Maternità di Sheila Heti. Una recensione di Claudia Mazzilli
Sheila Heti racconta la sua lotta tra il dovere e il rifiuto di procreare nel romanzo Maternità (Sellerio 2019)
Nel romanzo Maternità Sheila Heti, nata a Toronto nel 1976 da ebrei di Ungheria, indaga
senza tabù tutte le possibili cause che la trattengono dal mettere al mondo un figlio.
Questa scrittura diaristica, mentre si fa esplorazione quotidiana di sé, è anche una
bizzarra maieutica che tenta di partorire, se non un figlio, la ragione più autentica e
nascosta della non maternità, in un dialogo oracolare, sentimentale e spassoso col caso:
Sheila infatti interroga tre monete, ispirandosi alla tecnica dell’I Ching, un sistema di
divinazione nato in Cina più di tremila anni fa. La sorte le risponde nel suo codice
binario di sì e no, dando quasi un ritmo musicale all’ostinazione della protagonista di
giungere a qualche certezza.
L’arte è una cosa viva? Mentre uno la fa, intendo. Viva come qualunque altro essere che definiamo
vivente?
sì
È altrettanto viva quando è stampata in un libro o appesa al muro?
sì
Allora a una donna che fa libri l’universo può anche perdonare di non aver fatto gli esseri viventi che
chiamiamo bambini?
sì (pp. 32-33)
Sheila, prossima ai quarant’anni, cerca di capire se vuole o non vuole figli interpellando,
oltre che le monete, le sue amiche, la maggior parte delle quali le consiglia di fare un
figlio.
Che fare di queste bellissime e pericolose sirene, come Mairon, il cui canto, benché irresistibilmente dolce,
è quanto meno altrettanto triste? L’espressione canto delle sirene indica un richiamo a cui è difficile
opporre resistenza ma che, se lo si ascolta, condurrà l’ascoltatore a una bruttissima fine (…) E allora
resisti come i monaci che resistono alla tentazione di giacere con le donne, a prescindere dal piacere che
potrebbero trarne. Canta il tuo canto per te stessa più meravigliosamente di quanto le madri tentatrici
cantino il loro (pp. 42-43)
…fra le donne della nostra età la prima cosa che una vuole sapere di un’altra è se ha figli e, nel caso
non li abbia, se ha intenzione di farli. È come una guerra civile: tu da che parte stai?” (p. 98)
Un’altra cara amica, una volta incinta, sembra allontanare e persino espellere Sheila dal
suo mondo interiore “in modo che suo figlio avesse più spazio per crescere” (p. 187).
A furia di discussioni monotematiche sulla maternità, Sheila mette a dura prova il suo
rapporto con Miles, litigando per un nonnulla con il compagno (lui ha già avuto una
figlia da una precedente relazione e preferirebbe non avere altri figli, “a meno che tu non lo
desideri veramente”). Miles infatti le dà bonari, saggi eppure esilaranti consigli, avendo
capito che Sheila non ha alcuna vocazione materna:
Per finire, si è messo a parlare di come in ogni forma di civiltà si sia sempre tenuto un posto per le
persone che non volevano figli: nel clero, preti e suore, eruditi e artisti. (p. 44)
Svegliandomi ho detto a Miles: Magari sarebbe bello avere un figlio. Lui ha risposto: Sicuramente è
molto bello anche farsi lobotomizzare. (…) Ha detto: Due persone che sarebbero in grado di aiutare un
sacco di gente, ti pare che debbano investire le proprie energie in una mezza persona ciascuno? (p. 131)Mentre tornavamo a casa in macchina Miles ha detto: Certo, tirare su dei figli è una grandissima
fatica, ma non capisco perché dovrebbe essere considerato tanto nobile fare una fatica che ti sei imposto da
solo per puro egoismo. È come se uno scava una grossa buca al centro di un incrocio trafficato e poi si
mette a ricoprirla, e proclama: Coprire questa buca è la cosa più importante che potrei fare al mondo in
questo momento. (p. 204)
Sheila non manca di interrogare cartomanti e veggenti. E ancora: Sheila interpreta i sogni
(sogni di un figlio mai nato…, di una Carontessa femmina che la guida nella geografia
infera di una metropolitana…, sogni di mammelle flaccide che assomigliano ciascuna al
pene di un uomo, in un’oscillazione tra il dovere della fecondità femminile e l’aspirazione
ad una più libera creatività maschile, che possa esprimersi anche nell’arte e nella
scrittura…). E poi: esplora i suoi malumori e i suoi dubbi ondivaghi (averli o non averli,
questi figli?) secondo le fasi ormonali del ciclo, in capitoli dai titoli ricorsivi (Sindrome
premestruale, Sanguinare, Follicolare, Ovulazione). Addirittura Sheila fa tutti i controlli
medici necessari per congelare gli ovuli, nell’eventualità che tra qualche anno possa
cambiare idea, e quando nella clinica le dicono che i suoi ovuli sono perfetti “come fichi
freschi” scoppia a piangere, perché i figli non li vuole e sospetta che non li vorrà
nemmeno tra qualche anno e si arrabbia con la natura che non le dà alibi di
malformazioni o sterilità. Ma non finisce qui: tutto va esplorato alla ricerca di una causa;
ogni compagine dell’esistenza va scandagliata nel tentativo di trovare un’eziologia esatta
della propria scarsa o inesistente vocazione all’essere madre. La storia familiare: la nonna
che non poté completare gli studi e si accontentò di fare la venditrice ambulante di
maglioni. La madre che invece riscattò il destino della nonna diventando medico, ma
che, per realizzarsi nello studio e nella professione, trascurò Sheila, al punto da
convincerla che una donna o è madre o è qualsiasi altra cosa (artista, professionista…) e
che le due cose insieme non sono conciliabili. Ma la ricerca di Sheila non si ferma alla
storia familiare. Arriva a ripercorrere la Storia tragica del secolo breve: gli ebrei
DEVONO fare figli, perché altrimenti la danno vinta ai nazisti dei campi di
concentramento che li volevano estinti. E poi quell’archetipo ricorrente: Giacobbe e la
sua lotta con il demone-angelo, anzi con Dio stesso, e Giacobbe che ottiene la
benedizione del Dio con cui ha lottato, che ha visto faccia a faccia, eppure ha avuto salva
la vita. Un archetipo che ha il gigantismo epico dei personaggi biblici e che tuttavia
subisce una lenta e intimistica risemantizzazione che si svelerà solo nel finale.
Sheila chiama in causa anche la geopolitica:
L’egoismo del fare figli è come l’egoismo del colonizzare un paese: entrambi hanno dentro il desiderio di
lasciare un segno di sé nel mondo, di trasformarlo in base ai propri valori, e a propria immagine. (pp.
93-94)
Non mancano le spiegazioni ecologiche: non ne vale la pena far figli se gli equilibri del
pianeta sono compromessi al punto che l’umanità rischia l’estinzione. Sheila scomoda
pure le teorie evoluzionistiche:
I miei tratti di disonestà – di cui Miles ha sottolineato l’esistenza, dicendo che li hanno tutte le donne –
fanno parte dell’imperativo biologico? Per mettere al mondo dei figli e crescerli, la moralità deve forse
passare in secondo piano? L’unica cosa che conta è la vita del bambino, e tutti gli altri valori sono
relativi? È così che si è evoluto il mio cervello nel corso dei millenni? Se adesso scelgo – decido, senza
perdere altro tempo – di non avere figli, posso iniziare un percorso di riabilitazione mentale che mi renda
incapace di mentire e imbrogliare… (pp. 119-120)
O forse il problema è la sua vocazione di scrittrice, che cerca l’eternità nell’antico, nel
dialogo con padri e madri non biologici (gli autori e le autrici del passato) più che nella
posterità di un figlio vero e proprio.
Tre anni dura il diario; più del gioco delle monete, più dei colloqui (o “comizi d’amore”,
come li avrebbe chiamati Pasolini) con le amiche o il compagno Miles, con la madre e le
chiromanti o veggenti, la scrittura pretendeva di essere il mezzo più efficace, da cui
fiduciosamente ricavare una risposta: ma la risposta arriverà naturale come il tempo, che
le dà la percezione sempre più pacificata della fine della sua fertilità, riconciliandola con il
compagno, con sua madre, con le madri (amiche, colleghe, conoscenti occasionali),
insegnandole che non c’è un peso specifico che rende diverse la maternità e la non
maternità sui due piatti di una bilancia. Il tempo la riconcilia con la sua indole libera,
poco propensa a scelte irreversibili (e un figlio lo è, non si torna indietro): un’indole
aperta e curiosa ma anche incline a chiudere esperienze che ad un certo punto possono
apparirle sature e inappaganti.
Sarebbe più facile avere un bambino che fare quello che voglio davvero. E in fondo, dal momento che
faccio spesso il contrario di quello che voglio, farlo una volta in più che sarà mai? Perché non passare
direttamente dalla parte della falsità? Potrei benissimo farne, di bambini. Eppure no, quella è la linea
che non voglio superare. (p. 197)Ma il pensiero di avere dei figli mi ha sempre frastornata, o resa euforica come aspirare l’elio dei
palloncini, ed è stato così per tutte le cose in cui mi sono buttata a capofitto per poi, altrettanto
improvvisamente, uscirne. (p. 273).
Può sembrare una conclusione assolutamente banale, ma ogni pagina di Sheila Heti è
speciale, perché senza filtri riproduce un tormento che tante donne (forse ogni donna)
provano di fronte all’enigma del volere/non volere/dovere essere madri, con una
scrittura ora commovente ora illuminante, ora comicamente piagnucolosa, restituendoci
in un “romanzo vero” riflessioni che proprio lì dove appaiono ovvie risultano sfuggenti,
e lì dove sfiorano il contorsionismo ragionativo offrono all’improvviso intuizioni schiette
e lineari.