Roberta, madre di una bambina, racconta le difficoltà che ha vissuto nel decidere di fare un figlio: la precarietà del lavoro, il denaro, le pressioni della gente, la necessità di appoggiarsi alla famiglia d’origine, sono fattori che incidono nella scelta di diventare genitori.
Questa testimonianza è stata raccolta all’interno del progetto “ANNOTU – Lingua sarda come lingua materna” con il contributo della Presidenza del Consiglio regionale della Sardegna (Avviso 2024).
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Ecco la trascrizione completa del video:
ROBERTA: «Mi chiamo Roberta e ho quarantasei anni. Da quando ero piccola ho sempre pensato a come sarebbe stata la mia vita da grande. Mi immaginavo sposata e madre di due figli maschi, non so perché ma ho sempre voluto essere mamma di figli maschi.
Poi, a venticinque anni ho capito che forse non ero capace di fare la mamma, perché ho capito cos’era il denaro. Avevo cominciato a lavorare in una società e pensavo che un figlio potesse essere un impedimento per queste idee che avevo.
E quindi pensavo di non essere pronta a fare la mamma, e forse che non sarei stata brava neanche in futuro. Poi a trentaquattro anni mi sono sposata. Quando mi sono sposata la società ha bussato alla mia porta. Perché la gente mi diceva: “Ma ancora non hai figli? E quando li vuoi fare?” E io pensavo: “Ma dove sta scritto che, ora che son sposata, devo avere un figlio in due giorni, due mesi, due anni?” Io non volevo figli in quel momento. E non li volevo perché la società dove lavoravo stava chiudendo. Il lavoro non era sicuro, ci avevano messo in cassa integrazione, un paio d’ore al giorno, e io avevo capito che da lì a poco il lavoro non ci sarebbe più stato.
Dopo un anno mio marito mi ha detto, di colpo, che voleva un figlio. Ho cercato di fargli capire che non era il momento, perché avevamo solo la sua entrata e altri soldi non ce n’erano, e le spese erano tante. Ma lui mi ha detto che il momento migliore non esisteva, che oggi erano i soldi, domani la casa, poi la macchina e chissà che altro. Così ci siamo rimboccati le maniche e sono rimasta incinta. La mia gravidanza è andata bene, grazie a Dio, non ho mai avuto un intoppo, né scocciature. E poi è nata mia figlia. Eravamo contenti quando è nata: ricordo ancora quel giorno, ce l’avevo così, tra le braccia. Era bella, piccola, con la faccina che sembrava una pesca, bianca e rosa. Poi dopo due giorni ci hanno mandato a casa e siamo tornati dall’ospedale.
E un’altra volta la società ha bussato alla mia porta. Un po’ di persone, parenti, amici, vicini di casa, hanno cominciato a dirmi: “Quando te lo fai il secondo? Perché dopo il primo c’è subito il secondo!” E incominciavano a dirmi che chi ha un solo figlio è come se non ne avesse. “Te lo devi fare, deve avere compagnia, devi dargli un fratello, una sorella”. Come se un fratello e una sorella come destino avessero di stare sempre assieme. Ma non è così. Non è così, perché avere un fratello o una sorella è una fortuna, ma a volte sono dolori. E poi no, non volevo un altro figlio. Anche mia madre aveva avuto solo me e io stavo bene, non c’erano problemi, mamma mi ha dato tutto ciò che poteva darmi, tutto l’amore che poteva darmi. Sono cresciuta bene, non avevo bisogno di un fratello o di una sorella. Ma alla gente non bastava mai. La gente s’impiccia sempre. Però non tiene mai in considerazione una cosa importante, che oggi bisogna tenere in considerazione. È che c’è bisogno di soldi, c’è bisogno di tante cose per andare avanti.
Come posso dire, io sono nata e cresciuta in una famiglia in cui c’è chi avuto due figli e c’è chi, come mia nonna, ne ha avuti dieci. E quindi sembra che se hai un figlio solo non sei nessuno. Dovevo avere figli, fare tanti figli. Mi ricordo di quand’ero piccola e giocavo in cortile, c’erano le donne che pettegolavano e le sentivo dire tante volte, magari di una sposina che si era sposata da poco e ancora non aveva figli, che sicuramente non ne poteva avere. A Sassari le donne che non potevano avere figli le chiamavano “legna secca”. Poi c’era qualcuno, più signore, più elegante, che le chiamava “pianta che non attecchisce”, una pianta che non riesce a far niente.
Però pensavo: “Ma quando mai una donna senza figli non ce li ha solo perché non può averne?” Una può non aver figli anche perché sceglie di non averli. Quindi sentivo queste cose e pensavo al giorno in cui anch’io ero diventata mamma: chissà cosa aveva detto la gente.
Io, per esempio, lavoro otto ore al giorno in un ufficio e non sarei potuta andare al lavoro senza l’aiuto dei miei genitori. È impossibile, perché grazie a Dio abbiamo questo tipo di aiuti, poi adesso non ho neanche più mamma che è morta, ed è mio padre che pensa a tutto. È lui che viene la mattina presto a casa quando la bambina ha la febbre. È lui che si occupa di tutto, che va e viene tutto il giorno, cercando di comprare tutto ciò che serve a mia figlia. Forse non mi basterebbero dieci vite per dirgli “grazie”, perché “grazie” è solo una parola, vorrei fare di più, ma cosa posso fare? Ho bisogno di andare a lavorare, le cose sono cambiate, mia figlia ha il diritto di andare a scuola vestita bene, come me e mio marito. Dobbiamo viverla la vita, non arrancare cercando di andare avanti.
C’è una cosa molto importante che cerco sempre di far capire a mia figlia: è che sua madre deve lavorare, deve lavorare per la famiglia, magari per farsi un viaggio, ma soprattutto per se stessa, perché deve essere felice.
Le capisco le donne che non hanno figli. Ho tante amiche senza figli: qualcuna perché magari non ha incontrato la persona giusta per farli, altre proprio perché hanno scelto di non averne. Perché non volevano un legame così forte. E le capisco, perché anche io, quando pensavo di aver figli, tremavo un po’. Anche io ho pensato di non averne, e anche se sono madre non ho questo slancio così forte verso mia figlia. Io devo vivere, perché la vita è la mia, devo fare ciò che mi piace. Mia figlia ha tutto il diritto di avere una madre felice, sana di mente, una mamma pronta ad aiutarla quando avrà bisogno.
E ogni giorno, quando mi alzo e mi guardo allo specchio, sono orgogliosa, sono felice di ciò che ho fatto con le mie mani e con la mia testa, e con le mani e la testa di mio marito. E vorrei che si sentissero così tutte le donne che oggi hanno deciso di essere donne e non mamme.
E quindi spero che la società cambi la maniera di guardare le donne. Perché essere mamma oggi, in Sardegna, non è facile. Ci sono tanti disoccupati, non c’è lavoro, e le responsabilità che ha una mamma non sono le stesse di un padre. Dipende anche dai contratti nazionali di lavoro, non si può stare a casa. Qualcuno può stare a casa, pagato, se il figlio è malato. Altri possono stare solo un paio di giorni. Spero che cambi il modo di guardare alle donne, di guardare alle mamme, perché ci meritiamo molto di più.»
Sassarese:
ROBERTA: «Mi ciamu Roberta e v’aggiu quarantasei anni. Da candu era minori aggiu sempri pinsaddu a chissa chi una voltha da manna saristhia isthadda la vidda mea. Mi immaginava cuiubadda e cu dui figliori masci. No soggu pa cosa masci, ma abìa sempri vuruddu assè mamma di figliori masci.
Dabboi, a ventizinc’anni aggiu cumpresu chi forsi no eru capazzi di fa’ la mamma, acchì abìa tasthaddu chissi chi erani li dinà. Abìa incuminzaddu a trabaglià in una suzziadai e pinsavu chi avè un figlioru pudìa assè un ipezia di impidimentu pa chisthi gidei che eu v’abìa.
E dunca pinsavu di no assè pronta, né a fa la mamma e forsi no saristhia isthadda bona nemmancu a fallu un dumani. Dabboi a trentaquattr’anni mi soggu cuiubadda. Candu mi soggu cuiubadda la suzziadai ha zoccaddu a la janna mea. Acchì la genti incuminzava a dimmi : “Ma figliori ancora no n’hai? Candu ti li fai i figliori?”
Ed eu inchibi pinsava: “Ma indì v’è ischrittu che eu, pa un affidu, eu debbu abè un figlioru in un pagiu di dì, in un pagiu di mesi, in un pagiu d’anni?” Eu li figliori no li vulìa in chissu mamentu. E non li vurìa acchì la suzziadai indì trabagliava era tanchendi. Lu trabagliu no era siguru, z’abiani posthi in cassa integrazione, un pagiu d’ori a la dì, ed eu abìa cumpresu che da inchibi a poggu lu trabagliu no v’era più.
Dabboi di un annu me mariddu è giuntu, e seccu seccu m’ha dittu chi vurìa un figlioru. Aggiu zirchaddu di falli cumprindì chi no era lu mamentu chissu, acchì v’abiani solu l’intradda soia, no v’abìani althri dinà, li cosi da pagà erani tanti. Ma eddu m’ha dittu chi lu tempu migliore no esisthia, chi tantu oggi erani li dinà, dumani forsi era la casa, dabboi la macchina, chissà cosa mai.
Così zi semmu posthi di fa’, ed era gravidda. Gravidda, e la mia gravidanzia grazie a Deu è andadda bè, no aggiu mai avuddu un intoppu, no aggiu mai avuddu buriaturi di nisciuna sorthi. E dabboi è nadda me figliora. Erami cuntenti candu è nadda me figliora. M’ammentu la dì chi è nadda: vi l’abìa cussì, tra li brazzi. Edda era bedda, era piccinnedda, v’abìa la cara piccinnedda piccinnedda, parìa un pessigu, era bianca e rosa. Dabboi di un paggiu di dì z’hani mandaddi a casa, semmu turraddi da l’ipidari.
E un’althra voltha la suzziadai ha zoccaddu a la janna mea. Acchì da inchibi a poggu, un poggu di passòni, calchi parenti, calchi amiggu, calchi vizinu di casa, ha incuminzaddu a di’: “Candu ti lu fai lu secundu? Acchì da lu primmu v’è subiddu lu segundu”. E inchuminzavani a dimmi chi ca v’ha un solu figlioru è cumenti chi figliori no n’aggia. “Te lu devi fa, devi abè la cumpagnia, devi dargli un fraddeddu, un suredda”. Cumenti chi un fraddeddu o una suredda, cumenti disthinu v’hani sempri ghissu di isthà umpari. Ma no è di gussì. No è di gussì acchì avè un fraddeddu o una suredda a volthi è una furthuna, ma althri volthi so durori di cabbu.
E poi no, eu no lu vurìa un secondo figlioru. Puru mamma abìa avuddu solu a me ed eu isthazzìa bè, no v’erani problemi, mamma m’ha datu tuttu chissu chi mi pudìa da’, tuttu l’amori chi mi pudìa da’. Soggu criscidda bè, no v’abìa bisognu di un fraddeddu o di una suredda. Ma la genti no, no l’abasthava mai, la genti dumanda.
Parò no teni mai in considerazioni una cosa impurthanti, che a la dì d’oggi bisogna tinì invece in considerazioni. È che li dinà, v’avemmu bisognu di dinà, v’avemmu bisognu di tanti cosi pa andà a dananzi.
Eu, cumenti possu di’, soggu sempri nadda e criscidda cu la famiria mea, indì la genti ha avuddu ca dui figliori, ma semmu arribiddi puru, giaia mea, per esempio, n’abìa dezzi. E dunca pari chi si tu sei mamma di un figlioru no sei nisciunu. Duvìa avè figliori, fa figliori. M’ammentu che candu era minori isthazzìa a giossu giugghendi. V’erani li femmini chi ciaccuttavani inchibi, e li intindìa un bè di volthi fabiddendi magari di l’ipusina chi s’era cuiubadda da poggu, che ancora no abìa avuddu figliori. E incuminzavani a di’ chi li figliori sicuramenti no li pudìani avè, acchì in Sassari li femmini chi no pudìani avè figliori li ciamavani “legna secca”, acchì erani rami di taglià. Dabboi invece v’era calchunu più assignoricaddu, più eleganti, chi li femmini chi no pudìani avè figliori li ciamava “pianta chi no atticchi”, una pianta chi no riresci a fa nienti.
Parò eu pinsava: “Ma candu mai una femmina chi no ha figliori, no v’ha figliori solu acchì no li po’ avè?” Unu po no avè figliori acchì isciubareggia di no averli. Dunca eu intindìa chisthi cosi e pinsava a candu ghissa dì puru eu era divintadda mamma, chissà la genti cosa abìa dittu. Eu per esempiu trabagliu ottu ori a la dì in un uffiziu e no saristhia potuta andà a trabaglià si no abìa avuddu l’aggiuddu di babbu o di mamma. È impussibili, acchì grazie a Deu v’avemmu chisthu tipu d’aggiuddi, dabboi abà no aggiu più nimmancu a mamma, chi è mortha, ed è babbu meu chi pensa a tuttu. È eddu chi accudi lu manzanu chizzu chizzu a casa candu me figliora v’ha la frebba. È eddu chi pensa a ru custhà, è eddu chi isthazzi tutta la dì manna andendi e turrendi, zirchendi di cumparà li gosi chi seivini a me figliora. A me forsi no mi seivini dezzi viddi pa digli ’ “grazie”, acchì “grazie” è una paraura, eu voraristhia fa’ di più ma cosa possu fa’? Aggiu bisognu di andà a trabaglià, li cosi so’ ciambaddi, me figliora ha lu dirittu di andà a l’ischora, visthudda con digniddai, cumenti avemmu bisognu eu e me mariddu di andà visthuddi cun digniddai. Divimmu vivilla la vidda, no zirchà d’arrancà e di prubà a andà a dananzi.
Eu v’è una cosa un bè impurthanti chi zerchu di fa’ cumprindì a me figliora: è chi la mamma devi trabaglià, devi trabaglià pa la famiria, pa fazzi magari anche un viaggiu, ma devi trabaglià massimamenti pa edda, acchì mamma debi d’assè firizi.
Eu li cumprendu tutti li femmini chi no hani figliori. N’aggiu un bè di amigghi chi no hani figlioru. Calchuna no n’ha acchì no ha avuddu la passona giustha pa fassi una famiria. Althri no n’hani propriu acchì no ni voni, acchì volini viaggià, volini fa’ althri cosi. Acchì no volini un liazzuru cussi forthi de li figliori. E li cumprendu puru, acchì candu eu puru pinsava d’avè figliori, mi trimuravu. Eu puru no pinsava di avè figliori, e puru si soggu mamma no v’aggiu chisthu impidu cussi forthi cu me figliora. Eu debbu vivì, acchì la vidda è la mea, devu fa’ li cosi chi mi piazzini. Me figliora ha tuttu lu diruttu d’avè una mamma firizi, una mamma chi v’è cu lu cabbu, una mamma chi è pronta ad aggiuddalla candu n’ha bisognu.
Ed eu d’ugna santa manzanu candu mi ni pesu e m’abbaiddu a l’ippicciu, m’abbaiddu e soggu supeiva, soggu firizi di lu chi aggiu fattu cu li mani mei, cu lu cabbu meu, e cu li mani e lu cabbu di me mariddu. Ed eu vogliu chi s’intendiani di cussì tutti li femmini che a la dì d’oggi hani dizisu d’assè femmini e no mamme di figliori.
Dunca ipperu solu chi la suzziadai d’oggi ciambia la manera di vidè li femmini, acchì assè mamma oggi, in Sardhigna, no è una cosa fazziri. Vi so un bè di iviaddi, no v’è trabagliu, e le ripunsabiridai chi v’ha una mamma no so chissi chi v’ha unu babbu. Acchì dipendi puru da li contratti nazionali di lavoro chi v’abemmu, no si po’ istha a casa. Calchunu po’ istha a casa ed è pagaddu si lu figlioru è maladdu, althri poni isthà a casa solu un pagiu di dì. Dunca iperu chi ciambia la manera di vidè una femmina, di vidè una mamma, acchì noi zi miriscemmu assai di più.»
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