l’assistente sociale perché è una cosa che mi sembra una parte del ruolo che in questo mondo, in questo momento storico sto mettendo in atto. Sono un’inquieta esistenziale, nel senso che una cosa che mi è sempre stata molto comoda è anche la precarietà lavorativa, fino a qualche tempo fa, nel senso che ho all’attivo più di dieci traslochi. È una cosa che mi ha sempre fatto gioco, cambiare casa, cambiare posto dove stare, cambiare lavoro ogni due, tre anni. Era una dimensione che all’inizio pensavo potesse essere problematica ma invece quel cambiare sempre mi corrispondeva particolarmente.
Non ho figli. Non ho un compagno, una relazione stabile. Una cosa a cui ho pensato spesso, in relazione a questa cena, è che mi sembrava un pochino una cosa da voler dire per autolegittimarmi e perché mi facesse anche forza. Il non avere figli è sempre stata una condizione piuttosto problematica per me. È sempre una cosa che ho sentito come se fossi un essere umano colpevole in questo. Mi è sempre stata, in un contesto familiare, prevalentemente lanciata addosso come una condizione di mancanza, quindi è come se fosse un arto… o comunque una condizione che vivessi con colpa. Una cosa che invece mi ha aiutato moltissimo nel percorso di legittimazione è una possibilità che mi ha dato mia madre. La possibilità di dirmi: “Oh, tranquilla, si può fare!”. Sembra una sciocchezza però nel momento in cui tua madre ti dice: “guarda che puoi legittimamente sentirti adeguata, non scegliere di essere madre” è una cosa che mi ha dato quasi (per questo mi risuonava molto quello che diceva prima Nicoletta)… un ruolo, una possibilità di essere, un “ci posso stare qua, anche se ci sto scomoda, anche se non è la condizione che mi sono scelta, che non so cosa sarà un giorno”. Lo posso fare. E lo posso fare nella misura in cui la persona che ti mette al mondo ti dice anche: “non sono sempre stata particolarmente comoda in questa condizione qua”. Si può dire. Ci può stare. Ci puoi stare anche come figlia nel momento in cui tua madre ti dice: “non è che ero proprio proprio contentissima tutte le volte in cui sono rimasta incinta. Ho pure messo in discussione che fossi stata in altri momenti avrei fatto altre scelte”. E paradossalmente per quanto potrebbe sembrare dolorosa, a me questa possibilità di connessione con mia madre, in cui lei mi ha detto: “guarda che anche per me è stato faticoso”, per me è stata proprio un “allora si può fare, ci può stare questa condizione”. Un’autorizzazione di esistere in questo stare, non stare, stare incerto, che era un po’ la condizione di precarietà dell’inizio, che forse è la mia condizione. C’est tout!»
SERENA: «Ti faccio parlare con mia mamma, allora!»
STEFANIA: «Si può scegliere altro. Io ho sentito che è stato importante quel rapporto che abbiamo avuto perché lei si rappresentava sempre in negativo: la mamma, quattro figli, ce l’hai fatta… Delle volte uno si fa anche delle idee troppo alte. Mia figlia, una delle mie figlie, la prima delle mie figlie che ha trentatré-trentaquattro anni (neanche so bene quanti) [ridono] non ha figli, ha storie varie però è ancora alla ricerca di se stessa. Sentivo questo paragone. Mi è piaciuto quello che ha detto Isabella perché mi ha confermato con questa cosa che c’è stata tra me e lei, non tantissimo tempo fa, proprio in cui io gli ho detto: “guarda, io penso proprio che sia importante che tu faccia la tua strada e non considerare che questa sia l’unica strada che c’è, quella di aver figli”. Non lo so. A me è piaciuto rimanere incinta però penso possano piacere tante altre cose e tante altre scelte.»
DANIELA: «Io quando ho cercato di avere un figlio, non ci sono riuscita. Io ho provato per dieci anni ad avere figli anche rivolgendomi alla fecondazione assistita. Insomma, è stata un’esperienza molto lunga e anche molto dolorosa, però non ci sono riuscita ad avere bambini. Ne ho persi due. Però io, diciamo, avevo un sogno, che era quello dell’adozione a prescindere dal mio percorso personale, insomma, come madre biologica. E quindi ho portato avanti tutte e due le strade, però in questo percorso di molti anni ho fatto, insomma, i conti proprio con questa idea di maternità che da una parte mi sembrava una cosa che completasse la mia vita, no? Nel senso… una cosa che mi desse la possibilità proprio di mettere le radici come donna, forse perché era una cosa che non riuscivo a raggiungere. È stato proprio veramente sconvolgente, doloroso. Però alla fine ero riuscita a trovare un equilibrio, a trovare proprio una gioia nella mia vita, indipendentemente dal fatto che non ci fosse un bambino. E in quel momento sono stata chiamata dal Tribunale dei minori per una bambina. E quindi ho una figlia adottata, che ho adottato grande perché Giada quando è arrivata aveva dieci anni. È stata un’esperienza che mi poi riportato indietro, no? Adesso è una ragazza di ventitré anni, studia psicologia, una femminista, infatti dovrà venire qui, convinta, non vuole figli. Pure lei dice che non vorrà figli. Però per me è stata una cosa bellissima perché comunque diventare madre a quarantaquattro anni di una bambina di dieci anni non è proprio una passeggiata. È proprio un cambio di vita pazzesco.»
VOCE OFF: «Tanta stima.»
DANIELA: «No, no, io ero sposata perché l’adozione in Italia… Sono stata sposata per quindici anni e poi… Niente, insomma, dico che non è stato facile, non è stato facile. Non è stato facile conciliare appunto la maternità con questa mia idea di essere mamma. Io volevo essere madre, proprio sono stata felicissima di essere madre, sono stati gli anni più belli della mia vita. Io non volevo neanche perdere un minuto.
Anche adesso appena posso stare con mia figlia… cioè mi sembrava proprio… non la lasciavo a nessuno, sai di solito si lasciano alle nonne, però io ero talmente desiderosa di costruire questo rapporto con lei…
Ho ascoltato con attenzione tutto quello che che voi avete raccontato. Io mi sono trovata un po’ in tutte queste storie perché io ho vissuto la fase del non riuscire ad avere bambini, quella di riuscire a fare la pace con me stessa, quella di me come donna rispetto alla società, donna senza figli, quella della maternità proprio “d’urgenza”, diciamo così, perché comunque ti arriva in casa un bimbetto così e ti devi dar da fare. Non c’è più tempo di pensare: un bambino vuoto, lo devi riempire di contenuti, lo devi stimolare, devi essere genitore. Devi essere però anche te stesso, no? Il bambino non lo puoi soffocare, quindi comunque riuscire a trovare un equilibrio tra quella che ero io, che ero stata fino a quel momento, tutti i miei interessi, le mie cose…
E quindi, niente, dico che stare qui è proprio interessante per me, perché mi ritrovo in ogni pezzo delle storie che state raccontando.
A me piace proprio essere mamma [ridono], mi piace tantissimo.
E la cosa che mi piace è che io per tanti aspetti non ho avuto una vita fortunata, però in questo mi ritengo molto fortunata perché io penso che i figli sono i figli di tutti, i bambini sono i figli di tutti. E che si può veramente accogliere un minore e dargli tanto. È un’esperienza veramente molto, molto grande che arricchisce proprio tanto. E poi alla fine diventa carne tua, dopo cinque minuti che ce l’hai. Va bene, questo.»
STEFANIA: «Essere donna e non voler figli o non avere avuto figli o essere donna e avere avuto figli per scelta o non per scelta: non è che mi sembra una battaglia molto diversa rispetto al sistema in generale degli stereotipi, che stanno appresso alla donna, alla maternità, alla famiglia, all’avere figli.
La cosa che mi è piaciuta è che partendo da un problema, da un’esigenza di donne che non hanno avuto un figlio, hanno scelto di non avere figli e si sono sentite in qualche modo discriminate da questa società patriarcale in cui viviamo e io mi ci riconosco anche come mamma e come donna. Ho voluto figli, ma ho voluto figli in un altro modo, cioè non mi ci ritrovo manco io in questo sistema che etichetta le donne come appunto “rami secchi” e mule e bla bla bla, ma etichetta anche le donne che hanno figli come mamme, angeli del focolare, con questo istinto di maternità… No. A me è piaciuto tantissimo essere mamma. Mi sono sentita anche quando ero incinta col pancione, piena così. Ma è stata una cosa mia. Mi sono sempre sentita una ragazza madre, con quattro figli, pur avendo un compagno, un marito, perché era una cosa mia, me la sono vissuta… Però credo che la società, il sistema in cui sono messa, ho dovuto combattere per un modo di essere madre diverso. Capito? Non è che mi sono sentita… è un sistema che dà fastidio… io penso che deve dare fastidio a tutti perché è proprio una cosa che non funziona, che non sta né in cielo né in terra, che ci obbliga a essere quello che non siamo. Io spero di essere stata madre in una maniera diversa da come mi volevano far diventare, da come mi volevano far sentire.»
ROBERTA: «E perché lavori? E perché lavori tutto il giorno? E perché non chiedi il part-time?» (vocìo indistinto)
DANIELA: «Io ho avuto un’esperienza un po’ particolare. Mi sono ritrovata poi tanti problemi da affrontare. La solitudine. In Italia noi non siamo pronti per affrontare certe cose. Già il problema “tribunale dei minori”: qui entriamo in altri ambiti. Però, per esempio la scuola, il supporto psicologico rispetto a certe cose e anche poi alcune persone che parlavano della mia maternità come un atto… “che bella cosa che hai fatto! Che bel gesto che hai fatto!”. Non è che io non lo volevo vivere così. Io lo vivevo, punto. Era una cosa che mi dava proprio di etichetta “hai fatto un’opera di bene”. Questa cosa a me ha dato proprio fastidio, profondamente. Forse è stato questo, più che altro. Da parte della mia famiglia, mia madre mi ha detto cose del tipo… che ne so, mia figlia ovviamente non mi chiamava mamma perché aveva dieci anni e quindi c’è volute del tempo perché succedesse questo, però nel momento in cui stava per accadere, non so, mia madre telefonava, io ero al lavoro, mia figlia stava con la nonna, e dice: “Ti passo Daniela”. E io dicevo: “Mamma, dille mamma! Sta cercando di… A me piacerebbe. Poi se succede bene, sennò”… E lei: “Però a me sembra strano, mi sembra strano vederti madre”. Ho fatto: “Va bene mamma, ma cerca di andare oltre” [ridono]. Io ho avuto questo tipo di problemi con la mia famiglia. Loro erano talmente trasparenti, è arrivata questa ragazzina, tu hai quarantaquattro anni, non sono entrati nella parte subito, però io ho apprezzato più questo che un qualcosa di appiccicato, di incollato sopra. Però, insomma…»
FEDERICA: «È stato un percorso per tutti, in realtà. Sono Federica, ho trentotto anni. Adesso il mio più grande amore è il mio lavoro. Sì, è qualcosa che mi fa svegliare la mattina felice. Non mi era mai capitato. Mi è successo due anni fa. La vita mi ha regalato questo. [ridono] No, non potrei fare l’assistente sociale. Sono troppo emotiva. Sono emotiva, non rimarrei di parte [ndr. imparziale]. Non lo potrei fare. No, mi occupo di gestione della formazione in una azienda di circa duecento dipendenti. È un po’ come essere mamma, soprattutto degli stagisti. Soprattutto perché è un ambiente maschile il mio, quando entra una nuova assunta donna per me è tanta roba, quindi parte un femminismo esagerato anche perché è un ambiente maschile e spesso maschilista (anche se il mio capo, nonostante sia un uomo, è una persona meravigliosa).
Sono qui un po’ per egoismo, forse, perché vivendo in un ambiente maschile e maschilista tutti i giorni, forse ho bisogno di tutta la vostra energia per ritrovare la parte più femminile di me perché sto in un periodo in cui sono molto aggressiva, molto determinata, e ho perso forse la mia femminilità.»
VOCE OFF: «Hai respirato forse troppo testosterone!»
FEDERICA: «Sì, ma talmente tanto che ne ho fatto piangere qualcuno, però non fa niente. Anche questa è una fase della vita. Passa. Ragazze, sono qui perché ho bisogno di voi. E spero di darvi qualcosa, insomma. Per quanto riguarda la maternità, se me l’aveste chiesto un anno fa sarei scoppiata in lacrime perché era stato il mio più grande fallimento non aver avuto un figlio. Oggi dico che sono mamma di tante persone, di tanti eventi, di tante situazioni. Sono mamma, felice di esserlo.»
SILVIA: «Non so se non ho avuto figli per scelta. Penso di sì, ma le mie scelte sono sempre state un po’ prese da parti di me che per fortuna sono state abbastanza autonome, indipendenti perché non so che avrei fatto se avessi seguito le impronte che mi erano state dettate. Non ho figli, sono contenta di non averne, ma non mi interessa questo in realtà, era solo per allacciarmi a “Lunàdigas”.
Faccio un lavoro in cui raccolgo tante sofferenze. Oggi proprio ci pensavo perché ho avuto delle pazienti abbastanza giovani e mi sono domandata – forse proprio in vista di questa sera – quanto io mi debba trovare in realtà a fare una sorta di genitore “compensatorio”, cioè ti devo restituire quell’immagine di te amorevole che tu non hai ricevuto in quindici, venti, venticinque, trenta, cinquanta, settant’anni. Quindi in un certo senso mi dico: “Wow, però come terapeuta sono una brava mamma”! Non so se lo sarei stata come madre, però il “se” mi fa piacere che rimanga. Sono qui perché mi piace uscire la sera ma solo quando le attività sono strutturate, sennò mi annoio ad andare al pub a bere, o fare cose così, ad andare in giro per la piazza. Mi piace molto quando si esce perché si ha un obiettivo comune, quindi sono molto contenta di partecipare.»
VANESSA: «Ci tenevo particolarmente ad esserci stasera. Io non sono madre. Non so se vorrò esserlo, forse sì. Ogni tanto mi capita con il mio ragazzo di scherzarci e dire: “Dai, su, facciamo un figlio!” ma in realtà non è assolutamente in previsione e ci scherziamo tanto. Poi quando magari l’argomento si fa più serio, smettiamo di trattarlo con tutta questa semplicità. Ci tenevo stasera ad esserci – ero stata anche all’altro incontro, quando c’è stato il documentario – perché credo e spero che questo sia un luogo sicuro di cui comunque sentivo di aver bisogno perché ne frequento pochi. Sono molto giovane, quando ho iniziato a fare politica ero ancora molto più giovane, ed è un po’ faticoso [si commuove – voci di conforto]. Io sono un fenomeno, comunque: ultima arrivata, piagnona. Scusate. Mi ritengo femminista. Frequento ambienti spesso con poche donne e anche non troppo femministe, però capita di incontrarne sempre di più. Credo che questo gruppo sia veramente un luogo sicuro, quindi ci tenevo, anche se alla fine di questa faticosa giornata, a ritagliarmi anche un po’ di tempo per passarlo insieme a voi.»
MARZIA: «Io che ho lavorato tanto per liberarmi da alcuni preconcetti, ancora se viene un’amica a casa e ho la casa fuori posto mi vergogno. E per quanto non sia una cosa razionale, è una sorta di “refuso” che torna su. Perché dovrei vergognarmi di un’altra donna che probabilmente sta anche nelle mie stesse condizioni? Perché dovrei preoccuparmi che la casa è sempre in ordine, quando sinceramente non mi interessa che sia così? Però mi viene in automatico, quindi significa che è talmente tanto radicata questa cosa a livello culturale, che dobbiamo proprio fare una riprogrammazione, secondo me.
Mia madre forse era un po’ come me, nel senso che lo doveva fare ma non ha mai amato farlo. E quindi poi alla fine lo ha subìto tanto e un pochino l’ha sofferta questa cosa. Noi comunque facevamo tante altre cose però poi pulire bisognava farlo e lei lo viveva male, quindi io lo vivo male come lo viveva male lei. Nel senso: io preferisco andarmi a fare una passeggiata che stare a pulire casa, però poi quel caos mi rende nervosa. Quindi arrivo ad un certo punto che mi devo costringere a farlo…»
VOCE OFF: «Quello è l’ordine delle cose, è l’ordine dell’universo, in realtà.»
MARZIA: «Sì sì, no, il mio era un esempio. Il mio era un esempio poi alla fine di quello che può essere l’educazione che ci è stata data a livello anche sociale, degli stereotipi che subiamo.»
ILARIA: «È vero, mia nonna era così. Mia nonna era così: “metti a posto perché sia mai che venga qualcuno, mi bussa la signora di fronte per il caffè, è brutto che stai sul divano”. “Nonna, ma sto sul divano non è che sto ad ammazzare qualcuno” [ridono]. Però questa cosa da ragazzina mi è rimasta: io sia a casa mia che a casa degli altri, io sul divano sto composta sempre con la cosa che qualcuno che mi vede che magari sto così sul divano, stanca… No: si sta seduti composti. E lo riporti poi a chi vive con te: “c’è qualcuno, devi stare composta!”. [vocìo] L’esempio del mettere a posto casa è solo – credo – la punta dell’iceberg di quello che poi è fuori. Perché: ti vuoi mettere la minigonna? “Eh, ma hai i coscioni, il culone, dove vai con la minigonna!” – Ma se me la voglio mettere! Sono pure libera di mettermi una maglietta scollata – “Eh, ma poi sei una mamma, ma come ti vesti!” Ma se voglio farmi i capelli viola, sarò pure libera di farmeli! Poi è una montagna che…»
MARZIA: «Io lotto contro mia suocera che sta convincendo Marta, che è la mia prima figlia che ha undici anni, quest’anno ne fa dodici, perché “le bambine non hanno i capelli corti, le bambine non si vestono in tuta, le bambine non vanno al reparto bambini a vestirsi”. Io vedo molta femminilità in mia figlia vestita in tuta, con i capelli corti perché è proprio femmina – io lo vedo che è femmina, ma non femmina come può essere la sorella che invece va in giro in tulle -, perché comunque il suo essere una bambina è molto forte però devo ancora giustificarla e litigare per questa cosa. Mia figlia l’anno scorso mi ha detto: “mamma, sono obbligata a fare figli?” “No, non sei obbligata a fare figli”. Ne abbiamo parlato, quando mi ha chiesto come si fanno i bambini. Quando ha scoperto come si fanno i bambini, mi ha detto: “ma lo devo fare per forza?” [ridono]. Le ho detto: “Anche no, figlia mia” perché effettivamente era un po’ splatter la scena. Come tutti i bambini, i bambini nascono che già hanno tanto – oltre ad essere molto curiosi -, nel senso che a me loro hanno dato tanto e quindi quando loro mi chiedono, io rispondo. Anche perché quando ho provato a dire loro: “nascono con un taglietto sulla pancia”, loro mi hanno detto “tu non ce l’hai”. “Mamma vi spiega bene cosa succede”. Se tu gli dai modo, hanno tanto comunque da darti. Ed è anche questo uno dei motivi per cui mi sento particolarmente responsabile perché oltre ad avere figli, sono figlie femmine.»
SILVIA: «La cosa che mi sembra di osservare è che più che tante donne, stasera c’è tanto femminile che secondo me deve trovare spazio. Non è un femminile legato alla donna ed è anche brutto chiamarlo “femminile” – adesso non mi viene nessun’altra parola – perché così creo troppa dualità però scusatemi, non mi viene altro. È quell’essere accogliente, quell’essere pronta a un ascolto, ma anche ad un ascolto attivo, cioè non un ascolto passivo che sta lì, in silenzio e basta, ma che elabora, crea una gestazione a partire da dei semi che arrivano. È questa che mi sembra la cosa più importante perché poi ho sentito vari esempi e non so se si può parlare proprio di cose personali – penso di sì: mi piace la combinazione di elementi che casomai di me trovo nelle altre, o delle altre trovo in me. Io sono una che mi sarei tanto voluta vestire col tulle, il rosa, con i brillantini, e mi vestivano con la tuta, perché era più comodo, mi tagliavano i capelli perché ero molto riccia ed era scomodo pettinarmi. Io volevo la mia femminilità e ci ho messo tanti anni per riconoscermela però mi sembra che poi ognuno abbia le sue leggi. E a volte mi è sembrato di sentire: “no, ma va bene, voglio essere in disordine e sto in disordine!”. È bellissimo. Ma è bellissimo perché tu fai quello che vuoi. Penso che non solo noi donne siamo state costrette a inserirci in un sistema, perché il sistema che ha visto la donna incasellata in una certa aura di aspettative, di bellezza in un certo canone, lo ha fatto anche con i maschi. Ma per forza: perché se la donna va posizionata di qua, il maschio si deve posizionare di là e non si può spostare, quindi l’identità va secondo certe lancette. Penso che la cosa bella di questo gruppo sia proprio togliere quelle categorie preconfezionate e trovarsi ognuno le proprie categorie e anche all’interno delle proprie categorie non ci si deve fermare e basta, perché io, se penso alla me di un anno fa, o alla me di due anni fa, di cinque anni fa, avevo categorie diverse. E fra un anno ne avrò altre. La bellezza… Forse noi donne da questo punto di vista siamo state fortunate: siamo state abituate che siamo esseri sensibili che ascoltano l’altro. E questo tié, ci è andato a nostro favore perché poi facciamo questo [indica il gruppo]. E gli uomini poverini – mi dispiace davvero per loro – non lo fanno [ridono]. Ma secondo me a molti di loro piacerebbe stare qua.»
DANIELA: «Io penso che sia giusto ascoltarsi proprio come esseri umani, così come siamo. Senza definirsi in qualche modo. Vivere le nostre esperienze e confrontarsi con gli altri. Mi ha colpito questa cosa che dicevi: la persona che ero io un anno fa, cioè questo continuo divenire di noi stessi, senza perdere il filo di quello che noi siamo e di dove vogliamo [andare], di quello che ci piacerebbe realizzare. Però anche accogliersi, che ne so… prendersi un po’ in giro, non definirsi troppo… perché sennò, secondo me, si cade poi nel rischio contrario.»
TATIANA: «Io non ho detto perché non sono madre, magari mi riaggancio e racconto quest’altra cosa in più. Vi sono molto riconoscente ma anche debitrice perché tutte le fortissime emozioni che sono uscite questa sera e che abbiamo avuto modo di raccogliere in questo cerchio, insomma sono merito nostro. È molto bella questa cosa che riusciamo a condividere senza filtri e senza schermi, lacrime e emozioni e dolori in maniera così – mamma mia! – solidale, condivisa. Quindi veramente grazie, grazie, grazie.
Io volevo diventare madre da sempre. Mi ricordo che al liceo ho addirittura convocato cinque amici maschi e gli ho detto: “Se a trentacinque anni mi scatta l’orologio biologico e non sono diventata madre, ti vengo a prendere e mi aiuti” [ridono]. E tutti e cinque hanno detto di sì, quindi io stavo tranquilla, in una botte di ferro, perfetto. A trentacinque anni io però ero felicemente, come dire, convivente, innamorata con uno che di figli non ne poteva avere. Mauro ha una storia tutta sua, che racconto, perché secondo me incide. Brevemente: aveva vissuto i venti anni precedenti con una donna di quindici anni più grande di lui ed era rimasto vedovo due anni prima di incontrare me.
Adesso festeggiamo ventuno anni di convivenza e io ho diciott’anni in meno di lui. Mio padre dice sempre “beh, ci ha guadagnato”. Ma io c’ho guadagnato di sicuro, perché prima di lui avevo avuto relazioni sempre molto brevi, di due o tre anni.
Questo era solo un inciso per dire che quando abbiamo pensato che forse io – avevo trentacinque, trentasei anni – potevo o smettere di prendere la pillola o pensare di diventare madre, lui mi guarda e mi fa: “aspetta che vado dal dottore”. E torna con un sorriso da un orecchio all’altro, sai proprio la felicità fatta persona che dici “e che ti avrà mai detto sto dottore?”: “Non posso avere figli. Cioè ce li ho, gli spermatozoi; funzionano, ma sono pigri e quando arrivano sono morti e quindi non mi chiedere”.
Poi: lui non parla così lui, è lombardo… però quel sorriso e quella… proprio felicità… ecco, era proprio sollevato e a me m’ha fatto completamente ricredere e quindi ho pensato: “forse questo senso di maternità che mi sono coltivata da quando ho convocato quei cinque… mah, ripensiamoci un attimo, forse non era così così radicato, così sentito”. Perché? Perché io con quel sorriso di Mauro ho completamente cambiato idea perché ho detto: “o cambio fidanzato oppure vuol dire che la natura ha deciso per me che basta, che non deve essere così”.
E quindi per i vent’anni di convivenza noi non abbiamo fatto figli: come dice lui, abbiamo fatto viaggi perché con il kayak noi siamo andati in giro per tutto il Mediterraneo. Proprio quando lui ha festeggiato la sua pensione, abbiamo passato sei mesi a navigare per le isole ioniche della Grecia, da Atene a Santorini e ritorno, quindi insomma… abbiamo – come dire? – condiviso altre esperienze che non erano quelle di mettere su famiglia.
L’ultima cosa che racconto è che, quando ho scoperto che non potevamo avere figli, mi sono preoccupata per mia madre che invece aveva sempre aspettato di diventare nonna.
E per fortuna, in un raduno di kayak, ho avuto l’occasione di dire: “Senti Savì, mi dispiace” (io a mia madre l’ho sempre chiamata per nome perché eravamo quattro famiglie, quattro mamme e otto ragazzini e quindi se in otto chiamavamo “mamma”, si giravano tutte e quattro. Dopo quattro volte ci hanno detto: “Ah, basta! Così non si può vivere, ci chiamate per nome”. E quindi era così: Ornella, Carla, Savina…).
E mia madre mi ha detto: “Va beh, pazienza”. E si è cresciuta il figlio dell’infermiere che aveva aiutato mia nonna per gli ultimi anni.
Insomma, ha trovato un’altra dimensione di nonnità, anche lei. Ed io ho trovato un’altra dimensione di maternità.
E io capisco che c’è un’esigenza di questo tipo anche a livello maschile, però loro se lo vivono da quattromila anni e noi no, e quindi noi ci dovremmo ripigliare i nostri spazi. Io su questo rivendico un forte afflato femminista. E se volete, poi ne discutiamo. Ma il femminismo è azione, non è un essere, è una cosa che ci richiede una continua attenzione, un continuo fare.»
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