Chiara, giovane ricercatrice a Vienna, già attivista in Italia, racconta la sua posizione di trentenne verso la maternità, vissuta come una potenziale esperienza che sacrifica la possibilità di dedicarsi a temi di più forte impatto sociale. Espone la sua critica all’esperienza di crescita dei figli nel nucleo ristretto familiare, parla del problema della maternità nelle carriere accademiche e si sofferma sulle differenze che ha riscontrato tra Austria e Italia in termini di diritti delle donne e maternità.
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Ecco la trascrizione completa del video:
CHIARA: « La storia è stata che ho partecipato per diversi anni a questo cerchio di donne che è “La cena delle donne a Firenze”. Per me questo è stato sempre un luogo in cui ritrovarmi, diciamo: una volta al mese, è stato sempre un appuntamento fisso che ho cercato sempre di mantenere perché era proprio un luogo in cui, in qualche modo, mi spogliavo di tutte le cose brutte del mese, mi sentivo rinascere.
Questo è sempre l’effetto che mi fa stare in un cerchio di donne, mi fa sempre quest’effetto… sentirmi “aaah”.
E in questa situazione ho conosciuta appunto Nicoletta e il progetto di Lunàdigas era proprio all’inizio, non si chiamava ancora “Lunàdigas”, ma il primo cerchio che abbiamo fatto in questa cena delle donne, parlando del progetto, è stato proprio anche sul discutere che piega questo progetto avrebbe dovuto prendere, che nome avremmo potuto dargli.
Mi è rimasto molto impresso questo progetto e quindi ho continuato negli anni a seguire il loro lavoro, a guardare cosa succedeva sul sito di Lunàdigas e ho scritto a Nicoletta, ad un certo punto dopo qualche anno, chiedendo: “Ma questo documentario c’è?” e quindi sono rimasta un po’ in contatto, ci siamo parlate tanto nell’ ultimo anno e mezzo perché da quando mi è venuta l’idea di invitare Lunàdigas a Vienna, abbiamo dovuto chiedere fondi, c’è stato da organizzare le nostre tempistiche…
Quindi, per un anno e mezzo ci siamo sentite quasi continuamente, proprio per riuscire finalmente ad essere qui questo fine settimana a Vienna.
Sì, sicuramente è un traguardo la possibilità di avere un nome che ti identifica e questo è sempre stato così in tutti i movimenti di persone, direi, anche per esempio del movimento LGBT, ci sono sempre stati diversi step in cui effettivamente il darsi un nome ha costituito anche un’identità comune, quindi penso che proprio, anche politicamente, sia una forza avere un nome che identifica questa condizione.
E anche un nome che sia, come dite voi sempre, non una negazione, questo mi piace molto: che sia un nome che identifichi, ma che non tolga qualcosa. Mi piace molto in realtà perché mi sembra un nome molto internazionale, nonostante sia sardo, ma ha un suono che in qualche modo mi suona internazionale, quindi secondo me è un nome adatto.
Io, negli ultimi anni, ci ho riflettuto molto perché mi avvicino alla trentina e quindi è il momento in cui uno comincia a pensare, perché purtroppo si dice che c’è questo limite biologico per le donne, uno comincia a pensare ma “vorrò mai farlo o no?”.
Devo dire che quando ero piccola in realtà ho sempre pensato di sì, ma come una cosa che è molto lontana diciamo, cioè mi sono resa conto che, andando avanti negli anni, sono sempre più negativa sull’argomento.
Quando uno ci pensa da ragazzina, è una cosa così lontana, che è solo un’idea ed è facile dire “sì sì, ne voglio”; quando uno invece si rende conto che effettivamente comincia ad avvicinarsi il momento, e dovrei inserire questa cosa nella mia vita di adesso, è sempre più difficile… come dice una delle donne nel documentario “ancora non ho deciso, ma non so se riuscirò mai a trovare il coraggio di, effettivamente, razionalmente, togliere le mie precauzioni e decidere di farlo”. Anche perché anche a livello razionale, ho diverse riflessioni, sia a livello razionale che a livello emotivo e personale, su questo argomento: perché a livello razionale, proprio come qualcuno ha citato durante la discussione che abbiamo fatto ieri, mi sembra anche un gesto estremamente egoista in questo mondo che, si sa, sta andando verso una condizione molto diversa, soprattutto con il cambiamento climatico, in cui si sa già che nel 2050 il mondo avrà completamente un’altra faccia. Mi sembra quasi proprio un’azione egoista decidere di mettere al mondo una creatura che dovrà subire tutto questo in qualche modo. Allo stesso tempo è anche un po’ come dare l’esempio, nel senso che il mondo avrà 10 miliardi di persone nel 2050 e a volte mi chiedo “ma perché devo contribuire a questo disastro? Non so se mi sembra una buona idea”, e quindi a volte ho anche pensato che, se proprio decidessi di averne uno, mi piacerebbe molto di più adottarlo, anche perché tutte queste idee del voler trasmettere i propri geni o avere qualcuno che ti assomigli, a me proprio non interessa.
Dal punto di vista personale, la mia relazione con le Lunàdigas è dovuta anche alle esperienze che ho fatto all’interno della mia di famiglia, che sono delle esperienze che sto piano piano valutando e comprendendo negli anni, anche grazie all’analisi.
Penso di avere… siccome un po’ nella mia famiglia non ho avuto molta la possibilità di essere bambina, e quindi ho un’idea proprio della società fondata sul nucleo familiare molto negativa.
La mia idea è sempre stata quella di vedere il nucleo familiare che si stringe sempre di più rispetto a magari generazioni precedenti in cui c’era molto più un’idea di comunità o di famiglia allargata… molto pericoloso il fatto che comunque, in generale, un figlio cresca in questa fortissima influenza di così poche persone, mi sembra una cosa impossibile da fare bene, diciamo.
Via via che la società si sta sempre più restringendo e che uno, volente o nolente alla fine, anche se non vuole restringersi all’interno di questo nucleo familiare, è sempre più difficile uscire fuori perché le altre persone vivono così, quindi è sempre più difficile trovare degli spazi in cui ci si sente un po’ più all’interno di una comunità.
Ho proprio anche paura di questa cosa, ho proprio anche paura del fatto che, nonostante mi sento una persona anche equilibrata e magari potrei essere una buona madre, penso proprio che in questo tipo di organizzazione sociale, in cui un bambino ha come influenza così forte quella dei genitori, non è possibile che se ne esca sani da questa situazione.
Tutti dovranno andare in analisi per analizzare i traumi i familiari.
Quindi ho proprio anche paura, forse, anche inconsciamente, di ripetere l’esperienza della mia famiglia originale e ho anche paura che i figli all’interno della coppia cambino tutto. Sono proprio terrorizzata dal fatto che qualcuno possa interporsi all’interno della mia coppia, che qualcuno possa avere la priorità e che questo, più o meno consciamente, rovini proprio il rapporto di coppia, e semplicemente si ripeta l’esperienza che vedo in molte famiglie, in cui le persone stanno insieme quasi per abitudine alla fine e quasi per i figli. Quindi sono proprio terrorizzata da queste dinamiche, anche perché mi hanno fatto molto soffrire da bambina, in cui, fin da sempre, fin da quando ero molto piccola, ho avuto la coscienza chiarissima del fatto che i miei genitori non dovessero stare insieme. Quindi ho forse anche il terrore.
L’esperienza della maternità mi porta a pensare di avvicinarmi più a una famiglia come quella dei miei genitori e quindi sono terrorizzata, e nella mia vita forse la maggior parte delle scelte che ho fatto, le ho fatte per essere più lontana possibile dalla loro esperienza, diciamo. Quindi la maternità mi spaventa anche in questo senso, del rischio di diventare come tutti gli altri, come tutte queste famiglie, tutte queste persone adulte e infelici che non hanno più lo spazio e le energie per coltivare le proprie passioni, perché questo è quello che ho visto anche un po’ nei miei genitori. Loro si sono completamente annullati l’un l’altro e per i figli.
Appunto una delle motivazioni per cui forse deciderò di essere una Lunàdiga è anche il fatto che come principio in questo mondo la mia vita è dedicata a cercare di lasciare in questo mondo qualcosa che faccia diventare questo mondo un poco migliore. In parte anche penso di avere le energie per fare qualcosa di più di un figlio. Penso di avere le energie per effettivamente lottare su alcuni temi che mi stanno a cuore e avere un impatto che possa influenzare magari migliaia o milioni di persone, mentre se tutte o molte delle mie energie devono concentrarsi su una persona sola o dei figli, in qualche modo mi sento anche in colpa verso questa mia vocazione.
Dopo questa mia iniziale carriera come scienziata, in realtà mi sono resa conto che la mia vera passione è cercare di portare un impatto positivo nel mondo e quindi mi piacerebbe proprio cercare di sfruttare un po’ le mie skills, quello che so, quello che ho imparato come scienziata, per fare questo. Perché mi sono resa conto che l’accademia per me era un po’ troppo stretta, mi sono resa conto che l’impatto che potevo avere con il mio lavoro da accademica non era quello che vorrei avere e quindi mi piacerebbe più lavorare in temi come l’educazione, l’educazione della scienza, oppure per esempio l’acqua, che è un tema molto importante e che sarà sempre più importante con i cambiamenti climatici, e mi piacerebbe lavorare, per esempio, nella depurazione delle acque o nel monitoraggio della qualità delle acque, soprattutto in quei paesi dove il problema è molto più forte che qui.
Quindi mi piacerebbe molto dedicare la mia vita a un impegno forte che abbia un impatto su molte persone, e la maternità… ho anche la paura che mi porti via da questo impegno, ho paura che sia una scelta in qualche modo egoista, che dedicandomi a una o poche persone, mi porti via energie da poter usare per avere un impatto molto più forte su, in realtà, più persone nel mondo.
Quindi mi sembra proprio un gesto egoistico e penso: “cavolo, se io scelgo una persona sola o due, significa che non potrò impegnarmi nello stesso modo per cercare di raggiungere gli obiettivi che voglio e per, effettivamente, far sì che questo mondo sia un pochino migliore quando me ne andrò”.
In questi anni come dottoranda nell’accademia, mi sono resa conto anche delle forti problematiche che ci sono ancora nel rapporto tra la maternità e fare questo lavoro, effettivamente. Immagino che questo sia un problema che non è solo nell’accademia ma anche in tutti i lavori in cui c’è un alto grado di competitività, perché i posti sono pochi, i soldi sono pochi e le persone che lo vogliono fare sono di più. Quindi c’è veramente altissima competizione. Quindi in questi anni mi sono resa che conto che il rapporto della maternità con l’accademia è proprio un problema ancora molto aperto, perché le donne che decidono di fare questa scelta della maternità… c’è quasi una scelta nell’essere Lunàdigas in parte forzata se si vuole fare questa scelta di carriera. Mi sono resa conto in questi anni, facendo il mio dottorato qui a Vienna, che il problema del rapporto tra la maternità e il lavorare come ricercatori nell’accademia, all’università, è ancora molto aperto ed è ancora veramente molto in discussione. Il motivo è che è un ambiente molto competitivo, come possono essere forse altri ambienti di lavoro, ambiente molto competitivo in cui i posti sono pochi, i soldi sono pochi e le persone sono di più di questi posti. E quindi le donne spesso forse si trovano a dover fare questa scelta forzata di essere o meno Lunàdigas e questo è perché – diciamo – le donne che si ritrovano a fare questa scelta di maternità, ma vogliono anche continuare a portare avanti le loro passioni, e quindi fare questo lavoro, devono trovarsi ogni giorno, continuamente e costantemente, a dimostrare che il loro essere donna, e anche soltanto la funzione biologica di dover andare in ospedale per partorire, in nessun modo ha un’influenza sul loro lavoro.
Quindi ci si trova in delle situazioni assurde in cui se c’è un meeting tra group leaders, tra ricercatori, se uno si è rotto una gamba o ha la febbre non è un problema, ma se tu hai partorito ieri l’altro… ci sono sempre queste storie di donne che ce l’hanno fatta, che sono diventate, nonostante la maternità, professoresse che raccontano queste storie di eroine e di sofferenza in cui loro, due giorni dopo aver partorito, ancora con il figlio addosso, attaccato al cordone ombelicale… legato… non lo so… vengono a queste riunioni e subito sono di nuovo a lavorare perché devi dimostrare che il fatto di essere donna, e anche soltanto la parte biologica della maternità, non ti rende in alcun modo differente. Quindi c’è proprio questa contraddizione, in cui si va verso l’uguaglianza, ma non è veramente inclusione, perché bisogna tener conto anche che nel periodo di carriera all’interno dell’accademia in cui una donna, in cui tutti, devono dare, sono proprio nel momento dello sprint, perché devono dare il massimo per riuscire a trovare una posizione fissa, perché questo nell’accademia succede molto tardi, tra i trenta e i quaranta, è anche il momento in cui uno decide o meno se fare figli.
Quindi si va verso un’uguaglianza solo teorica, perché nella pratica forse dovrebbe esserci proprio invece una maggiore possibilità, forse un avanzamento di carriera pensato qualche anno prima forse per le donne, perché molte si ritrovano a fare questa scelta e decidere di lasciare l’accademia perché pensano che non sia possibile unire questi due ruoli, di madre e ricercatrice.
Nonostante ci siano anche gli uomini dall’altra parte, questo non è mai un problema, nel senso che gli uomini ricercatori magari hanno la moglie a casa con i figli che gli prepara il pranzo, eccetera. Una volta abbiamo fatto un simposio di discussione sulle donne nella scienza e mi ha colpito molto quello che ha detto una ragazza, che ha detto: “si pensa sempre alle forme di discriminazione che si vedono, ma in realtà c’è anche un gender gap, c’è anche una forma di discriminazione nascosta, che è il fatto che i miei colleghi hanno la moglie a casa con i figli che gli fa il pranzo, pulisce la casa, eccetera… e io devo fare tutte queste cose da sola”.
Io sono io e, oltre a essere scienziata, devo anche pensare a me stessa e molti dei miei colleghi non lo fanno perché hanno qualcun altro che pensa a loro, quindi per loro la carriera è più facile, perché hanno più tempo, effettivamente, per potersi dedicare completamente alla scienza.
Questo è quello che viene richiesto agli scienziati. Siccome è così competitivo, ti viene richiesto che tu viva solo per quello, ti viene richiesto che quella sia la tua massima aspirazione, la tua unica passione. Avere altre cose che ti interessano non è ben visto, perché è proprio richiesto questo spirito di sacrificio, quasi di vocazione sacra.
Infatti, tutti gli scienziati che vengono intervistati e gli viene chiesto com’è che hanno deciso di essere scienziati, s’inventano e si autoconvincono di queste storie di vocazione che avevano fin da quando erano bambini e nessuno dice mai “ho deciso perché mi piaceva quando avevo vent’anni”. Tutti dicono “quando avevo tre anni già guardavo le stelle”. Ci vuole proprio questo senso di abnegazione totale e ti convincono proprio che c’è la necessità di lasciar perdere tutto il resto.
Quindi è ancora veramente un grosso problema e uno dei motivi principali per cui le donne dicono “io lascio l’accademia, perché qui non posso fare figli”.
La mia esperienza di confronto tra Austria e Italia è stata forse diversa da quella che uno si può immaginare, perché dal punto di vista dei diritti delle donne, l’Austria è un po’ più avanti, o non ho ben capito, se l’Austria è avanti o anche negli ultimi anni c’è stato un po’ di aumento della consapevolezza su questi temi in generale, perché nel momento in cui ero in Italia, e comunque ho sempre fatto l’attivista, mi sono sempre occupata di tanti argomenti, per esempio dei diritti LGBT, l’istruzione e sono stata per molti anni nei collettivi universitari, ma il discorso delle donne non esisteva, proprio non c’era nemmeno questo tipo di discussione.
Io ho vissuto per anni, vivendo anche sulla mia pelle, delle discriminazioni che non comprendevo nemmeno, che quando sei completamente immersa in una situazione che ti sembra quasi normale, soltanto dopo, trasferendomi qui e aumentando le mie consapevolezze su questo tema, grazie anche a delle amiche che erano molto impegnate nel femminismo, ho rianalizzato e compreso tante esperienze che mi erano successe, che al tempo mi avevano solo fatto venire mal di pancia, ma non le avevo analizzate.
Nonostante ciò, nonostante il fatto che sento che c’è una maggiore consapevolezza qui, forse invece sulla maternità mi è sembrato forse un po’ peggio che in Italia. Il motivo è forse una diversa emancipazione economica.
Il problema in Italia è che, almeno di tutte le persone che conosco io al centro Italia, nelle famiglie normali le persone lavorano entrambe, perché semplicemente è difficile potersi permettere di portare avanti una famiglia se una persona sola in un nucleo familiare lavora, quasi impossibile se uno ha un lavoro normale. Quindi si attiva, in qualche modo, questo senso di comunità che abbiamo un po’ maggiore in Italia rispetto ai paesi nordici, questo senso, ancora un po’ più di famiglia allargata che c’è in Italia o comunque anche amicizie… c’è un pochino più il senso della comunità, si attiva e ti permette magari di lasciare i figli ai nonni, alle amiche e questo fa sì che ci sia anche un po’ più di abitudine delle donne a lavorare e riuscire a trovare delle alternative.
Mentre qui forse questa spinta economica non c’è stata o non c’è, non c’è mai stata, perché effettivamente gli stipendi sono più alti e molte donne si possono permettere di rimanere a casa e ancora lo fanno. Una cosa che mi ha colpito qui è il fatto che mi hanno raccontato che c’è stato un referendum sugli asili e sulle scuole in cui chiedevano cosa ne pensava la popolazione sul tenere il tempo pieno o meno, e ha vinto “No il tempo pieno” e io ho proprio sentito alcuni colleghi maschi, del mio gruppo, dire che secondo loro è giusto perché i bambini devono stare con la mamma.
Io non posso immaginarmi i miei coetanei italiani dire una cosa del genere, quindi ho notato che forse questo mancato bisogno di emancipazione economica, ha fatto sì che tantissime donne ancora o stiano a casa o lavorino part-time. »