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Giornalista, critico musicale e scrittore, incontrato nella sua casa romana, Mario Gamba parla della sua idea di paternità.

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Ecco la trascrizione completa del video:

MARIO GAMBA: «Eh, ce ne ho da dire, un bel po’ anche. Cominciamo con la scena che si vede spesso al supermercato, al bar, in giro, quando vedi un neonato che strilla come un disperato. Per me questa è una scena, non solo di fastidio orribile, come è per tutti penso, ma di immedesimazione con grande pietà per quei poveri disgraziati che devono tenere a bada questo tipo e per tutta la loro carriera di guardiani e crescitori di questa creatura. Questa cosa qua a me mi ha sempre dato una sensazione veramente terribile di nessun desiderio di trovarmi in una cosa di questo genere.
Il pensiero, questo da molto tempo fa, quando abitavo nel mio paese in provincia di Mantova, quando ero più piccolo di adesso, quando ero meno formato ideologicamente, non so che cosa, ma l’idea di tirar su una persona, di crescere un bambino con tutti gli impedimenti, i fastidi che ti dà, in aggiunta anche il fatto dell’assunzione di responsabilità, che socialmente ti viene data perché tu devi rispondere della crescita di una persona, devi risponderne proprio, in qualche modo dipende da te, questo tipo di rapporto, questo tipo di situazione fastidiosa, opprimente e questo tipo di rapporto di strapotere da una parte, di cui però dover rispondere in quanto responsabile del benessere e della buona educazione di questa cosa, mi ha sempre fatto orrore, ho sempre pensato che fosse una cosa che io avrei voluto fuggire.
Se dovevo pensare a come preferivo, a come anche immaginavo o fantasticavo i miei rapporti con una donna, li ho sempre pensati come rapporti basati sull’erotismo, con amicizia se c’era, con la stima naturalmente se c’era tanto meglio, ma mai con un contorno di pargoli a formare una famigliola, ma questo anche nelle fantasie più tenere.
L’unica fantasia, forse in questo campo, in certi momenti anche antichi, nel senso di quando ero molto più giovane, che in qualche modo mi sia capitata, l’unica fantasia, forse un po’ incestuosa, ma non è detto, di me adulto con una figlia già cresciuta mettiamo adolescente, 14,15 anni non so, e di me e lei che camminiamo, che parliamo e io che ho questa funzione un pochino maieutica, un pochino di guida, di insegnante intellettuale, ma non marcato, un dialogo in cui però questa figlia, ha questo rapporto con me di questo tipo. L’unica fantasia che posso registrare nella memoria; incestuosa in senso stretto non direi, nel senso che non è stata mai legata a fantasie di contatti erotici ma invece questa immagine qui: metti una camminata in campagna con me che sono maestro di vita insomma però molto amichevole, molto paritario e questa però è figlia, ecco l’unica immagine di paternità che posso registrare nella memoria è di questo genere.
Poi più avanti si radicalizza, come possiamo chiamarlo, l’odio, inutile stare a girarci attorno, l’odio per la famiglia in quanto tale, proprio il nucleo famiglia e il modo di essere della famiglia, di cui io avevo da piccolo molto sofferto gli aspetti di costrizione, gli aspetti di iperprotezione e cose di questo genere, tutti questi aspetti, intorno a un periodo in cui poi tutto intorno a me diventa molto critico, molto ribelle, molto contestativo, si accentua e si centra molto sull’insofferenza verso la famiglia, al punto che poi, come del resto è noto, attorno al periodo del ‘68 e seguenti, per me, come per altri c’è una critica della famiglia che viene spinta fino all’idea di… pensiamo ad una società in cui la famiglia non esista più, in cui le persone crescano in un altro ambito che non sia questo del rapporto stretto con queste due figure padre madre eccetera.
Questo voglio dire per me, con tutto il background di questa insofferenza verso i pargoli e verso l’idea di dovermi sobbarcare, di dover essere costretto a perdere tempo di libertà, di indipendenza per tenere dietro ai pargoli che era già precedente, aggiunto a questo è un elemento in più per affievolire, anzi per annullare un impulso di paternità. Ecco, se io devo rintracciare qualche cosa che assomiglia, non so bene nemmeno cosa sia, all’istinto paterno, io non so dove trovarlo.
Ecco, ci sono episodi della mia vita, del paese, dove io vedo al bar i maschi adulti parlare dei propri figli, del fatto di avere figli, con un orgoglio tutto maschile, come di propria proprietà, come dire che è importante, è motivo d’orgoglio, per il maschio avere dei figli; come se questo fosse un elemento che spetta ai maschi per l’appunto, mica alle femmine, non esistevano nemmeno in questo ambito, esisteva questo orgoglio maschile del fare i figli, dell’avere una discendenza. Poi, dopo che mi sono sposato la prima volta e che sono tornato un paio d’anni dopo da Milano, dove stavo allora, al paese, incontro al bar questi stessi tipi di persone e mi chiedono: “ma c’hai figli?”, e io rispondo “no”, questi tra il serio e il faceto, anzi sul faceto, diciamolo pure, con battute un po’ triviali lì “ma sarai capace?” mi hanno detto. Mi ricordo benissimo questa battuta e lì ancora l’associazione della paternità con l’idea di potenza sessuale maschile e ancora anche di appropriazione… questo è un discorso che poi mi viene fuori forse più avanti quando incontro le amiche femministe, che mi fanno notare alcune cose in più, questa idea della paternità come espressione della potenza sessuale del maschio; cosa tra l’altro fondata sul niente perché per ingravidare una signora non c’è bisogno di essere potenti più di tanto, anzi magari è il contrario, ma insomma questo lasciamolo perdere.
Questo qui è un altro episodio, ci sono altri episodi che mi allontanano un po’ ma quello che insomma rimane di fondo è questo… quando io incrocio donne amiche che mi parlano di questo desiderio di maternità sentito come qualcosa di fisico, anzi qualcosa di sensuale persino o comunque di, non so bene quanto sia cultuale, adesso su questo andrebbe fatta un’analisi specifica che non tocca a me fare, io lì lo capisco, lo attribuisco a un fattore molto diretto; quando sento parlare di un bisogno di paternità, e succede anche, forse con i ragazzi giovani, i 30enni, non so, succede che sento parlare di queste scenette di famiglia del neonato che fa la popò e tu che… e questo giovane padre che lo accudisce, che insieme alla madre lo pulisce con un sorriso smagliante di gioia a me viene invece un rifiuto, mi viene un impulso di ironia verso questo tipo di cose. Insomma non sono portato, ecco, diciamolo pure. Non coltivo in me un impulso, un istinto, un desiderio, un bisogno, una raffigurazione di situazioni che combacino con la paternità. Poi se uno mi dice che sono egoista e che se fossero tutti come me la specie si estingue, io dico: “va beh, che si estingua!”, perché in fin dei conti questa specie ha fatto già un bel po’ di cose che noi reputiamo buone e tantissime altre che reputiamo pessime. Potrebbe anche estinguersi.

Naturalmente io ho ben impresso nella memoria tutto il discorso paterno, in particolare, sulla necessità di proseguire la stirpe, di continuare la famiglia eccetera che, devo dire, non era martellante in casa mia perché non eravamo una dinastia, non so, particolarmente prestigiosa, ma però insomma serpeggiava, come in tutte le famiglie, specialmente di un tempo. Questo anche non ha lasciato in me nessuna traccia, nessun pentimento; l’idea di pensare che il ramo della mia famiglia si interrompe a me non fa nessunissimo effetto, che si interrompa, non so, non capisco bene che cosa devo tenere in piedi, cosa devo difendere, eccetera.
L’immagine di me, per l’appunto “educatore”, al di là di questa fantasia con la figlia femmina, rigorosamente femmina, rispetto ai piccoli non me la sono sentita mai molto forte; tanto è vero che io mi trovo abbastanza a disagio ogni volta che ci sono bambini piccoli di amici e parenti a cui dire qualcosa. Non trovo facilmente il linguaggio adatto per dirgli “non fare una certa cosa”, gli dico “non farlo” se stanno buttando un vaso giapponese di valore inestimabile dalla finestra, ma più di quello non riesco a dire, sento che non ho bene il linguaggio. Il linguaggio che ho come educatore di adulti è un linguaggio di polemica, di discussione, in quanto polemica, in quanto discussione io sì, non gliela do vinta e tendo a voler far primeggiare le mie idee, il mio punto di vista, ma è una cosa che mi sembra molto diversa.
Se qualcuno mi dicesse che sono egoista e che se fossero tutti come me la specie si estingue io dico “che si estingua”, insomma non ho mai pensato, non ho mai interiorizzato l’idea che bisogna per forza contribuire al mantenimento di questa specie. Ha fatto tante cose, sono curioso di vedere magari dopodomani o l’anno prossimo che cosa mai potrebbe combinare la società umana, ma non vedo perché debba ritenermi corresponsabile insieme a tutti i miei simili della prosecuzione, del mantenimento di questa specie. È una specie che ne ha fatte di buone e ne ha fatte di pessime, non è questione nemmeno di bilancio, a un certo punto potrebbe anche estinguersi, perché no? Magari ci sono specie su Marte o su qualche altro pianeta che sono in grado di fare cose grandiose, utili, non sappiamo nemmeno bene cos’è veramente utile, utile per chi? Insomma utile per il nostro criterio attuale, per me utile per il nostro criterio attuale sarebbe molto diverso da quello che viene ritenuto utile dai dominanti, dai governanti e dai potenti della terra che ritengo invece nefasti a tutti gli effetti e quindi concetto di utilità degli umani sarebbe tutta un’altra cosa e non saprei bene come designarlo.
Bambini, cani, gatti, bambini accentratori, bambini intorno ai quali… ecco una cosa che non si capisce il perché, se non per il fatto che questi sono indifesi, o si pensa che non abbiano strumenti, in una riunione di adulti con presente un piccolo, questo piccolo è immediatamente il centro dell’attenzione, dei discorsi, delle narrazioni eccetera. Una delle tante cose che mi infastidiscono parecchio alle quali mi adeguo peraltro, non è che faccio niente di speciale, però insomma questa centralità dei bambini nel consesso degli adulti è un aspetto fastidioso che non si sa come risolvere peraltro. Lo so perché hanno bisogno di cure… Naturalmente i bambini sono molto prepotenti, come è noto, i bambini sono seduttivi, i bambini sono prepotenti, i bambini hanno una loro forza. Pensare sempre a loro come ai deboli forse è sbagliato perché hanno sicuramente tutti i loro meccanismi di dominio e di protagonismo nelle situazioni e quindi anche questo tipo di rapporto così diseguale, di strapotere apparente ma di soggezione reale in presenza dei bambini è una cosa che non mi diverte per niente, anzi mi fa un po’ incazzare.
Quindi immaginarmelo come presenza permanente non mi esalta, poi magari se fosse capitato sarebbe cambiato tutto quanto, ma non lo so, questo è il mio impulso allo stato, siccome lo stato è ormai quello di un adulto, molto ma molto adulto credo che il quadro mentale non cambierà di molto, né le mie immagini diventeranno diverse da quelle che sono adesso.»

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