Alberta Hunter, morte e rinascita di una Signora del Blues
La straordinaria storia di Alberta Hunter, che conquistò per due volte il mondo della musica: negli anni ‘20, quando divenne una diva del blues, e poi all’età di 80 anni, quando salì di nuovo sul palco, e fece rivivere sogni e demoni di un’epoca intera.
Anni ’20. Si apre la Golden Age, l’epoca d’oro che dall’ America all’Europa travolge l’Occidente in una ventata di rinnovamento che coinvolge tutti gli aspetti della società.
Sono gli anni dell’esplosione delle arti figurative, del cinema e della musica, ma sono anche gli anni dei primi vagiti del neonato femminismo, le prime scosse a un sistema arcaico e patriarcale, che finalmente comincia a vacillare davanti all’avanzare delle donne nel mondo.
Si accorciano i capelli e si accorciano le gonne, e insieme si accorcia la distanza che separa le donne dal mondo dei maschi. E se ancora sono lontane le stanze del potere, si spalancano per loro le porte dell’arte.
Se le dive del cinema pagano la loro libertà con la pesantissima scure del giudizio morale, nel mondo della musica – quello sotterraneo, clandestino e violento dei “bassifondi” – nascono dive forgiate dal dolore e dalle brutture della vita, che si pongono al di sopra di qualsiasi codice morale o etico. Non angeli del focolare, ma neanche dive patinate in gabbie dorate, le nuove dee del blues, e ora anche del jazz, cominciano ad incantare il mondo con la loro sensualità a tratti dolente, a tratti sfrontata, esibita, corrosiva.
In anni di segregazione razziale istituzionalizzata, sono gli afroamericani a decidere le sorti musicali di tutto il mondo: la loro musica, frutto del dolore e dell’oppressione secolare di un popolo intero, inventa nuovi codici espressivi capaci non solo di raccontare un’epoca, ma anche di plasmarla e di darle una voce.
È in questo mondo in fermento che brilla la stella di Alberta Hunter, destinata a una delle storie più straordinarie del blues.
Performer irriverente, ma riservata fino alla reticenza, tutto ciò che sappiamo della sua vita privata è il risultato dei suoi racconti volutamente “modificati”, delle sue poche interviste rilasciate e della miriade di resoconti dei suoi amici.
Di certo c’è che Alberta nacque nella periferia di Memphis il 1° aprile del 1895. Suo padre, Charles E. Hunter, che faceva il facchino di un vagone letto su una ferrovia, aveva abbandonato la famiglia subito dopo la nascita di Alberta. Sua madre, Laura Peterson Hunter, lavorava come domestica in un bordello per mantenere Alberta e sua sorella, La Tosca, di due anni più grande. La signora Hunter, che si vergognava del suo lavoro e per l’abbandono del marito, disse alle figlie che il loro papà era morto e non parlò mai del suo lavoro, dei suoi sentimenti, del sesso o delle relazioni con gli uomini. Teneva molto alla pulizia della casa, dei vestiti e della persona, valori che Alberta ereditò e a cui tenne fede per tutta la vita, ma non si occupò della formazione sentimentale della piccola, che in seguito subì abusi sessuali sia dal fidanzato della loro padrona di casa che dal preside della sua scuola.
La signora Hunter si risposò nel 1906 ed ebbe una bambina con il nuovo marito. Nel 1909 abbandonò sul serio Alberta per trasferirsi a Denver con le altre figlie, e la lasciò con la nonna con cui aveva passato anche tanta parte dell’infanzia.
Alberta, che ormai era la figlia di mezzo, sparì dai radar della sua famiglia: lei che era la più scura di casa, la meno bella secondo gli standard di sua madre, sembrava destinata a finire come tantissime altre bambine in quel periodo, lasciate a se stesse e dimenticate dagli affetti e dal mondo intero.
Ma non andò così.
Da questo momento in poi verità e leggenda si mescolano nella vita di Alberta: lei sostenne per tutta la sua vita, fino all’ultimo, di essere scappata di casa a 12 anni, grazie a una maestra che aveva un biglietto del treno in più con destinazione Chicago. Falsificando il permesso di sua madre, la piccola era partita con l’idea di diventare una cantante e, dopo aver preso un tram a caso in città, aveva raggiunto proprio la casa di un’amica di sua madre, che le aveva dato un primo lavoro come domestica, in cambio di un piccolo stipendio, vitto e alloggio.
Frank C. Taylor, biografo ufficiale di Alberta Hunter, sostiene una tesi diversa e più verosimile: Alberta si era trasferita a Chicago quando aveva già 16 anni, e puntualmente mandava a sua madre parte dei soldi guadagnati.
Non parlò mai della sua infanzia in termini negativi, nonostante tutti gli abusi subiti, ma di sicuro la fuga di casa da bambina, aggiungeva al suo fascino una nota di mistero e sofferenza che l’avrebbe resa più “credibile” nel mondo del blues perché, si sa, per scrivere e cantare il blues, è necessario viverlo.
L’inizio della sua carriera non fu semplice, in un club nel Southside di Chicago di proprietà di Francisco Cirofici, noto come Dago Frank, frequentato da prostitute e magnaccia, gangster e reietti di ogni tipo. La prima volta che provò ad entrare, canticchiando le sue due uniche canzoni conosciute, venne sbattuta fuori. La seconda volta, abbigliata per sembrare più grande, riuscì a conquistarsi la simpatia del pianista e di tutte le prostitute che lavoravano nel locale.
Saranno queste donne il primo vero punto di riferimento di Alberta, loro a convincere i clienti ad ascoltarla e a lasciarle mance generose. Dirà di loro, in seguito:
La gente non si rende conto, le prostitute sono brave persone. Le prostitute sono le persone migliori. La gente non sa cosa renda magnaccia e prostitute quello che sono, ma sono le circostanze. Le circostanze portano a questo stile di vita. Le prostitute mi hanno insegnato ad essere una brava ragazza… mi hanno fatto essere una brava ragazza.
Nel locale Alberta si mette di impegno per formarsi: impara una nuova canzone al giorno, prende lezioni di canto e composizione, affina il suo stile, impara i trucchi per attrarre il favore degli uomini e nello stesso tempo impara a difendersi da loro: la sua infanzia segnata dagli abusi la fa diffidare degli uomini in generale, e in particolare di quelli manipolatori e violenti. Non accetta il controllo di nessuno e ha imparato presto a contare solo su se stessa. Quando una sera si compie un omicidio nel buio del locale, nella confusione generale Alberta viene colta, al riaccendersi delle luci, con le mani nel barattolo delle mance.
Il locale chiude e per Alberta arriva la svolta: inizia a cantare in alcuni dei nightclub della zona – l’Hugh Hoskins e il Panama Cafe – entrambi frequentati dai bianchi e ben diversi da un bordello sudicio di periferia. Il suo stile dolce e sfrontato insieme le fa valere il titolo di Sweetheart di Chicago; la sua carriera, che ormai spazia dal blues al jazz passando per il vaudeville, decolla.
Finalmente guadagna abbastanza soldi per far trasferire sua madre a Chicago: nonostante il trattamento ricevuto da bambina, si occuperà di lei con estrema devozione fino alla fine dei suoi giorni. Raggiunta una certa popolarità, Alberta comincia ad esibirsi al Dreamland Cafe, al fianco della band Creole Jazz di King Oliver, e con Louis Armstrong; i grandi del jazz Al Jolson e Sophie Tucker sono tra i suoi fan più appassionati. In questo periodo Alberta inizia a comporre e incidere l’album Downhearted Blues, che vende un milione di copie nel 1921. Pochi anni dopo, Bessie Smith pubblicherà la sua versione dell’album, ottenendo un successo planetario. Come spesso accade ai compositori neri dell’epoca, Alberta riceve pochissimi soldi dal successo che, tuttavia, le permette di guadagnare il meritato riconoscimento a New York, e contribuisce ad affermare la sua carriera come cantante di cabaret. Oltre a cantare e scrivere musica, la Sweetheart di Chicago sa anche ballare, e pare che sia stata lei a insegnare il Charleston ai bianchi del West Virginia.
Intanto a Cincinnati, nel 1919, in un locale in cui si esibiva, Alberta aveva incontrato Willard Townsend, un bel giovane cameriere che, poco dopo, aveva sposato, pare, anche per fermare le voci sulla sua omosessualità. L’unione trai due, disastrosa sin dall’inizio e a quanto pare mai consumata, durò solo pochi mesi, fino a quando Alberta buttò l’uomo fuori di casa per tornare alla sua carriera, divorziando da lui quattro anni dopo. Poco dopo conoscerà l’amore della sua vita – per tutta la vita nascosto – Lottie Tyler, la nipote di Bert Williams, uno dei più famosi e più pagati interpreti di colore del vaudeville.
Dopo l’ennesimo omicidio in un locale, Alberta prende la decisione, estremamente sofferta, di trasferirsi a New York che però, secondo le sue parole, in quel periodo ancora “non cantava”.
Sente il bisogno di lasciare un mondo che non le appartiene: il successo che porta agli eccessi, la droga, l’alcol, la violenza, le storie sbagliate. Lei, che nel frattempo ha reso celebre la Paramount con le sue registrazioni, che viaggia per il paese acclamata da tutti, che ha influenzato una generazione intera di musicisti, non ha mai assunto un agente a gestire la sua immagine, i suoi impegni e i suoi guadagni, così non riesce a raggiungere il successo discografico: il suo talento è nella performance live, lì è la sua capacità di giocare con i sentimenti da infondere alle parole, solo lì può sondare gli umori del pubblico, raccoglierli, e farli diventare parte integrante della sua esibizione. La sua abilità di usare i topoi blues della donna distrutta da uomini meschini e buoni a nulla, risiede anche nell’ironia con cui Alberta li esibisce: è lei la burattinaia che muove i suoi fili, e così sarà per sempre. Indipendente, indomita e piena di talento, New York non le basta più e comincia a rivolgere lo sguardo verso l’Europa, patria di tanti afroamericani fuggiti dalle leggi razziali, convinti di trovare altrove terreno più fertile e accogliente.
Per Alberta va proprio così: l’Europa la conquista e lei conquista l’Europa.
Parte nel 1927 per esibirsi in Inghilterra e nel continente prendendo parte a Showboat con Paul Robeson, e a varie altre riviste musicali itineranti. Raggiunge un grande successo a Parigi e, accompagnata dalla sua amata, continua a esibirsi in Europa per tutti gli anni ‘30, con incursioni persino in Medio Oriente e in Russia.
Fuori dall’America viene trattata come una vera artista, ottiene il rispetto e l’acclamazione che merita, ma la sua riservatezza la esclude ancora una volta dal raggiungimento della vera fama.
È un periodo comunque felice per lei, che termina bruscamente con l’inizio della Seconda guerra mondiale. Alberta viene richiamata in patria, ma decide di partire con l’OSU (servizio di assistenza alle truppe) per esibirsi nelle zone di guerra a sostegno dell’esercito, tornando a girare per l’Europa, ora dilaniata dall’orrore.
Quando ritorna definitivamente negli Stati Uniti sono ormai gli anni ’50: il mondo appena uscito dalla guerra vuole andare oltre il dolore, e anche oltre il blues. Alberta, che aveva sempre saputo interpretare l’animo del pubblico, si sente improvvisamente smarrita e fuori posto.
La morte di sua madre, nel 1954, mette fine definitivamente alla sua carriera: il dolore è troppo, non canterà più.
O almeno così sembrerebbe.
L’ormai ex diva dei cabaret di tutto il mondo, decide di dare una svolta alla sua vita, certamente sull’onda di ciò che aveva visto durante gli anni di guerra: nel 1957, all’età di 62 anni falsifica il suo diploma, sottrae dodici anni di età dai suoi documenti e prende con successo la licenza di infermiera.
Per i successivi vent’ anni lavora in un ospedale di New York, dove è sempre la prima ad arrivare, senza mancare un solo giorno, e mai, mai, mai svelerà la sua identità ai colleghi e ai pazienti, mai canterà per loro.
In questi vent’ anni farà due sole eccezioni, per due registrazioni che avverranno in assoluta sordina.
Quando l’ospedale pensa che Alberta abbia compiuto 70 anni, la manda in pensione, senza sapere che in realtà lei di anni ne ha già 82!
Lei è disperata: quel lavoro la faceva sentire viva, ora non ha più niente.
Ancora una volta, però, la vita la sorprende e lei sorprenderà, di nuovo, il mondo della musica.
L’impresario Jazz Bourgeoise Barney trova il suo numero sull’elenco telefonico e la convince a salire di nuovo sul palco, in occasione di una festa in onore di un’amica comune. Dopo qualche timida rimostranza, Alberta si lascia convincere e all’età di 87 anni torna in scena.
La sua voce, resa più roca e graffiante dal tempo, è addirittura migliorata. Il suo canto è perfetto, la sua esibizione riporta tutti indietro nel tempo, fino ai favolosi anni ’20, e fa rivivere un’epoca intera.
È solo un test in realtà: c’è qualcuno che vuole vedere se Alberta è ancora in grado di esibirsi e… può, può eccome!
La mattina successiva riceve una telefonata dall’amico di Barney, Josephson, proprietario del nightclub Cookery di Manhattan, un locale ormai sull’orlo del fallimento.
Josephson la assume per un impegno a breve termine. Lo spettacolo, invece, durerà più di un anno, e segnerà il ritorno al successo del locale e di Alberta, che raccoglierà file chilometriche di ragazzi e ragazze desiderosi di ascoltare solo lei, di vederla arrivare con i suoi scialli e i suoi orecchini pendenti, e di ascoltarla cantare con ancora più sfrontatezza, più ironia e più cattiveria, i suoi successi più piccanti, ricchi di doppi sensi e ambiguità.
Il successo non si arresta e neanche l’animo indomito di Alberta: afroamericana, lesbica, artista, per tutta la sua vita non ha fatto altro che andare avanti riservata e a testa alta, contando solo sui suoi mezzi, l’intelligenza e il talento.
Ma è il corpo ora a tradirla: in seguito a delle cadute si rompe varie ossa, mentre un altro male avanza silenzioso dentro di lei.
Nell’estate del 1984 è troppo provata per continuare a esibirsi e decide di sospendere tutte le terapie.
Morirà nell’ottobre dello stesso anno, seduta serenamente sulla sua poltrona preferita, nel suo appartamento di Roosevelt Island.
Impossibile da inquadrare in un solo genere musicale, Alberta Hunter ha lasciato tracce di sé dentro tutta la musica che ha segnato la sua epoca.
Lontana dal glamour, dalle follie del successo e dal gossip, nessuno le ha mai domandato perché non avesse avuto figli.
A noi piace pensare che, semplicemente, abbia avuto tanto altro a cui pensare, e una vita straordinaria da costruire.
Una vita per l’arte, una vita per sé, una vita Lunàdiga.
di Giusy Salvio – Redazione Lunàdigas
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