Marta Cavicchioni, artista e attivista romana e donna senza figli, racconta il suo percorso personale e professionale fondato sulla responsabilità di innescare e curare, grazie all’arte, domande, possibilità, nuovi percorsi di senso comunitario, sociale, politico.
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Ecco la trascrizione completa del video:
MARTA: «Sono Marta Cavicchioni, sono stata invitata a fare un’esposizione in questo spazio virtuale che ha aperto Lunàdigas. Quindi ho strutturato questa mostra che poi vedrete esposta nello spazio virtuale.
Allora: cosa dire di me e del mio lavoro? E cosa rispetto a Lunàdigas?
Allora, io mi definisco un’attivista, sono un’attivista che attraversa gli spazi, in realtà, appunto senza fermarsi quasi mai.
Sono arrivata in bicicletta, forse è il movimento quello che mi contraddistingue come attivista.
Un po’ di anni fa, diciamo, ho scelto a un certo punto qual era la mia strada, come donna, insomma, di non avere figli.
In realtà è stata una scelta che appartiene anche abbastanza al mio passato.
Io già da bambina non capivo troppo questo senso di avere dei figli geneticamente propri. E lì entriamo anche forse nel concetto sociale che mi appartiene, su cui strutturo anche la mia arte. Che poi non è neanche mia appunto, è qualcosa di diverso, è un atto d’amore, secondo me, di affetto verso le altre persone.
Quindi ha molto a che vedere in realtà con la metafora della maternità, ma come affetto dato a qualcosa, a qualcuno senza niente… in cambio.
Comunque, socialmente, secondo me, non abbiamo delle strutture affettive ora, qui, in questo contesto, che almeno mi comprendano.
L’idea mia di crescita, di una persona, perché anche questa cosa… io non riesco neanche a dividere le persone per fasce d’età. E anche le persone giovani, secondo me sono persone che hanno una loro soggettività, che dovrebbero essere socializzate all’interno di un contesto più ampio.
Nel tempo sto formando un concetto di tribù un po’ diversa, insomma, che non sia legata a una genetica e questo si lega molto alla scelta di non avere figli.
Non ho bisogno io di avere un figlio che abbia la mia genetica, non ho bisogno di riprodurre quello. Quello di cui ho bisogno, probabilmente, e che mi sento, è di costruire delle comunità.
È quello il mio modo di essere nel mondo, insomma, di tentare di lasciare quel tipo di solco, se vogliamo, insomma. Ma non per me, non mi interessa, io forse non lo vivrò, però per non far vivere tutto quel dolore.
Io ho provato tantissimo dolore nel dover ripensare gli affetti, perché non è facile, con la qualità e la quantità di affetti che abbiamo intorno, non è facile per niente, affetti slegati dal concetto di famiglia, che è una struttura sociale creata per ordinare una società. Non è una cosa innata in noi.
I ruoli affettivi sono una roba che ti entra dentro perché ci nasci, ti viene imposta in qualche modo.
È l’unica via, cioè ti fidi perché ti fidi delle altre persone perché pensi che ti stiano dando il meglio di sé. Quindi crei comunque tutto un immaginario che quando ti ci scontri – perché non lo senti questo affetto -, secondo me lì c’è tanto dolore da affrontare, e tanta ricerca di altro nel mondo.
E l’arte a me è servita a questo, è stata la mia salvezza.
Io ho iniziato a immaginare altro rispetto a quello che vivevo.
E secondo me è la propensione che vorrei… che tutte le persone dovrebbero poter avere, cioè la possibilità di immaginare qualcosa di diverso anche rispetto a quello che vivono nel proprio ambito dove nascono.
Insomma, non è detto che si nasce fortunati con degli affetti intorno o un contesto che ti dia criticamente la capacità di capire quello che c’è, che senti.
E secondo me questo è un lavoro che per esempio adesso, politicamente – io sono anche molto politica-, credo che dobbiamo cambiare anche politicamente gli approcci per agire delle strutture che ci comprendano, che comprendano tutte le persone che mettono in dubbio queste dinamiche.
Poi non so mai se sono chiara, perché proprio alcune cose non le capisco come avvengono.
E da lì mi sono posta un sacco di domande, e quello mi ha aiutato.
Dico: perché soffro all’interno di queste… di queste strutture, di questo modo di fare? Quello mi ha aiutato tantissimo. E quello muove anche tutta la mia ricerca, ma non solo la mia ricerca.
Diciamo che non sono soltanto una donna senza figli.
Sono una donna che sceglie di andare in bicicletta perché è il mezzo che sente più vicino in una società e in una città ostile come Roma.
E quindi sono scelte che poi in qualche modo paghiamo, no?
Insomma, Lunàdigas dà anche un… ci dà una finestra, diciamo, rispetto al personale che viene intaccato quando fai una scelta che non è consona rispetto alle norme sociali, no?
C’è sempre qualcosa che ti aggredisce perché non puoi metterle in discussione,
non devi metterle in discussione.
Non è tanto che aggredisce te, ma quanto quello che rappresenti.
E sempre lì è il motivo per cui per me le immagini sono molto potenti, quindi quello che rappresenti quando ti scontri con una… quando anche solo con il tuo corpo rappresenti una differenza che a volte fa scatenare una violenza, essendo donne, appunto.
Quella cosa dell’utero, del dover procreare, di dover agire in un determinato modo, di non poter essere arrabbiate quando siamo arrabbiate.
Cioè, tutto questo è molto più complesso, no?
Cioè, nel senso… Non è solo una scelta, secondo me, è una complessità che ti apre una prospettiva differente, che è esattamente quello che si fa con l’arte.
Quindi questa creatività noi ce l’abbiamo, ma noi, non solo donne, anche persone che non hanno l’utero o persone che non lo vogliono usare, o persone che non possono usarlo per procreare.
Questa cosa secondo me è fondamentale che la sentiamo.
Ho tante sorelle, direi, ma anche sconosciute. Nel senso che… ogni volta che leggo un testo, ogni volta che seguo un percorso, anche di persone che non sono
strettamente vicine al mio ambito, al mio territorio, o che incontrerò mai dal vivo… Anche perché io sono timida e non riesco neanche a presentarmi, in queste situazioni. Sono un’artista timida che poi fa delle cose assurde, all’improvviso, come tutte le persone timide, credo.
Quindi ci sono delle sorelle, ci sono tante persone da cui apprendo, cioè prendo spunti, prendo percorsi.
C’è Marcella Corsi che è un’economista, è la prima donna entrata nel board delle economiste internazionali. Mi illumina su una parte che per me è sconosciuta,
appunto la parte, quella economica, ma anche i percorsi, quelli di lotta, che io non ho vissuto. Quindi sull’autocoscienza, come si faceva, no? Mi racconta tanto. Lei in qualche modo è una sorella forte, no?
Poi ci sono appunto, non so… c’è la mia sorella argentina, che è Romina Tassinari, che è un’altra artista lunàdigas. Ci siamo incontrate parlando del tema delle streghe e quindi… capire perché venivano bruciate, perché ci piace riprendere il fuoco, e se ci piace a noi come artiste riprendere il fuoco che ci ha bruciato, e quanti passi dobbiamo fare ancora per riprendercelo, senza negare invece chi l’ha utilizzato sui nostri corpi. Facciamo un sacco di riflessioni su queste parti.
Sto parlando di persone ancora vive e persone con cui ho delle relazioni, appunto.
Poi c’è bell hooks che ho incontrato, appunto, attraverso i percorsi di attivismo.
Ci sono tante scrittrici e anche scrittori che ho incontrato, quindi non so, insomma. Ci sono tante…. tanti link diciamo affettuosi, secondo me, che ogni volta che scopro qualcosa portato da un’altra persona per me quello è un atto d’affetto. Io lo concepisco così.
Cosa lasceremo, e a chi e in che modo possiamo lasciare quello che abbiamo fatto o che abbiamo di più caro?
Tipo Bruno [la sua bicicletta], a chi lo lascerò se mi succede qualcosa, no?
E in che forma, in che modo costruire questa cosa quando non hai appunto delle persone direttamente… insomma, che la struttura sociale ha detto a cui affiderai queste cose… ma a volte anche affettivamente, insomma, ti fa piacere che un figlio o una figlia abbia delle cose a cui tieni.
Questa è una bella domanda, io mi sono… cioè sicuramente dobbiamo costruire appunto… ritorniamo a quella cosa delle piccole tribù.
Credo che io vorrei che tutte le cose che ho prodotto possano creare una possibilità alle altre persone.
Quindi non lo so, più che tenerle, nonostante tutto, io direi vendete tutte le mie opere e speriamo che le comprino a tantissimo per dare la possibilità a un’altra persona di fare un percorso di attivismo che sostenga le altre donne,
le altre persone marginalizzate, che ponga altre domande ancora più profondamente, ancora più in là, spingendosi ancora più avanti per tentare di arrivare al profondo di noi, e di potersi esprimere per quello che siamo.
Una roba che teoricamente dovrebbe essere semplicissima, invece è complessissima.
Lo sarebbe comunque anche fuori da tutta una serie di strutture, perché comunque… però, diciamo che noi su questo proprio ancora abbiamo insomma degli strati talmente forti che ci dobbiamo lavorare tantissimo.
E quindi quello e lasciare… io vorrei lasciare possibilità e non so a chi.
Cioè, forse non mi serve sapere a chi, direttamente, però vorrei lasciare delle possibilità.
Non faccio arte per me, anzi io ogni volta che mi pongo a fare arte ho bisogno di un momento in cui mi ripulisco delle mie tensioni, ma proprio non le voglio mettere lì. Cioè, quelle sono le mie. Voglio tenere invece tutte quante le intuizioni che ho, anche vivendo nelle tensioni.
E quella roba lì è una cosa che posso condividere perché sono prospettive e possiamo unirci.
È un po’ come… scopro una cosa che io non conoscevo e nessuna persona me l’aveva data.
E vorrei che per quel poco che posso fare io con il mio lavoro… vorrei darla anche alle altre persone. Già, no? Dire: “c’è questa possibilità”.
Per esempio, rispetto a quello che dicevo prima sulle persone giovani, quindi i bambini, noi non abbiamo ancora mai veramente considerato quanto quello che noi chiamiamo educazione, sia a volte una violenza e un’imposizione. Questo lo scriveva anche bell hooks.
Cioè, non stiamo… adesso è un momento in cui stiamo chiedendo un’educazione sentimentale. Ma a chi la stiamo chiedendo?
A una struttura, comunque a una scuola che, a parte non ha più fondi e quindi quelle persone che ci lavorano hanno una difficoltà a portare avanti progetti fuori dall’orario scolastico, dal loro ruolo di cattedra, però è proprio una struttura che non comprende che dobbiamo ascoltare, in realtà, più che educare.
Cioè, io per esempio, non essendo una donna con bambini… ma io le persone giovani le adoro, perché hanno ancora quella capacità di giocare che a me serve.
Io quando posso gioco, in qualsiasi situazione.
Quando posso, oltre ad avere questo approccio politico, anche molto serio, anche molto oppositivo, però appena posso sento l’esigenza di dover giocare.
Io vorrei andare al parco giochi, a giocare con gli altri bambini.
Anche senza che siano i miei e senza essere guardata male per questo.
Ho fatto la babysitter per un periodo della mia vita. Quello è stato un canale in cui potevo inserirmi, socialmente potevo andare a giocare con i bambini perché li stavo guardando. In realtà stavo giocando con loro.
Alcuni bambini a cui ho fatto la babysitter da giovane mi hanno insegnato tantissime cose. Ma tantissime. Perché appunto, noi dobbiamo ascoltarli,
c’è tutta un’emozione… l’emotività in realtà c’è.
Noi nasciamo con questa capacità di creare relazioni, affetto: tutta quella parte lì c’è, noi la dobbiamo ascoltare.
E dobbiamo magari piano piano dare una mano, semmai con le parole e aumentarle
e domandarci anche noi prima di tutto cosa significano.
Rispetto al mio lavoro, io a un certo punto ho avuto la possibilità di poter fare una scelta.
È stato dopo i trentacinque anni. Tra i trentacinque e i trentotto anni ho avuto la possibilità di scegliere e di provare a fare arte, perché prima non avevo le possibilità.
Quindi… a un certo punto ho fatto un lavoro, questo lavoro mi ha consentito di dire “Ok, ce la posso fare. Questo è il momento giusto, posso staccare su questa cosa e provare a fare questo tipo di lavoro”, che poi appunto in realtà chiaramente è una passione che mi accompagna da sempre, però farlo a livello lavorativo, cioè tutto il giorno, anche semplicemente, vuol dire innescare dei processi di ricerca completamente diversi rispetto a farlo ogni tanto.
Quello che sto vedendo io tanto, per una persona come me, che non si adatta, che dice tanti no (come nella vita i figli, diciamo)… che dice tanti no… è che è difficilissimo, perché essere riconosciute esternamente, vuol dire avere spesso fama.
Nel senso anche questa cosa di…a me non interessa, per esempio.
A me non interessa la fama.
A me interesserebbe fare un lavoro sociale, territoriale. Secondo me non servono grandi persone.
È sempre quella cosa, essere leader, no? Non servono grandi persone che ci dicano come pensare. Serve che insieme lo facciamo questo percorso, perché sennò ci saranno sempre persone indietro e qualcuno che ti illumina la via.
C’è sempre questa cosa anche di dare il mandato, come con la scuola, con l’educazione.
Invece piano piano dobbiamo riappropriarci, secondo me, di una serie di cose.
A livello lavorativo faccio tantissima fatica, perché rivolgendomi alle persone comuni e non a grandi persone con redditi enormi, il mio lavoro segue…
io farei a redditometro.
No, quella cosa… “tu quanto puoi”? È difficilissima questa cosa, perché ci sono tante persone che in realtà non sono povere, ma si percepiscono come tali.
E ci sono tante persone invece che stanno lì lì, stanno per andare però che vorrebbero ancora poter pensare che un’immagine dentro casa gli dia una prospettiva appunto differente e godersela.
Quindi c’è tutta questa situazione. C’è una situazione delle strutture amministrative, dello Stato, che fanno bandi culturali in cui adesso chiedono anche le fidejussioni bancarie, perché pensano che chi fa arte e cultura
presenta tutto un progetto strutturato, poi se ne va.
E che non danno lo spazio per la cura.
Se all’interno di un bando, vinci un bando, io l’ho vissuto, vinci un bando e c’è una persona che sta male, e che doveva far parte di quel progetto, non hai il tempo per aspettare che quella persona stia meglio, per esempio.
O c’è tanta richiesta di cultura gratuita. E come credo che anche le persone che fanno attivismo dovrebbero avere un reddito, dovremmo creare una struttura economica differente, lo penso anche per la cultura perché sennò emergerà solo la cultura di chi se lo può permettere di emergere, di lavorare.
I margini non li ascolteremo mai e a me ha fatto benissimo sentire e ascoltare
le persone che stanno ancora più al margine di me, perché mi hanno dato la possibilità di affrontare altri strati che io non avevo considerato.
E secondo me questa è una perdita per tutte le persone.
Siamo qui a Lucha y Siesta, nel cortile. Qua alle mie spalle ci sono le edicole laiche che abbiamo realizzato durante un corso fatto a Bande de femmes
che è un Festival di illustrazione femminista di Tuba, la libreria delle donne.
Quindi sono opere di tante persone differenti che hanno partecipato a questo corso.
Perché siamo qui? Perché questo è un luogo che è sotto attacco, è la casa delle donne, ma non solo. È la casa di un territorio dove si dà accoglienza alle persone che stanno facendo un percorso di fuoriuscita da situazioni di violenza. Ma dove si fanno attività, cultura sia per il territorio che per persone che vengono da fuori.
Quindi è uno spazio di tutt*, tutte e tutti.
È uno spazio che è sempre stato attraversabile, aperto, e che noi adesso vediamo messo in discussione.
Le persone che fino adesso hanno tenuto gratuitamente, in modo assolutamente affettuoso questo spazio, dovrebbero riconsegnarlo per metterlo a bando.
Tornando ai bandi, alla situazione dei bandi che ci sono, stiamo perdendo con questi bandi una serie di percorsi avviati e profondi che non possiamo permetterci.
Specie adesso, in una situazione in cui stiamo vedendo la violenza che sta aumentando perché mettiamo in discussione la struttura del patriarcato, quindi ci sono una serie di reazioni ancora più forti rispetto a, appunto, prendere parola.
Specie adesso, non possiamo permettercelo. E questo spazio è uno spazio aperto.»
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