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Silvia, giovane italo-francese, riflette sul rapporto lavoro-vita privata che le donne devono riuscire a gestire oltre all’impegno di un eventuale figlio. Racconta della sua vita privata caratterizzata dalla scelta di non avere figli, del suo rapporto di coppia e delle relazioni con amici con figli. Silvia avverte un senso di colpa rispetto alla sua scelta di non avere figli: è la risposta al bisogno di compensare il giudizio di deresponsabilizzazione che subisce la donna che fa una scelta antinatalista.

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Ecco la trascrizione completa del video:

SILVIA: «Mi chiamo Silvia Rochet, sono nata a Parigi da una madre italiana e un padre francese; madre italiana di Milano. Niente, sto vivendo in Italia da un anno, penso che c’è una questione di andare a scavare un po’ le radici, anche materne, della mia identità. Ho una sorellina più piccola di sei anni.
Mi sono molto identificata con la prima scena [del film Lunàdigas] delle due sorelle, di quella che è cresciuta volendo essere un maschio, e penso che nella mia vita, per tanto tempo, mi sono sempre considerata come se mia sorella era la bambina femmina della famiglia e io mi consideravo molto di più come il maschiaccio, il maschietto o comunque la parte maschile di questo duo creato con mia sorella.
Poi i miei studi, che sono stati studi lunghi, intellettuali, mi hanno permesso di esprimermi su tanti altri fronti e di fare anche astrazione completamente della questione maschile e femminile per tutta una parte della mia vita. E direi anche che, non lo so, anche la scoperta della sessualità – verso i sedici-diciassette anni – è stata una cosa molto particolare per me perché ero per la prima volta nella mia vita assegnata, categorizzata dal fatto di essere donna. Penso che dopo dieci anni – ho ventinove anni oggi, arrivo… e venendo in Italia in più, riconfrontandomi ancora di più con la categoria di che cosa significa essere donna – sto arrivando un po’ alla fine di un processo di maturazione, di accettarmi come donna, che è già tutta una prima parte della questione che riguarda la mia vita.
Sulla questione di avere figli o non avere figli, per me è abbastanza strano perché è come una specie di illuminazione. Io so che a tredici anni, stavo nel mio letto da sola, in stanza mia che era isolata da una parte della casa, mi sono svegliata una notte e ho saputo che non avrei avuto figli, che non era… diciamo che non era il mio destino; è una cosa che mi è un po’ caduta addosso, ma che considero una verità di allora, una verità di oggi. Tantissime persone, tantissimi incontri, anche con uomini, durante la mia vita mi dicevano: “dici questo perché sei giovane, vedrai cambierai, vedrai che tra poco l’orologio biologico…”. Ancora oggi che, appunto, tutte le mie coetanee – siamo proprio nel momento, sui trent’anni ormai… cioè non è più a vent’anni, come cent’anni fa, o a venticinque anni, ormai a trenta, trentacinque anni – tutte fanno questo passo di scegliere di avere una famiglia, fondare una famiglia o anche solo di scegliere la vita di mamma piuttosto che una vita, diciamo, professionale o di impegno sociale, qualunque sia… Per me rimane sempre molto chiaro che non è che non mi va, è che – come dice anche una delle protagoniste del film- è un bellissimo destino quello di tante donne, ma non riguarda il mio e ne sono convinta proprio fino alle ossa; è una cosa molto profonda in me.
Motivazioni familiari non ne ho perché comunque sono cresciuta in una famiglia felice con un modello genitoriale abbastanza solido, fino a quando, appunto, c’è stata la separazione dei miei, ma che è una cosa molto classica oggi: un divorzio oggi non è più uno scandalo; il 50% delle famiglie non sono più famiglie diciamo tradizionali.
Motivazioni che si sentivano anche nel film, che si possono anche sentire oggi da parte delle nuove generazioni, di non voler far nascere un figlio in questo mondo tremendo eccetera non le considero perché ho l’impressione che sia egoista fare un figlio al giorno d’oggi quanto non farne uno, cioè è tale e quale. La gente fa figli come vuole un cellulare, come Kim Kardashian che non vuole deformare il suo corpo e dunque non so, fa una GPA, cioè chiede a una madre surrogata di avere figli e lei non ne ha. Nello stesso modo secondo me la gente che fa figli non lo fa per motivazioni anche generose di trasmissione, ma per fare fondamentalmente per sé, dunque non è neanche questa cosa che tanti giovani oggi dicono: “non mi riconosco dentro”, è più veramente una questione di destino, di esistenza e di a che cosa è portata la tua vita, a che cosa deve condurre la tua vita. Tante persone sono nate per compiere una vita familiare, trasmettere cose alla loro discendenza, eccetera. Io non so, io sento che forse in me voglio generare cose. Voglio generare reti, progetti, opere. Ho tanti desideri: partorire me stessa, partorire un’opera, penso che già il percorso che mi aspetta nella vita sarà già molto difficile. Sarà una lotta, come lo dicono anche tante donne, sarà una lotta pure quella: tenere fino in fondo e non cedere appunto alle ingiunzioni sociali che ti conducono, molto più semplicemente, a essere madre. É una scelta, una scelta, una determinazione negativa. Dunque se non scelgo di essere madre sceglierò tantissime altre cose.
La reazione più geniale è quella di mia nonna. Mia nonna effettivamente è una donna di un altro secolo: “se non hai figli che campi a fare?”, veramente… è lecito. Però io capisco che una donna nata nel 1929 pensa così e non può capire come nello spazio di due generazioni tutto sia cambiato.
Mia madre e mio padre stanno nell’età in cui vorrebbero, ovviamente, nipoti; si sentono frustrati dall’ingiunzione di non chiederli e l’ingiunzione comunque di dire: “ma comunque stiamo invecchiando, che faremo, che farai?”, eccetera.
Dallo sguardo sociale più in particolare… perché penso che una donna oggi deve essere una super donna: deve essere avere una carriera brillante, deve esprimersi sul lato femminile, deve esprimersi anche sul lato della forza di autoaffermazione. Non so, sento che non sono ancora arrivata nell’età in cui queste cose mi verranno rinfacciate in modo brutale anche se comunque io sento che già nello spazio delle relazioni amorose con eterosessuali, con uomini, è già stato problematico. Ho già avuto tantissimi incontri con uomini che rapidamente capiscono che non sono la donna con la quale si possono aspettare di avere una famiglia, di sposarsi, di avere figli e dopo poco tempo la cosa si risolve abbastanza trivialmente. Mi ricordo questo ragazzo di una trentina d’anni – proprio penso la crisi biologica dei trent’anni, ma dal lato degli uomini – che l’orologio biologico gli diceva che era il momento di avere una famiglia. Io ero più giovane e lui mi disse: “no Silvia, io capisco che tu pensi così, sei perfetta così, ma non siamo compatibili perché, appunto, io voglio una moglie con cui avere figli”; è finita la storia così. Io queste cose non le capisco perché io in quel momento gli ho detto: “ma che ne sai? che ne sai che appunto la vita può far cambiare idea a me? o può far cambiare idea piuttosto a te?” (perché io penso che fondamentalmente non cambierò). Però penso sempre che si possa trovare un compromesso con un compagno che non implica appunto la rinuncia in quello che io credo, che non è la mia via.
Questa è una situazione un po’ particolare perché da un anno sto in coppia con un con un uomo che ha cinquantaquattro anni e che ha una figlia di un anno e mezzo. Mi si dice: “com’è possibile questa cosa”?
Quest’uomo ha fatto una figlia a cinquantadue anni con una donna che poi se n’è andata, perché come tante donne di una certa età oggi vogliono figli sì o sì; dunque trovano non so… cioè non voglio giudicare questa donna, però quest’uomo con cui sto si è ritrovato in questa situazione che a lui… a me ha dato anche una possibilità di vita, che io trovavo bellissima. Io mi sono detta: “ah, quest’uomo è l’incarnazione del fatto che uno può – si è sposato prima e poi si è divorziato – avere una seconda vita di viaggi, di ballo e di tantissime avventure esistenziali e a cinquant’anni fare un figlio”; mi sono detta: “questa è la differenza fondamentale tra uomini e donne; ossia lui può avere una vita così, io non potrò mai avere una vita così”. O sennò potrò adottare, ovviamente a cinquant’anni eccetera, però cioè no, come se le mie scelte fossero appunto necessariamente molto precedenti a questo percorso della vita di uno che non si sente di fare un figlio fino a una certa età e poi gli incombe l’ingiunzione sociale di essere completo, essere un uomo. E lui è felicissimo di essere padre e di essere padre malgrado queste condizioni.
E non lo so, mi son detta che siamo una coppia strana, ma in questo momento della mia vita mi sembra molto… cioè vedo crescere una bambina non mia con un padre che deve assumere il doppio delle cariche genitoriali appresso a questa bambina nei momenti in cui ce l’ha e io continuo il mio percorso chiedendomi… la bellezza di questa bambina è come vedere le bambine dei miei amici: che insomma, sarò sempre la zia Silvia, cioè è molto gratificante… però è la perplessità di… io non sarò madre di un essere così bello come può essere Clara. E’ èstraniante, ma più passa il tempo, più ne sono convinta, cioè proprio non me lo spiego.
Ho l’impressione che l’ingiunzione che pesa sulle donne in Francia è molto di più al giorno d’oggi quella professionale. Per questo le donne hanno sempre bambini più tardi – diciamo c’è anche un sistema istituzionale che permette, cioè l’asilo nido… come si vede la differenza anche tra la Francia e la Germania: la Francia rimane un paese che sostiene molto la maternità e dunque anche la carriera professionale delle donne che scelgono di essere madri. Però comunque ho l’impressione che le donne mettono spesso più al secondo piano la famiglia e l’espressione della loro maternità rispetto al lavoro che rimane sempre al primo piano. Io ho un’amica psichiatra che è diventata madre sei mesi fa e sta già al lavoro: con la baby-sitter che si occupa del bambino di sei mesi, però… con una propensione anche, appunto, a considerare che l’utilità sociale che ha è di essere psichiatra, non è di essere madre e che la parte della maternità è quasi la sua isola deserta, il suo posto segreto dove può respirare, essere un po’ meno, diciamo, al confronto con le realtà difficili che affronta. Però è più ipocrita perché comunque quello che a me la società italiana sta rivelando è una realtà che io magari in Francia potevo fare finta di non vedere, ma che è presente in modo molto subdolo su tutte le donne.
E appunto c’è un giudizio sociale, c’è un giudizio morale fortissimo e ci sono questi momenti dove ti ritrovi con gli amici di una vita che stanno in coppia da una vita, che stanno lì, che l’ultima tappa è solo avere figli e comprarsi la casa e tu sei sempre quella strana perché hai storie con uomini diversi, viaggi ovunque, non è ben chiara la professione, il divenire professionale. Dunque, secondo me ci sono differenze, però differenze di sfumature, non tanto di natura, cioè di dove lo sguardo sociale verrà a bastonarti di più. Però è vero che mi sento molto diversa dalle donne italiane che incontro perché spesso è anche solo la questione della sessualità o della relazione immediatamente sei categorizzata, devi definire – la definizione della donna è poi praticamente la definizione dell’uomo a cui appartiene o con chi sta o con chi non sta, se è single. La tristezza di tantissime ragazze che vedo di trent’anni perché non stanno in relazione, che si attaccano a delle relazioni tossiche pur di stare in coppia, pur di avere una proiezione sul fatto di corrispondere alla norma sociale… questo è abbastanza forte come constatazione. Però nello stesso tempo mi rendo conto che mi confronto con me stessa: che cosa voglio, chi voglio essere; con chi, con che tipo di persona desidero stare, che accetti, diciamo, nella complessità della mia situazione, quello che sono.
In Francia, se ci penso, penso immediatamente al termine spregiativo che viene associato agli uomini, ossia “vieux garçon”: vecchio ragazzo appunto; per le donne il fatto che non esiste o il fatto che non ci penso, che non mi viene in mente… come se non esistesse, rivela bene l’ambiguità in rapporto alle donne in Francia, ossia non esiste una donna cèlibataire, che è una donna celibe, però non c’è manco il disprezzo italiano, cioè non viene proprio considerato… questa cosa qua è appunto più ipocrita.
“Le donne purtroppo spesso stanno ancora in un’attitudine dove si vittimizzano per non avere abbastanza diritti quando di fatto ci si rende conto che lì c’è una categoria, c’è un punto nero delle donne che non hanno figli che non possono neanche, diciamo, rivendicare diritti sociali supplementari o compensazioni di alcun tipo per ottenere a livello lavorativo anche solo il tempo della maternità, della gestazione, quello che significa in termini di sospensione del lavoro. Io mi chiedo: c’è realmente una comunità femminista di donne che difende la causa delle donne? Penso che sono dibattiti che esistevano tantissimo negli Anni Settanta, però con categorie molto ben definite – appunto delle donne madri, delle donne lesbiche che si affrontavano su determinati argomenti come questo. Oggi si parla di sororità, di sorellanza ma io non vedo come nel campo lavorativo le donne affrontano assieme le scelte individuali che le separano concretamente nella vita perché oggi una donna madre con figli ha molto di più, cioè può avere delle richieste molto più simili a quelle di un genitore uomo che lavora con lei rispetto a quelle di una donna senza figli che magari vuole tempo per sé sui fine settimana, vorrebbe un giorno di qua e di là per poter vivere altre cose nella sua vita, invece no, cioè è come se non ha una ragione legittima di non essere sul posto di lavoro, non può andarsene. Ma sto pensando anche a cosa vuol dire… in quanto donna che non ha figli essere condannata in un certo modo a compensare con l’attività professionale o con il volontariato, con il fatto di investirsi in progetti… comunque tu hai sempre tempo. Io mi rendo conto anche solo di quello… lievemente quando sto a casa di amici con figli: io devo fare il doppio, cioè sento il senso di colpa morale che mi dice che devo aiutare per fare il pranzo. Paradossalmente si ritrovano tutte le norme di genere associate al femminile – cioè di essere la persona che cura, la persona che si occupa del cibo, che sta attenta a come sta il marito che ha litigato con la moglie, di offrire supporto – questa situazione di assistenza sociale di psicologa di tutti, ma nello stesso tempo fai la cena, ma nello stesso tempo lavi i piatti perché lei non può, perché sta con la tetta o il biberon da dare al piccolo eccetera. Interessante perché, appunto, non è che una persona senza figli che viene lì in sostegno non fa niente, fa in quel momento lì preciso tanto di più. Ovviamente gli si dirà che tutti gli altri giorni in cui non c’è non fa niente; è la loro scelta, cioè la scelta della coppia che ha dei figli di sostenere tutte le azioni che vengono requisite per sovvenire ai bisogni dei figli. Invece tu arrivi come ospite e paradossalmente non sei un ospite, sei qualcuno che deve dare molto di più, perché in più tu stai in vacanza tutto il tempo, cioè tu poi stai nella tua vita dove si considera che non hai responsabilità, obblighi eccetera.
L’unico punto che… trovo una questione da risolvere nella vita di ognuno, secondo me è la questione della responsabilità per un altro. Ho letto recentemente un libro di un’antropologa francese che si chiama Pascale Bonnemère, che lavora sui riti iniziatici della mascolinità in Nuova Guinea, un soggetto che a priori non c’entra niente col nostro; il suo libro si chiama “Agire per un altro” e dimostra che un uomo in Nuova Guinea non è uomo fino al momento in cui ha imparato – tramite i vari riti di passaggio che finiscono con il momento in cui diventa padre del primo figlio, del primogenito – a agire per un altro e anche a prendersi cura, appunto, un po’ della comunità; cosa che non viene insegnata alle donne perché si considera che ce l’hanno naturalmente o culturalmente, comunque dentro. Questo mi sembrava interessantissimo per riflettere appunto sulle tematiche sulle quali lavoro e anche sul fatto che secondo me la responsabilità che si insegna al giorno d’oggi non è più quella responsabilità sociale dove ci si prende cura di una comunità, è una responsabilità molto individualista, molto legata al fatto di padroneggiarsi, mostrare il proprio io, di essere padrone delle proprie emozioni, padrone delle proprie scelte di vita autonome. E io invece penso tutto il contrario, il che mi fa pensare al libro di Michela Murgia “Accabbadora”. La questione è per chi si vuole prendere responsabilità: come ci si occupa di altri che possono essere figli, che possono essere figli non suoi, che possono essere persone della stessa età, che possono essere persone anziane. Penso che c’è molto da scoprire per ognuno su che responsabilità vogliamo prendere per gli altri, non necessariamente per una estensione di se stessi o una cosa che, perché legata a me col sangue, dovrebbe essere naturalmente la cosa, la persona di cui mi prendo cura. Io mi posso prendere cura di tantissime altre persone. Solo che appunto per fare quello, secondo me vediamo la motivazione… per fare quello penso che necessariamente la mia vita non è di avere figli.»

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