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Le donne del Circolo di Torino si confrontano insieme sulle diverse prospettive di vita che una donna può e deve sentire, andando oltre l’ orientamento sessuale.

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Ecco la trascrizione completa del video:

Rosanna: «Io sono nata e cresciuta, dai 6 anni in poi, in un bar, i miei genitori avevano un bar. Mia madre, una madre praticamente assente, anafettiva totale, pensava solo al lavoro, eccetera. Allora, la prima cosa che ho capito intorno ai 10, 11 anni è che non volevo essere come lei, quindi questo proprio mi è stato chiarissimo nella scuola media. Ho capito anche che ero molto sola, cioè che dovevo pensare io a me stessa, perchè gli altri non avevano tempo. Allora, questa vicenda ha fatto sì che, siccome non volevo essere come mia madre, non volevo essere una moglie e non volevo essere una madre.  Il mio essere al mondo doveva passare da altre parti.

E allora tutto il mio andare avanti, la mia vita è sempre stata alla ricerca di stare in questa realtà senza passare per quella strada, e così è stato. Perché quello che poi ha sostenuto, ha fatto sì che tutto ciò fosse possibile, è il fatto che poi io le così dette madri, una famiglia, un collettivo, un qualche cosa, l’ho trovato negli anni Settanta, cioè quando io avevo 15, 16 anni. In quegli anni lì ho trovato tutte le persone che hanno reso possibile quel modo di stare al mondo, no? Per me è stato fondamentale. Se non avessi incrociato quegli anni probabilmente la mia vita sarebbe stata completamente diversa. Non penso alla possibilità di decidere in totale solitudine, al di fuori del mondo, e di tutto il resto, non ci credo; credo che noi siamo attraversate da tutto quello che ci sta attorno, allora gli incontri che fai, le persone con cui hai a che fare sono le persone che poi aiutano, determinano in parte quello che sarà la tua vita.

Tanto è vero che io ho abortito, ho abortito a 20 e qualche anno perchè non ci stava, perchè non volevo. In quel momento lì poi in modo particolare i figli non ci stavano perchè prima io volevo trovare il mio posto nel mondo, e lo potevo trovare solo da sola – ero molto sola, cioè non avevo una famiglia dietro, avevo un fratello che mi sosteneva in parte da lontano. Questo non vuol dire che a me non piaccia amare, io adoro la malattia dell’amore, trovo che sia una malattia meravigliosa, una grande malattia, mi piace moltissimo, mi sono innamorata un sacco di volte, non è quello il discorso. Il discorso è che anche in queste relazioni qua appunto non mi sposo, ma non mi sposo perchè non volevo la famiglia, pechè la famiglia che ho avuto era una roba che per me era il massimo del negativo, fondata sull’ipocrisia, sul denaro, o solo sul lavoro, niente affetti, per cui proprio “No” a caratteri cubitali e quindi no al matrimonio, no alla coppia chiusa, tutte quelle storie. Questo però, questa scelta ha fatto anche si che tutte le energie siano andate nella direzione di creare e aver cura di altro, perchè secondo me quel pezzo lì, e quindi una vita fatta di, pensavo sempre oggi camminando, la mia vita è fatta di tanti progetti, uno dopo l’altro. Cioè ho sempre rifiutato il lavoro fisso, ma perché? Perchè, di nuovo, il lavoro fisso mi avrebbe impedito – nella mia testa, forse sono balle – continuamente di cercare di cambiare questo mondo, di come farlo migliore, di come io potevo lì dentro lavorare per il cambiamento, per questo, per quest’altro, sempre proiettata sul futuro. Allora non potevo stare in un posto chiuso; faccio un progetto, quello è avviato, poi lo mollo, ne attacco un altro, ma mai individuale, sempre con altre persone. Per cui a 60 anni compiuti da poco mi ritrovo che, se dovessi disegnare la mia vita, sono appunto tanti progetti uno in tromba all’altro: iniziati, alcuni continuano, altri son finiti, ma io continuo a pensare ad altri, cioè non riesco a .., è come una vita che guarda sempre a quello che farò, allora o è una roba che ho il senso dell’onnipotenza o sono molto piena di me, non so come dire, perché è come se io dovessi non star mai ferma. E per non star mai ferma devi avere delle valige leggere, devi viaggiare leggero, non puoi avere figli, famiglie, no, devi essere molto leggero.»

Marisa: «Per me femminismo è stato possibilità di scegliere e quindi la libertà, per me è un discorso sulla libertà. Per me avere figli voleva dire non essere libera, avere dei vincoli, non potere andare, fare, girare, cambiare, così. Per me è essenzialmente quello, poi è vero, la famiglia d’origine ha delle influenze. Io vengo da una famiglia numerosa, siamo cinque figli, mia madre ci ha amati in un modo incredibile, si è sacrificata per noi, ci ha dato tutto l’amore possibile e immaginabile, però io ho visto la sua vita molto sacrificata, senza questa libertà.

Per me il discorso sulla libertà è fondamentale, e per me femminismo è stata libertà, libertà di scegliere cosa fare del tuo corpo, della tua vita, dei tuoi ormoni. Il Sessantotto e poi il femminismo e poi pensare a quello che voglio fare nella vita, cosa sono, dove voglio andare, per me è un discorso sulla libertà e per me avere dei figli significa non avere libertà. Poi magari un’altra donna che ha avuto figli si sente libera, ha la sua libertà nell’accudirli, nel crescerli, nel vedere questa cosa meravigliosa – che per me non è così, faccio già una grande fatica a sopportare i nipoti; cioè veramente, già li trovo bellissimi, adorabili ma quasi insopportabili, pensa avessi avuto figli, nipoti. Cioè veramente non lo so, penso che non avrei più nessuna libertà, e per me libertà è questo. Questa cosa:“riesco a ritagliarmi quella mezz’ora, quell’ora”… io voglio tutto il giorno per me, non voglio quell’ora per me dove posso scrivere, pensare, fare la passeggiata, no, io voglio tutto il giorno per me, sarò egoista, sarò una terribile, non importa, rivendico questo mio diritto di avere tutto il giorno per me e non dovermi ritagliare quell’ora preziosa, quando i bambini dormono – ma li avveleno tutti, così dormono per sempre… no questa è cattiva, veramente cinica. Per cui si, è un discorso un pò duro ma sono arrivata a questa conclusione, che io sono felice di non avere avuto figli e sono felice di essere così come sono senza figli e ringrazio il femminismo che mi ha aperto molte finestre molte porte di libertà. »

R0sanna: «A proposito di ormoni – poi sto zitta, taccio per sempre – io ho avuto un attacco d’ormoni qualche mese prima di andare in menopausa, come se fossi diventata un’altra persona, e volevo un figlio a tutti i costi. Così, di colpo, una mattina mi sono svegliata e ho detto: “ahhhh”, iniziavo a piangere, tutti i bambini che vedevo per strada, la lacrima, parlavo solo di bambini, con Gabriella andavamo a far spettacoli a Cuneo e tutto il viaggio: “come faccio, il mio compagno non vuole, dice che non vuole fare il nonno, vorrebbe fare il padre, ma ormai ha perso il treno, quindi non lo può più fare, io lo voglio!” e Gabriella: “aggiustati, fallo …”. E’ durato due mesi, sono andata in menopausa, è finito. Cioè, l’ormone è il segnale che… no? due, tre mesi, finito. E infatti poi il Costa, che era il mio compagno allora, mi fa: “e tutta sta roba?”, “già, è vero, no, no, va bene così, pam”. Ma ne ho parlato con ginecologa mi ha detto che è effettivamente così, il corpo che ti lancia l’ultimo segnale, o adesso o mai più, il treno che passa. Infatti quando incontro donne che sono un pò così dico: “pazienta un attimo e vedrai che passa” »

Sonia: «No, volevo provare a scambiare con Marisa che cosa. Io mi emoziono adesso, ho scambiato io con un pezzo di libertà perché è vero, non mi sento di dire… ci pensavo oggi in macchina, “stasera vado là”, che un figlio è una grandissima implicazione, certamente più al femminile che al maschile. Da subito, io ho scambiato una esperienza d’amore che non so come mettere in parola, himalaiana. Credo la più difficile, nel senso del fascino, nel senso degli apprendimenti da fare, nel senso anche delle competenze della vita da mettere a punto: ci sono delle cose che io non avrei mai imparato se non fossi diventata madre, quindi questo è il primo pensiero. Io so che ho scambiato con dei pezzi di libertà, che non so dire come altrimenti avrei speso, perché non ce l’ho il costo del sacrificio, però so che ho scambiato un’esperienza di amore che non baratterei per nulla al mondo. Tuttavia ho tante altre cose da dire, molto ambivalenti su questo tema dei figli. La prima cosa che mi viene in campo potrei intitolarla ambivalenza, e ho fatto esperienze ambivalenti in questa mia vita fino ad oggi – tanto ormai oggi ho chiuso. Ma mi sono accorta che non ricordo di essermi mai soffermata da bambina o da ragazzina in una coscienza del desiderio di fare figli: un giorno pensavo di essermi presa una gastrite tornando da un viaggio in India e scopro con ritardo di essere incinta, quindi io non stavo – ed ero grande, avevo 30 anni – nella rincorsa di un desiderio, si è compiuta una cosa, naturale, non naturale, si è compiuta. E nonostante si sia compiuta in maniera non progettata e non cercata, questo per me è diventato interessante molti anni dopo e vi racconterò perché. Io in quel momento là non ho minimamente pensato di fare una scelta contraria a quello che era accaduto – questo oggi per me è un dato sorprendente, nel senso che non mi venne assolutamente in mente che io potevo fare un reverse rispetto a quello che era accaduto.

Ed è l’unica figlia che c’è. Che cosa succede un pò di anni dopo? Che io resto di nuovo incinta, ma avevo quelli che per me erano molti anni, giustappunto, per stare dietro a un bambino, e decido di fare un’interruzione volontaria di gravidanza. Per cui io che cosa ho chiaro, è come se avessi due donne in una: una che si è confrontata con la impossibilità di accogliere un’esperienza – ho appena detto che è un’esperienza d’amore gigantesco, che io guardo con meraviglia le donne che scientemente rinunciano a farla perché mi sembra una rinuncia di cui non vale la pena, non c’è niente per cui valga la pena rinunciare a quella esperienza lì. Tuttavia io medesima, c’è stato un punto della mia esistenza, e l’unica ragione per cui io ho scelto – le donne scelgono di interrompere la gravidanza perché non c’è magari una cornice emozionale sufficientemente significativa, perché non ci sono le risorse – io so che ho fatto quella scelta perché mi è venuto il panico, perché mi era chiaro che cosa scambiavo dato il fatto che non avevo più 30 anni ma avevo 43 – 44 anni. E ho fatto proprio quel passaggio lì, non era il punto di fare la mamma a 44 anni, io ho messo i piedi giù dal letto un mattino e lì ho deciso che sarei andata, e mi sono vista a 60 anni con un figlio adolescente, e mi sono detta: “io questo scambio con la vita non sono in grado di farlo”. Devo dire che io per tanti mesi ho maledetto il fatto che ci fosse una legge che me lo ha permesso. Perché è stato un cammino difficilissimo, è stata una gravidanza difficilissima, come posso dire, il processo di digestione, di perdono di quella interruzione di gravidanza; perché io non avevo ragioni, non c’erano vincoli esterni, io avevo delle importanti ragioni mie interne rispetto alle quali credo oggi di essere riuscita ad attivare un processo di perdono, io so che non sono stata capace, non potevo, non avevo le risorse, forse era tardi, ho potuto fare quello che ho fatto. Io non ce l’ho fatta a scegliere nuovamente quel grado implicazione con la vita di qualcun altro, e bon – in mezzo ci sono state due interruzioni involontarie: io ho concepito quattro figli e ne ho messa al mondo una; mi sorprendo ad essermi dimenticata e a dimenticarmi delle interruzioni spontanee, non c’è giorno in cui non tenga a mente che nel mio sistema di riferimento c’è un figlio che non c’è, credo non ci sia giorno in cui non ho in mente che c’è qualche cosa che non c’è. E bon, quindi mi sembra di aver incontrato la maternità davvero, cioè di esserci entrata attraverso più porte, poi l’ho esercitata una volta sola ecco.»

Liliana: «Per me non esiste questa cosa della scelta. Non c’è stato un momento in cui ho scelto di non aver figli, ma invece credo così di essermi trovata in diverse situazioni che hanno fatto sì che alla fine non avessi figli. Mi colpisce molto questa cosa perché la cosa che dicevi tu, Rosanna, anche il discorso del femminismo, per me non si pone sulla scelta: non credo, almeno per me, in questa possibilità di essere in una posizione in cui tu scegli rispetto ad un progetto ma nel costruire una rete che ha fatto sì che le storie della mia vita fossero accolte, e in cui potessi vivere la relazione con dei bambini, con degli adulti, che erano genitori che possono essere amici, parenti. Oltre al fatto che insegnando non mi è mai mancata – soprattutto insegnando alle elementari – non mi è mai mancata questa dimensione di relazione quotidiana, anche se mi rendo conto che è qualche cosa di completamente diverso da un rapporto legato alla maternità. Però mi sembrava interessante questo capovolgimento in cui per me c’è un aspetto politico invece di uno scambio di tanti modelli di vita diversi non rispetto alla dimensione della scelta.

Poi nella mia vita ci sono stati momenti in cui anche l’ho desiderato – abbastanza contenuti, perché nella mia storia ha contato, più che la mia famiglia di provenienza, questo testa a testa con mia madre, per cui io a 13 anni le ho detto: “piuttosto che diventare come te me la cucio”, e in effetti da quel punto di vista è stato così. Quindi penso che questo sia stato parte di un gran lavorio, di fare pace con questa relazione e di mettere assieme aspetti diversi che avevano a che fare, appunto, con la sessualità e con la possibilità di diventare madre, quindi vedo un po’ questi gli aspetti abbastanza intrecciati. Allo stesso tempo mi piace molto, e credo che sia una risorsa, che forse oggi è un po’ diversa rispetto a generazioni precedenti, di questo rapporto quotidiano diffuso tra generazioni: penso al rapporto con alcuni figli, soprattutto figlie di amici e amiche come anche con I miei stessi nipoti. Ecco, credo di essere stata una molteplice zia.»

Susi: «Che nessi ci sono, se ci sono, tra questi elementi? Perché la maternità, i bambini, i bambini poi diventano grandi… per esempio, io non lo so se lo vedo sto nesso diretto, la questione del corpo. Per me sto corpo, io ho bisogno che prenda un po’ forma dentro a questa vicenda della maternità, mi sembra che invece non…»

Liliana: «Penso che la sessualità non c’entri niente o c’entri molto poco. Per me niente, però c’entra il corpo perché forse se c’è una cosa che ho desiderato più che avere un figlio è fare l’esperienza della gravidanza. Mentre riguardo a quello che dicevo prima, per me quello con i bambini e un rapporto cruciale con infanzia, è un rapporto vivificante, di apertura dell’immaginario, di apertura di altri modi di spiegarsi il mondo, ecco, senza questo mi sarebbe difficile stare.»

Susi: «Però questo può non avere a che fare con la maternità. Voglio dire io che ho un rapporto coi bambini per me assolutamente vitale, questa parte dell’immaginazione, del gioco di cui ho bisogno tantissimo nella vita e che con gli adulti – le donne adulte raramente riesco a giocarmi – è una fonte vitale, nutriente, però per me non ha nulla a che fare con l’essere madre ma neanche con lo spirito materno. Io con i bambini mi sento in un gioco – ovviamente non è paritario, io sono un’adulta – però io mi gioco quello: lì, per me, l’essere madre non c’entra. Per me per esempio, son d’accordo con te, la sessualità non c’entra, cioè verso chi dirigi il tuo desiderio non c’entra; questa cosa della trasformazione del corpo, hai detto: “forse mi sarebbe piaciuto vivere la gravidanza”, per me è stato uno degli elementi per cui io non ho mai scelto- ma non esiste, non lo voglio neanche vedere questa cosa qua – son d’accordo con te, io non ho mai scelto ma non ho mai scelto perché proprio quell’opzione non l’ho mai presa in considerazione, non la avevo nell’immaginario neanche da bambina. A me quest’idea, come tu dicevi Rosanna prima, di diventare sposa, diventare madre, proprio non stava. Infatti io non riesco a dire… cioè mi sono interrogata tanto dopo l’invito di Nicoletta e di Marilisa, di pensare a queste Lunàdigas, a questo essere Lunàdigas, mi sono interrogata tanto, mi son detta: “ma io quando ho deciso”, io non ho mai deciso, non mi è mai interessato. Non mi ha mai toccato il tema avendo io dei rapporti, non solo affettivi coi bambini da una grande zia – tutte ‘ste storie lì, zia neanche di sangue, cioè adottiva, ho lavorato tanto coi bambini – ma tutta questa vicenda che invece chiamiamo maternità, che sia l’agire, il ruolo genitoriale o la trasformazione del corpo e questo creare, no, io mi sento molto vicina a questa cosa di Rosanna di dire: “io ho bisogno di creare tanto e possibilmente tutto quello che ogni volta mi stimola e più collettivo possibile”. Certo che dietro per me ci sta tutto il ragionamento che ha fatto Rosanna prima sullo scompaginare questa idea di famiglia su cui io credo. Io mi ricordo negli anni Settanta, Ottanta io dicevo: “i bambini per legge a 5 anni dovrebbero poter andar via dalla famiglia”. »

Sonia: «Come a Sparta!»

Susi: «Perché la famiglie rovinano. »

Marisa: «Voglio dire una cosa sulla struttura della famiglia in questa nostra società: la trovo insopportabile. Il fatto che ognuno abbia i suoi figli, in questi cubiculi chiusi, e possano fare ciò che vogliono di questi bambini nel bene e nel male lo trovo insopportabile; secondo me i figli dovrebbero essere allevati dalla comunità, e non al chiuso in due camere da due persone che non si sa bene se son sane o non son sane di mente, dovrebbe esserci un sistema più collettivo dove magari, non dico arrivare allo scambio, però dove ognuno possa allevare per un pezzo questi bambini, anche chi non ha figli, anche chi – non so, mi immagino delle case attorno ad un cortile e questi bambini…»

Rosanna: « Questo è il modello africano.»

Marisa: «E sono figli di tutti. Cioè ecco, non sopporto che siano figli di quel padre e quella madre biologica, e questi hanno un un potere enorme su queste creature; enorme, le possono rovinare senza che nessuno possa fare niente.Sicuramente io mi sarei comportata anche peggio, però trovo che una gestione più collettiva dei figlioli sarebbe molto più sana per la società, invece vedo questi palazzi alti, questi appartamentini, lo trovo di una angoscia terribile. Non so, eh? »

Liliana: «Sì, bisogna essere convinti che la società sia migliore dell’individuo e questo, di questi tempi…»

Rosanna: «No, io ho vissuto tanti anni a contatto con donne altri paesi, che mi hanno insegnato molto sulla storia dei figli. Intanto all’inizio ero un po’ scioccata perché da una parola in su insegnavano: “saluta tua zia” ai bambini di queste donne, e io dicevo: “ma io non sono zia, no?”. E allora io ho nipoti per cinquanta, sessanta, settanta città perché sono zia di tutti sti bambini di donne d’Africa, donne sudamericane, perché il bambino, la bambina, riconosce nell’adulto che conosce la mamma immediatamente zio e zia: non è più l’amica della mamma, e ha un potere sul bambino, cioè se tu dici qualche cosa a quel bambino il bambino ti deve ascoltare perché tu sei un adulto, legittimato dalla relazione che hai col genitore a parlare.Qui nel nostro mondo spesso è il contrario: “come ti permetti di dire qualche cosa a mio figlio” mentre là sei legittimato; questo mi ha fatto anche pensare ad un modello diverso, quello che dici tu, cioè c’è nelle case in Africa questa cosa. Ma anche per motivi di sopravvivenza immagino, è molto normale che i bambini si aprono le porte, entrano in un cortile, i più grandi guardano i più piccoli, le persone grandi guardano i bambini di tutti mentre gli altri lavorano o insomma, c’è questo controllo.

Mi è venuta in mente una storia. Ho passato un po’ di anni della mia vita in Centro America: andavo là, insegnavo, lavoravo con le donne, con le ragazze e i ragazzi eccetera, e la prima domanda che mi facevano era: “tu hai dei figli?” e io dicevo: “no”, e loro: “estas inferma?”. Ero malata: non è pensabile che tu, donna fertile – avevo 35, non so quanti anni – non avessi figli, sicuramente sei malata. Allora di nuovo questa roba qua mi scatenava delle rabbie per cui passavo, mi infilavo in discussioni con queste donne per tentare di far capire che si può anche scegliere, o che in qualche modo ti può non interessare l’articolo della maternità, ma loro immediatamente ti giravano la frittata e ti dicevano: “eh ma come fai con l’uomo?”. Perché cos’è che lega un uomo a te? è fargli un figlio, perché l’altra cosa che loro dicevano dopo un attimo che stavano con un uomo era: “ti faccio un figlio” – che poi è una balla disumana perché poi non è vero, ‘ste donne hanno sei figli di sei uomini diversi sempre nel tentativo di tenere il maschio legato. Quindi è tutta una costruzione di un principe azzurro che non esiste, che deve sempre arrivare, sarà quello buono eccetera; tutto ciò nella mia testa mi ha sempre più confermato questa idea, questa convinzione che io non dovevo passare di lì, non volevo quella roba, non volevo che il mio stare al mondo passasse per quella porta, pur riconoscendo quello che dice Sonia di questa esperienza d’amore impagabile, no? lo capisco, lo intuisco sicuramente, come provo delle fortissime emozioni, commozioni quando vedo dei bambini appena nati, ho visto i miei nipoti; sento che è qualche cosa di diverso da qualsiasi altra roba, questo è evidente. »

Susi: «Cioè sul cotè emozionale non ho voglia neanche di venirci, non mi interessa tanto, mi interessa di più questo cotè sociale, e vorrei anche spezzare una lancia a favore proprio per tornare al discorso che tu hai fatto all’inizio, cosa ci ha dato sto movimento anni Settanta, i femminismi, le libertà. Perché è vero che noi oggi stiamo nelle condizioni – non è che stiamo qua a ripetere il paese in che condizioni, il mondo in che condizioni schifose stia vivendo – ma io vorrei però riprendere un po’ delle esperienze che noi abbiamo fatto, di cui noi cinque qua siamo testimoni. Non mi va neanche che là, dentro a Lunàdigas, questa roba non esca fuori, e provo a dirla anche perché son sicura che Sonia ha avuto delle fibrillazioni, come le ha lei, contenute in questa conversazione. Perché per esempio per le donne africane i bambini son di tutti, sì, vero, giusto – e peraltro mi ricorda anche la mia infanzia, quando da piccoli si andava per strada; io ho vissuto per strada, ho giocato per strada con bambine e bambini, cioè facevamo delle cose che mia madre, gliele racconto e dice: “ma tu facevi quello?” e io: “mamma tu mi facevi fare quello, mi lasciavi stare, io uscivo, non ti dicevo dove andavo” ma io avevo 5 anni, 6 anni, 7 anni. »

Sonia: «Ho una confusione tra il piano che voi portate. Figuriamoci se non condivido le cose che ha detto Susi, però una proprietà dei legami che non si modifica perché è scritta nella struttura del legame, ovunque tu li metta. Cioè la struttura di legame con un figlio è vero che poi prende delle declinazioni che possono essere comunitarie, sociali, della storia e delle geografie, ma la struttura del legame con un figlio è la struttura di legame con un figlio, l’esperienza di quella struttura di legame la puoi fare lì, punto, non la fai da nessuna altra parte. Anche io ho ce l’ho qualche nipote – “ho” non so neanche se è una parola che mi piace così tanto – e ho in mente, addosso, tanti figli più grandi, più piccoli di amici che amo molto, ma la struttura di legame con un figlio, così come la struttura di legame con una madre, con un padre, con una sorella, con un’amica ha delle proprietà che… probabilmente anche la struttura di legame con figlio uno, figlio due, figlio tre ha delle proprietà che io non conosco perché una figlia ho fatto, però per dire, il legame con un figlio credo che si inscriva in un’area precisa – e forse dico anche un po’ provocatoriamente, di un figlio che hai generato e poi accompagnato. Perché non basta la chimica, che non è riproducibile, ma torna quella cosa di prima, che rinunciarci sia non esplorare qualche cosa che non è esplorabile da un’altra parte. Poi io credo molto alla possibilità di non stare mancanti, e non lo credo di testa, credo molto alla possibilità di non sentirsi mancanti perché non si è fatto un figlio. »

Liliana: «Eh, però c’è un problema con la parola rinunciare. »

Susi: « Certo che c’è un problema.»

Sonia: «Come dire, io so di aver rinunciato a porzioni di libertà, so di aver rinunciato a porzioni di libertà a cui non so però oggi riconoscere un contenuto altro; però io credo… »

Liliana: «Io non ho rinunciato alla maternità, cioè non è un dato a cui io ho rinunciato, è un’esperienza che non ho attraversato, di cui appunto riconosco, nel racconto tuo, tutta la potenzialità e la potenza. Però non penso di aver rinunciato perché rinunciato rientra in questa logica della scelta.»

Sonia: «Sì, sì, sì, sono assolutamente d’accordo! »

Liliana: «No, non ho rinunciato, come non ho scelto, non ho rinunciato!»

Sonia: «Quindi in che parola lo metteresti tu?»

Liliana: «No, è che è una cosa che si attraversa. Nella vita ce ne sono un tot, anche parecchie, alcune esperienze le attraversi o ti incrociano, altre esperienze non le attraversi e non sei toccata, però questo non dipende dalla scelta, cioè, non dipende da una posizione razionale o politica, non è tutta autodefinita. »

Sonia: «Però ci sono delle donne che ci dicono che invece è andata così!»

Liliana: « Sì, sì, sì! »

Sonia: «Ma quindi penso che… »

SUSI: «Ora io mi dico: “come mai tutte le volte, anche adesso, noi, che siamo quattro su cinque Lunàdigas, per parlare di sta lunàdigità abbiamo bisogno di parlare della maternità”, mi sbaglio o come mai?  È come sempre la storia che per parlare dell’essere lesbica devo parlare dell’essere eterosessuale. Ma come mai? Mi sto facendo una domanda sbagliata Liliana? »

Liliana: «No, secondo me Susi ha ragione, però questo è che siamo intrappolate in un linguaggio, per cui appunto, siccome non ha significato sociale, simbolico, culturale non avere figli, è solo una negazione, noi ne possiamo parlarne prendendo le distanze e le misure, per opposizione di traverso, rispetto a quello che è il contenuto riconosciuto socialmente, come l’esempio che tu hai fatto del lesbismo rispetto all’etorosessualità. Prima pensavo una cosa mentre parlava Sonia: mi ha molto colpito nella mia esperienza a scuola in cui questa frontiera tra personale, individuale e ruolo è molto flessibile. Mi è successo spesso di essere interpellata dai bambini in quanto madre: cioè io non sono una madre ma diverse volte mi hanno chiamata “mamma”, e per me la maternità è solo questo, è solo qualcun altro che ti può chiamare in una relazione. Poi ovviamente in quel caso loro chiamano un ruolo, perché riconoscono delle cose, una cosa molto mescolata di relazione, amore, prendersi cura, bisogni, eccetera. Però penso che è la società che… cioè che il materno fuori dalla interpellazione non esiste, non c’è sta roba naturale, per me; che cosa sia il materno fuori dai significati che gli diamo, non so, onestamente. »

Rosanna: «Sono d’accordissimo. Quando io da ragazzina dico: “non voglio essere, non voglio stare al mondo perché sono madre o moglie”, voglio dire quella roba lì.»

Liliana: «Però è potente perché ha segnato la tua vita. »

Rosanna: «Certo, per contrappormi, ho dovuto, chiaro…»

Marisa: «… lunàdigarti!»

Rosanna: «Eh, sì!»

Sonia: «Però non è che non hai esercitato il materno, non hai scelto di fare un figlio! »

Rosanna: «Sì, dobbiamo intenderci!»

Sonia: «Ma che casino è quello lì? Che casino è? Perché qui, vado in un’altra confusione perché nessuna sta dicendo che non vuole esercitare il materno in questa esistenza, anzi ho sentito solo messe in equilibrio tra non aver fatto un figlio e esercitare il materno altrove. A me viene un casino! Allora qui non stiamo discutendo dello scegliere di esercitare o no quella funzione, quella roba – qualcuna l’ha chiamata cura, cura di essere zie non zie – cioè facciamo le madri su tutti gli ordini gerarchici, a tutti i livelli, però scegliamo di non fare i figli. »

Susi: «Non ti ho proprio capita, cosa vuol dire esercitare, io non ho il senso materno. »

Sonia: «Tu! Tu stai dicendo questo! Infatti da sempre, no? Tante volte, da che ti conosco ti ho sentita dire questo, però mi sembra che proviamo a fare, che si provi a fare una differenza tra quella roba lì che può essere messa a disposizione di tanto, non necessariamente di un figlio e il fare figlio. »

Marisa: «È vero, come se le donne che non hanno avuto figli si dovessero scusare, però io sto tanto bene con i miei nipoti, però io faccio tante altre cose.»

Sonia: «“Faccio l’ostetrica” piuttosto che “curo i figli degli altri”. »

Marisa: «Sì, “porto i nipoti al cinema”, come dire: “non sono madre biologica però faccio questo, faccio quello”. »

Liliana: «Sono umana! »

Sonia: «Che fico!»

Liliana: «Nel senso che penso molto che questo tipo di giustificazione abbia a che fare con il desiderio di essere incluse nell’umano

Sonia: «Che bello!»

Liliana: «Mentre però penso che oggi c’è anche un’altra questione: che questo ha anche a che fare con l’essere produttive, e che molte di noi non vogliono essere produttive, nè socialmente, nè economicamente, no? Che la riproduzione o lo stigma sulla non riproduzione ha a che fare con una cornice di questo tipo. »

Sonia: «Di risultato? Di questo tipo?»

Liliana: «No, no cioè che la tua vita non dà niente di misurabile economicamente. »

Marisa: «Sei una nullità, non fai neanche figli »

Liliana: «Tanto è vero che il discorso… »

Susi: «… è molto più complesso, continua, continua Liliana. »

Liliana: «… tanto è vero che parte della comunità LGBT cerca di accreditarsi come umana su questo terreno del fare i figli e dell’essere genitori e genitrici, e in modo tale viene inclusa e sarà inclusa. »

Susi: «E questo dà diritto di cittadinanza, questo è una grande contraddizione dentro il movimento, insomma noi tendiamo a non… »

Marisa: « Ma credo che ci sia anche una liberazione del proprio desiderio di paternità e di maternità, in quella cosa lì, non c’è solo… »

Susi: « Una uniformità ragazze. »

Marisa: «Ma c’è anche liberare il proprio desiderio, che spesso le lesbiche e i gay hanno represso, di paternità e maternità. »

Liliana: «Ma questo è legittimo. »

Marisa: « Perché si sentono più liberi. »

Liliana: «Ma che questo sia l’unico desiderio legittimo non è normale. »

Marisa: «Questo no. »

Susi: «Nella costruzione sociale è così Marisa, nella costruzione sociale del riconoscimento del desiderio quello è l’unico che ha diritto di cittadinanza. Se tu lo guardi, non solo dal punto di vista dell’esposizione sociale ma anche dal punto di vista della contrattazione legislativa, lì siamo. »

Marisa: «Sì, è una grande leva questa dei figli. »

Susi: «Ma, ragazze, per cosa? Per fare le famiglie arcobaleno, basta che siano famiglie, mi raccomando che siano famiglie. Cioè, ragazze, noi abbiamo rotto muri su questa roba qua; io per esempio non schierata sono schierata lì.»

Liliana: «Quello che io percepisco molto, e qui parlo sul cotè lesbico, è che oggi le lesbiche visibili e accettate sono delle lesbiche che sono madri. »

Marisa: «Io credo che comunque negli anni passati ci sia stata repressione del desiderio di paternità e maternità nelle lesbiche e nei gay enorme. »

Rosanna: «lo pensavo così! »

Susi: «No, no è vero! Il problema non è l’origine, il problema è il prodotto; il prodotto è una normalizzazione donne, una normalizzazione. Cioè, allora provo a spiegarmi: la richiesta non è tanto quella di un riconoscimento di quella relazione genitoriale fatta così tra due donne, la richiesta è che sia parificata alla norma, cioè a ciò che viene riconosciuto stabilito e garantito; la famiglia che la Santa Romana Chiesa ha deciso che vale e il giochino si gioca tutto sul meccanismo di Santa Romana Chiesa, ragazze, cioè non siamo fuori da lì, c’è il bisogno estremo di ricondurre tutto a quell’archetipo. Io, per tornare all’inizio, da femminista degli anni Settanta, io contro quella roba lì mi sono sbattuta e spremuta con tutte voi e altre molte. E su quella roba lì io non torno indietro di un passo. Se le mie amiche, compagne, lesbiche su quello si sono impappate il cervello, io sono disponibile a discuterne sempre, però noi siamo lì ragazze, stiamo chiedendo quello, e io su quella roba lì non ci sto. »

Marisa: «Prima pensavo, mi è venuto questo pensiero: ma non è che in questo desiderio di non avere figli c’è anche una specie di desiderio di mantenere uno stato di eterna giovinezza? Cioè rimanere nel regno della possibilità, in questo luogo dove non sei ancora definita, sei ancora giovane. Un po’ come diciamo in Piemonte, noi diciamo: “a lè ancura na pula e ancoa non è una galina”, cioè è una pollastra e non è ancora una gallina. La gallina è una gallina, è definita, fà le uova, invece la pollastra… »

Rosanna: « Cova, cova! »

Marisa: «Invece la pollastra è sempre pollastra, è giovane, ha tante possibilità. Allora pensate che in questa ci possa essere…?»

Rosanna: «Io ne sono convintissima. »

Marisa: «Questo desiderio di eterna giovinezza, io lo penso. »

Rosanna: «Grande presunzione ma fondamentalmente vero. Storia, “Il collo della gallina”: Mia mamma mangia il collo della gallina. Succhia le vertebre slacciandone una ad una, e si pulisce le dita in un tovagliolo a quadretti. “Mi mangia il collo”- annuncia con un sorriso, e senza problemi glielo lasciamo – “ mi mang col piote” – dichiara con allegria, e noi non protestiamo, no, no, non ci opponiamo. Noi figli delicati ci cibiamo di petto, tutt’al più prendiamo una coscietta. Chi davvero rende onore alla gallina è mia madre, perché è lei che ha raccolto le uova e le ha benedette; ha sgranato il granturco e l’ha portato anche con la neve alta sopra il sentiero; l’ha soccorsa quando era minacciata dal cane; l’ha nutrita di frutta, erba medica e zuppa; l’ha condotta a pastura e le ha dato un nome, e col suo nome l’ha chiamata la pollaio la sera, guidandola lieve con un pezzo di canna. Trascorso poi il tempo, molte pirmavere, l’ha uccisa senza pena con le sue mani nude e adesso è lei che ne mangia la cresta, il sangue, la pelle, il boccon del prete, e tutto ciò che ne resta. »

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