Billy-Ray Belcourt esplora le possibilità dell’amore decoloniale
Billy-Ray Belcourt esplora le possibilità dell’amore decoloniale.
Una recensione di Claudia Mazzilli
Il problema è che ti amo. Il problema è che sono innamorato mentre la nazione mi tiene incatenato per le caviglie.
Billy-Ray Belcourt, poeta canadese appartenente alla popolazione indigena della Driftpile Cree Nation (nel nord Alberta), in Storia del mio breve corpo (Black Coffee edizioni, 2021, traduzione di Sara Reggiani) compone un originale memoir, che scardina le norme delle scritture etero-patriarcali, alternando brevi racconti autobiografici, ricordi familiari, episodi di cronaca, riflessioni teoriche su genere, razza, classe, commenti personali o citazioni tratte da testi importanti della poesia e del pensiero femminista e decoloniale (Judith Butler, Maggie Nelson, José Esteban Muñoz, Audra Simpson, Ocean Vuong, Claudia Rankine, Christopher Soto e tantə altrə).
Billy-Ray Belcourt “dà corpo” al proprio sguardo queer e indigeno sul mondo. E il corpo è breve, perché prima e dopo, sopra e sotto la sua misura si estende una lunga storia di dominio. Ma Billy non vuole piegarsi alla “depressione politica” (una categoria mutuata da Ann Cvetkovich) né alle mistificazioni dei colonizzatori (che sulle terre di popoli più antichi hanno edificato la loro retorica di progresso e uguaglianza). Billy non si stanca di escogitare modi “per abitare un corpo a rischio in un mondo sempre più piccolo, un mondo in cui non ricordiamo più come si faccia a coesistere senza boicottare il benessere collettivo” (p. 21): vuole scrivere e vivere senza rinunciare a urlare l’utopia, senza smettere di cantare la bellezza e la gioia apprese dalla madre, dalla nôhkom (la nonna) e da tutta la comunità di nativə confinata nella riserva: perché la gioia è “un’etica di resistenza” (p. 25).
Punteggiato da riferimenti a Sheila Heti, Maternità (pubblicato in Italia dalla casa editrice Sellerio e già recensito da Lunàdigas), Storia del mio breve corpo, mentre sottopone a revisione critica l’intero paradigma suprematista bianco con tutte le sue antinomie binarie (maschio-femmina; bianco-nero; colonizzatore-colonizzato; ricco-povero…), non idealizza neppure la comunità indigena e decostruisce il mito della maternità/paternità obbligata, radicato anche tra i nativi, la cui cultura è stata inquinata e manomessa dalla cristianizzazione e in generale dal sistema normativo dei colonizzatori:
“Forse ho parlato troppo presto. Ricordo bene la preoccupazione dei parenti quando ho dichiarato di essere queer. Malgrado avessero affermato, usando frasi chiare seppur scarne, che la loro felicità era subordinata alla mia, percepivo in loro una nebbia di dolore. Il dolore legato all’impossibilità della procreazione. Nel mio esplicitare un’identità sessuale non conforme hanno avvertito forse una sconfessione del futuro, un futuro che avevo trasformato in un territorio scevro da padri, inospitale per chi come loro seguiva i dettami della paternità. Forse in quei secondi, in quei minuti, sono diventato un po’ meno come loro, un po’ meno loro, slegato dalla bomba a orologeria della riproduzione a tutti i costi e libero dalla funzione di portare avanti un nome, una storia. Nelle lievi variazioni di tonalità e ritmo delle loro frasi ho percepito il mondo riorganizzarsi nella testa dei miei parenti. Ho visto il loro linguaggio soffrire e vacillare, proprio come sto facendo io.” (p. 35)
L’atto del coming out non ha più nulla di sovversivo, meglio relegarlo al secolo scorso, ammette Billy. Sembra superflua l’ennesima narrazione. Eppure “essere gay nel Canada rurale equivale ancora, perlopiù, a essere uno stampede di mustang in una strada senza uscita. I cavalli sono invisibili, trasparenti, ma il dolore che provano ad attraversare al galoppo pareti, mobili e steccati è reale, e acuto” (p. 46).
Tra brevi episodi di un apprendistato amoroso che avviene su Grindr e le altre app di incontri per omosessuali (che reduplicano lo spazio stretto della riserva, replicando il senso di oppressione, la vitalità segregata e l’assedio delle convenzioni etero-patriarcali, la paura del contagio da HIV, la frustrazione per amori sciupati dal consumismo onnivoro degli incontri fugaci delle app, amori usa e getta colonizzati dalla logica del capitalismo liberista, in cui ogni corpo è merce immediatamente fruibile e sostituibile o, come si legge a p. 70, “una sequela di orrori che mi ha portato a uscire con una sfilza di bianchi indecisi tra due estremi: la feticizzazione o la cecità al colore”), tra digressioni teoriche e pagine introspettive, prossime alla prosa d’arte e alla vera e propria poesia, prendono forma questi nuovi “frammenti di un discorso amoroso” (è esplicito il riferimento a Roland Barthes).
Un “discorso amoroso” ma anche un “discorso politico”, che negli ultimi capitoli approda al resoconto delle cronache giudiziarie canadesi (processi in cui non c’è mai nessun giurato nero o indigeno o meticcio) e al racconto dei numerosi casi di suicidio collettivo di nativə: undici tentativi di suicidio nella comunità indigena di Attawapiskat il 9 aprile 2016; centoquaranta tentativi di suicidio nella prima Nazione Cross Lake del Manitoba il 9 marzo 2016. Suicidi “politici”, causati da una doppia o tripla stigmatizzazione: non solo razzismo ma anche omofobia e transfobia – rimosse dal dibattito pubblico sulle crisi suicide, che hanno coinvolto assai spesso persone dell’universo LGBTQ – alle quali si aggiunge la sofferenza materiale di una vita in abitazioni inadeguate e in un ambiente naturale continuamente violato. Suicidi che sono un esilio volontario da uno Stato che considera (e vuole) estinti i nativi, senza assumersene alcuna responsabilità, con noncuranza, rimuovendo un’antica storia di occupazione e oppressione, con una “amnesia storica selettiva” (p. 53). Non a caso nel testo ricorre continuamente la sigla NDN (Not Dead Native, “nativo non ancora morto”), un acronimo nato online come reazione allo stereotipo occidentale che rappresenta i nativi come defunti o sul punto di estinguersi. La morte incombe sull’individuo, sulle comunità razzializzate, sul pianeta e sugli ecosistemi devastati ad opera dell’uomo bianco, il “Triste Mietitore” capace solo di distruzione e auto-distruzione.
“Per procedere col tran tran quotidiano devo fingermi morto almeno in parte, di fronte alla rabbia dei bianchi e alla sovranità dei bianchi e alla fame dei bianchi e al perdono dei bianchi e all’innocenza dei bianchi (…). Fino a oggi mi sono scagliato contro l’orrendo destino degli uomini come me. Sono un anacronismo come lo sono tutti gli uomini queer – sono troppo in anticipo sui tempi.” (pp. 62-63)
Ma Billy non si arrende, non si ripiega nel lamento: “Giovani NDN, ascoltatemi: vi prego, continuate ad amare!” (p. 127). “Non abbiamo avuto tempo di appendere il nostro dolore ad asciugare, perché il lutto non si ferma mai” (p. 135), tuttavia la poesia ha il compito di coniare un nuovo linguaggio, di liberare dai significanti di ineluttabilità e sopraffazione le energie dell’immaginazione, di dire sì alla vita. Billy la considera “un’ecologia della creatività”, proiettata nel futuro. Molto oltre, molto più lontano di chi genera figli.