Marinella Perroni, teologa e biblista, fondatrice del Coordinamento Teologhe Italiane, affronta il tema della maternità, non solo da un punto di vista personale, ma anche da studiosa della Bibbia e delle numerose figure femminili in essa presenti.
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Ecco la trascrizione completa del video:
«Io non sono madre biologica e nemmeno ho mai pensato di trasferire la maternità dal piano biologico al piano spirituale. Non mi sento madre, mi sento di aver stabilito relazioni di molti altri tipi, ma non quella della maternità.
Io non ho mai avuto l’impressione onestamente di aver giocato questo registro; poi, chiaro, quando mi sono ritrovata ad essere una persona importante, significativa per persone più piccole, è possibile che ci siano stati anche… ma direi più nei toni di responsabilità che di maternità probabilmente.
Io credo che la maternità intanto sia un rapporto duraturo, e sia un rapporto che proprio impone di instaurare un clima di reciproca presa di distanza e di reciproca invece intersezione. Perché è chiaro che più è lungo il rapporto di maternità e più si deve accettare di invecchiare rispetto ai propri figli, ma si deve anche accettare… è così, invece all’inizio il rapporto di tutela, di protezione, di responsabilità si ha della madre rispetto al figlio, ma se si va avanti molto spesso invece si deve anche accettare il contrario, quindi è un rapporto molto storico direi, quello della madre, assolutamente non occasionale o occasionato e quindi ha una continuità che ha dei pro e dei contro evidentemente. E che impone, secondo me, dei ritmi, alla relazione, particolari.
Io non è che ho scelto di non diventare madre, voglio dire io ho scelto nella mia vita non contro la maternità, ho scelto all’interno di un orizzonte in cui la maternità non era prevedibile, era ben possibile, cioè non mi mancava niente, ecco. Poi posso anche pensare – ma queste cose si pensano sempre a posteriori – , posso anche pensare che l’educazione che ho avuto, che la situazione familiare in cui sono cresciuta mi hanno in qualche modo predisposto involontariamente, più o meno volontariamente, alla possibilità di costruirmi una vita in cui non era obbligatorio, anzi in cui era passato il messaggio che una maternità sentita come obbligatoria, come destino, come obbligo sociale poteva essere deleteria, se non addirittura letale. Quindi è chiaro che probabilmente mi veniva da un certo bagaglio la predisposizione a pensarmi in modi non obbligatori verso la maternità.
Un’educazione, come posso dire, a trecentosessanta gradi di possibilità, e con un’altra idea, io questo l’ho capito andando avanti… in fondo mia madre mi aveva sempre passato [l’idea], ed era: “ricordati che tu sei nata venticinque, trent’anni prima dei corsi storici”, cioè che un pochino io avrei dovuto accettare di anticipare delle cose che poi invece sono diventate sempre più sociologicamente ovvie, permesse. Io sono andata via di casa molto giovane, a vivere da sola perché mi sembrava che fosse una cosa per me importante, ma quando la pressione sociale ancora era: “una ragazza non va a vivere da sola, insomma”. Oggi penso che non ci sia nessuna difficoltà per una ragazza ad andare a vivere da sola. Quindi mi rendo conto che è anche un po’ in forza del periodo sociale: le spinte, il ‘68 e dintorni in cui io sono stata giovane mi hanno portato forse ad anticipare personalmente delle cose o delle possibilità che poi sono diventate invece scelte condivise, scelte accettate e plausibili.
Io direi – se devo proprio in sintesi dire come percepisco oggi la vita che noi abbiamo fatto in famiglia -, era una famiglia assolutamente non convenzionale, pur vivendo nello stereotipo più normale di madre, padre, due figli, ma in cui questo veniva molto sofferto, cioè di fatto tutti e quattro noi, in qualche misura, esprimevamo un disagio rispetto alla costrizione che può essere una vita familiare. Quindi non abbiamo mai costruito, il – vero o falso o autentico non importa – “bozzetto familiare”. Ma sempre ci siamo domandati se non sarebbe stato possibile anche vivere tranquillamente senza pagare, come posso dire, questa dogana alla vita che era assolutamente doversi sposare. Infatti anche mio fratello si è sposato molto tardi, per esempio, ed io non mi sono sposata.
All’inizio degli anni Settanta a Roma non era una scelta così ovvia quella che una persona, non per motivi di studio, non per motivi di lavoro, ma per semplici motivi proprio di affermazione del proprio desiderio di costruirsi autonomamente, andasse via di casa, lasciando la madre, vedova per altro. Quindi era – come posso dire – , un cliché che certo mi è costato alcuni giudizi di alcuni ambienti. Paradossalmente, venti anni dopo, invece io ho avuto un plauso implicito: “Ah però, che bella cosa, eri tra le prime”, ma le prime di molte altre: c’è stata poi una legittimazione, sino ad arrivare al paradosso che io mi sento dire da persone più diverse della mia età, e quindi che hanno figli, che hanno avuto figli, che sono anche adulti: “beata te!” Perché i figli sono diventati motivo di… prima erano un investimento, adesso sono motivo di fatica, di preoccupazione, e questo onestamente mi fa male perché io non è che non ho avuto figli perché volevo affermare che i figli… rovinano la vita. E invece sentirti dire: “Ah, beata te perché tu puoi fare quello che noi non possiamo fare”… mi disturba ecco, oltre a darmi la misura di quanto è diventata complessa, oggi, anche la scelta della maternità.
Che non li ho potuti avere no, perché lì dove la mia vita è conosciuta si sa che non è né un motivo biologico-fisiologico né un motivo sociale, che mi ha impedito di avere figli; non è stato un impedimento, è stata una scelta, fare altro. Che questo sia stato sempre così – come posso dire – accettato e accettabile, nei contesti in cui vivevo, no. Dalle mie zie che hanno continuato fino a tardissima età a sperare che un giorno avrei cambiato idea, avrei portato a casa i confetti, al mio collega a scuola – io per lungo tempo ho insegnato religione – , che continuava a dirmi: “Ma no, una donna sola non ha senso, non ha identità. Quindi, anche nei modi strani in cui oggi si accede al matrimonio, però ci devi arrivare prima o poi”. Io onestamente non l’ho mai capita questa cosa. A parte il numero di donne che sono ritornate ad essere sole dopo il matrimonio, ma poi – voglio dire – perché una donna sola non ha identità? Ecco probabilmente il principio di identità me lo sono sempre costruito a partire da me stessa; quindi, non vedo perché l’identità mi deve essere data dal matrimonio, dalla maternità più che non dall’essere professore o dall’aver fatto altre cose nella vita.
No, ma lì c’è il passaggio, c’è la trasposizione, lì è molto facile insomma… per questo la mia, invece, fisionomia ha sempre dato, se non fastidio – in mondi in cui io ero poi apprezzata, mi si voleva bene- , era più con condiscendenza veniva pensato questo “non essere”, no? C’è sempre stata la difficoltà: non sei suora e non sei madre. E a non capire che esiste un “sei”, che non è detto che debba essere definito a partire dall’una o dall’altra possibilità. È chiaro che per le suore la trasposizione è stata quella: primo rinuncia alla maternità, quindi la maternità resta l’unico destino vero reale delle donne, teologicamente, biblicamente eccetera; se si rinuncia è solo perché Dio te lo chiede in nome di qualche cosa di più alto che è la maternità spirituale, o non so che cos’altro. Siccome io non entro in questo tipo di codice è chiaro che un po’ di fatica c’è sempre stata a accettarlo, no? Poi, va beh, c’è subito il giudizio quello un po’ più brutale, machista: “va bene, non ti sei sposata perché nessuno se l’è presa”… eh, va bene, accettiamo anche quello, non ci interessa.
Allora, la Bibbia non può essere ridotta a una realtà univoca e unitaria. La Bibbia, la sua grande forza, la sua grande bellezza, è che rappresenta, anzi descrive, attraversa, ripensa, elabora 1300 anni di storia, di storia umana vissuta nel tentativo di dare ad essa senso con un riferimento forte, alla divinità trascendente, personale, tribale, di popolo, e poi messianica, di questo dio che si rivelava.
La Bibbia non contiene assolutamente una visione della maternità. Tanto meno si può cercare di ridurla a un codice di come vivere la maternità. Certamente la Bibbia, raccontando storie di vita, racconta molte storie di maternità nell’Antico Testamento. L’Antico Testamento anzi presenta la maternità come linea di demarcazione tra l’ordinario e lo straordinario. E siccome lo straordinario è il luogo dell’azione di Dio, e l’ordinario è il luogo della fedeltà, dell’obbedienza, è chiaro che una maternità, per esempio di una sterile, diventa l’assoluto segno dell’intervento e dell’azione divina. Perché le donne senza figli in una società patriarcale sono inevitabilmente reiette, sono inevitabilmente considerate fuori gioco dal punto di vista sociale. Allora è chiaro che se Dio deve far sentire il suo intervento, lo fa sentire lì dove ciò che dovrebbe essere normale invece è punito. Spesso si ritiene che sia stato punito dalla sterilità. Già, per esempio, non è vero che tutte le donne bibliche sono madri però. È anche vero che poi ci sono figure molto importanti e molto forti che sono protagoniste dei racconti biblici senza essere madri.
Naturalmente la tradizione interpretativa le lascia molto da parte, perché serve di più la figura della matriarca che conferma la visione patriarcale della famiglia e della donna che non per esempio queste donne giudici, queste donne condottiere. Noi di Miriam, la sorella di Mosè, non sappiamo che abbia figli per esempio, e comunque non entra nella storia biblica per il motivo dei figli. Mentre alcune entrano per il motivo dei figli come sterili o come donne feconde, alcune entrano nella storia biblica assolutamente per ruoli, invece: per ruolo sociale, penso alla profetessa Hulda che non si dice se ha figli o non ha figli, perché non è quello l’importante. Ma questo viene sempre un pochino lasciato da parte nella storia dell’interpretazione. O meglio, oggi forse siamo in grado di percepirlo e di capirlo e di dare quindi anche un significato a tutto questo, perché se in una storia così radicalmente patriarcale, come quella del popolo d’Israele nelle diverse fasi della sua esistenza, ci sono donne di questo tipo, vengono riconosciute, e addirittura vengono narrate – perché noi sappiamo che il grande scarto è tra chi la storia la fa e chi la storia la narra, quindi le donne l’hanno sempre fatta, ma non è mai stata narrata -, lì invece vengono narrate nonostante tutte le premesse, beh – voglio dire – è anche questo un dato importante per dire certamente la maternità in una storia, in una cultura patriarcale, agricola… chiaro che la benedizione che viene da Dio sono i figli, questo il salmo lo dice ed era profondamente sentito, una cultura patriarcale e agricola ha bisogno di figli ,quindi non c’è dubbio. E c’è anche poi tutta l’idea che non è soltanto la sopravvivenza della specie, ma è la sopravvivenza del popolo che è garantita dalla maternità quindi, oltre che le trasmissioni ereditarie eccetera…
Nel Nuovo Testamento invece noi vediamo che da parte di Gesù non c’è assolutamente nessuna esaltazione della maternità, anzi della maternità biologica. Ma non c’è nemmeno nessuna maternità spirituale. C’è il riconoscere che quello che diventa importante è altro. Che per i figli del Regno di Dio, che sono coloro che credono alla venuta imminente del Regno di Dio, non c’è proprio spazio interiore per pensare alla sopravvivenza della specie, il generare per se stessi, per la famiglia, per la società, per il popolo, per Dio. Perché ormai il tempo è breve e dobbiamo vivere con l’idea del tempo che è breve. Quindi Gesù, per esempio, non ha posterità, non genera, perché… adesso noi parliamo di maternità però insomma si potrebbe anche parlare di paternità, e sarebbe ora nel momento in cui si affronta la questione della maternità. E Gesù ha una sua condotta che assolutamente non… vogliamo essere eccessivi?, non diciamo contro la famiglia, normalmente si dice tecnicamente a-familiare. Lui si capisce all’interno di un contesto che non è quello normale della struttura familiare, che è la struttura portante, resta la struttura portante del suo popolo.
Allora Gesù ha un comportamento assolutamente a-familiare perché è più proteso a questa attesa diciamo che deve venire e della sua funzione di annuncio di questo che deve venire che non a osservare il comando divino di procreare. I personaggi che sono intorno a lui, certamente alcuni sono sposati, ma noi non vediamo mai figli in giro. Soprattutto su alcune donne che esercitano un ruolo fondamentale all’interno della narrazione evangelica, noi non abbiamo nessuna informazione. Può essere ma non abbiamo nessuna informazione che siano sposate o che abbiano figli. Questo non significa però immediatamente dire: erano suore. Quell’altra strutturazione che ha preso sicuramente l’ethos, il comportamento, l’atteggiamento a-familiare di Gesù poi è diventata la consacrazione religiosa. Ma, insomma, c’è una elaborazione di secoli, ci sono stati gli influssi ascetici, tutta un’idea di sessualità insomma. Sono costruzioni complesse, questo voglio dire: sia la maternità sia la consacrazione religiosa che poi è diventata la verginità. Mi sento di dire, oggi da donna di questo secolo, sia che la costruzione di un’identità che è a-familiare, che non è nello stesso tempo una consacrazione religiosa, senza che questo proprio debba essere tacciato francamente di egoismo, di incapacità di costruire relazioni stabili. Francamente lo rifiuto perché non è vero.
Io penso che sarebbe stato molto brutto titolarlo così perché la sterilità… a parte che la sterilità può essere ed è probabilmente un’assenza, io mi sento di aver scelto per un tipo di vita, che non è aver scelto la sterilità, io ho scelto un’altra cosa. Allora le donne sterili della Bibbia erano un problema, io non mi sento di essere un problema, né per me stessa né per gli altri, francamente. Le donne nella Bibbia erano un problema proprio perché la generazione come garanzia della sopravvivenza del popolo di Dio, quindi del popolo con cui Dio si relaziona, era fondamentale. Allora la sterilità era una maledizione. Io non mi sento e credo molte insieme a me non si sentono né sterili né maledette. Né tantomeno fuori dal progetto di Dio, nel senso che abbiamo visto che Dio in una cultura diversa, meno uniforme, si manifesta in molti altri modi che non soltanto attraverso la generazione biologica degli appartenenti al popolo. Calcoliamo che noi oggi, anche l’accezione di popolo di Dio la diamo a una realtà assolutamente non etnica, non biologica. Quindi cioè è diventata enorme.
Allora non vedo perché dobbiamo continuare invece a relegare sempre quello che riguarda le donne al circuito stretto di casa e famiglia, no. Sono sterili. No.
È chiaro che con l’avanzare dell’età il problema uno se lo pone, se lo pone sempre, poi quando io sono rimasta completamente sola dal punto di vista della mia famiglia d’origine, e non avendo una famiglia poi mia – perché mio fratello è morto – , ho dovuto pensare seriamente a scrivere qualcosa, e ho detto quali erano le mie volontà, che erano semplicemente garantire che non vada tutto disperso, quello che può essere dai miei libri alla mia casa, insomma. Poi non è che io abbia chissà quali beni. Però devo dire che questo mi ha innescato una serie di riflessioni che sono poi, o almeno che io vivo, in continuità con tutta la mia vita e le scelte che ho fatto. Cioè, in fondo la scelta di fare altro e di essere disponibile a rapporti aperti da tutti i punti di vista, che possono essere quello che più giovane ho fatto l’insegnante per molto tempo, insegno teologia… quindi sembra sempre di fatto di passaggio, io credo che ci possa essere qualche eredità spirituale, interiore, teologica che uno lascia, però è come se non ne potessi avere il controllo. E questo credo che faccia parte dell’identità che io ho vissuto progressivamente nella mia vita, perché non ho il controllo sulla generazione futura, non ce l’ha nemmeno un padre e una madre, forse però in parte ce l’hanno, in parte c’è una progettualità che arriva al suo scopo, si trasforma… Per me no. E allora dico in fondo sono vissuti miliardi di persone che sono morte senza aver lasciato nulla, o sembra che non abbiano lasciato nulla, ma hanno vissuto invece, hanno lasciato una eredità reale nella storia degli esseri umani. Non nella storia raccontata. Non importa. »
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