Dare la vita di Michela Murgia
Michela Murgia, Dare la vita, Rizzoli 2024
Nel suo libro postumo, Michela Murgia affronta la questione della gestazione per altrə senza semplificazioni e senza ipocrisie, ma anche senza certezze assolute, con la volontà di proiettarsi nel futuro, oltre la sua stessa vita, nel tentativo di superare sia la frattura che si è creata tra le femministe (pro o contro la GPA) sia la paralisi a cui la giurisprudenza è giunta in moltissimi Paesi europei e del mondo (in cui la GPA è da sempre vietata o è stata proibita).
Leggere l’ultimo libro di Michela Murgia, Dare la vita (Rizzoli 2024), e confrontarmi con la testimonianza di Antonia e Franziska raccolta da Lunàdigas (Perché mia sorella non può generare mio figlio?) sono state due esperienze che mi hanno riempita di un incantato stupore.
Preferisco dichiararlo subito: non mi interessa nessuna delle ragioni per le quali il nostro Parlamento, nell’estate del 2023, ha dichiarato la gestazione surrogata un “reato universale”, cioè perseguibile anche se commesso all’estero (la gestazione per altrə era già vietata dalla legge n. 40/2004). Le ragioni della destra non sono le mie, quindi non le spiego e non le discuto. La mia prospettiva, invece, è quella di chi non ha alcuna fiducia nella regolamentazione dell’industria riproduttiva, sulla base di un assioma indiscutibile: la non commerciabilità dei corpi e del vivente.
Nell’attuale sistema neoliberistico (che su tutto – ambiente, guerra e pace…- sempre più stringe le sue morse invece di allentarle) è impossibile, secondo me, praticare la gestazione surrogata senza sfruttamento. Prima di tutte le questioni etiche, femministe, giuridiche, filosofiche collegate alla GPA, se solo penso al servizio sanitario nazionale, che va a rotoli, e ai nostri politici che sempre più hanno smantellato il diritto alla salute per intrecciare cordate clientelari con gli imprenditori della sanità privata, non riesco a immaginare nessun obiettivo di felicità, emancipazione e libertà per le donne e i loro figliə, ma vedo solo una sconfinata prateria senza regole, quella del profitto. E alzi la mano chi, almeno una volta, mentre curava un malanno anche banale, non ha avuto la sensazione di essere spennata viva, con giri tortuosi di soluzioni e pratiche medico-farmacologiche che puntavano solo a prosciugare un po’ alla volta le nostre risorse economiche.
Eppure, leggendo Dare la vita di Michela Murgia e ascoltando la testimonianza di Lunàdigas, sento di aver fatto un passo avanti.
Andiamo per gradi e proviamo a fare una sintesi. Certe narrazioni, che esaltano nella gestazione surrogata il potere emancipante delle nuove biotecnologie e l’altruismo femminile delle donne che offrono il proprio utero, nascondono un dato non trascurabile: se a donare il proprio grembo sono donne in condizioni di povertà e fragilità (per lo più dell’India, dello Sri Lanka, dell’Ucraina, della Georgia), che in cambio di una cifra non eccezionale rischiano la salute e la vita, non di donazione si deve parlare, ma di sacrificio e di sfruttamento.
Le cliniche di maternità surrogata indiane, ad esempio, sono organizzate sul modello degli allevamenti animali: file di letti, con poco spazio per ciascuna donna, che sul letto mangia, dorme, vive, isolata dalla famiglia, videosorvegliata, sottoposta a iniezioni ormonali (con effetti controproducenti anche gravi, nel breve e nel lungo termine), interventi chirurgici, impianti multipli di embrioni, destinati ad essere abortiti selettivamente nel secondo trimestre in base al sesso e ai test sulle malattie genetiche (urgenti le questioni etiche sollevate da queste derive eugenetiche e transumaniste). Di tutto ciò le “portatrici gestazionali” sono poco consapevoli perché poco istruite o analfabete (spesso non ricevono nemmeno una copia del contratto).
Non esistono registri su ciò che succede alle gestanti (se si ammalano, se muoiono…) né si registra di chi è il bambino che portano in grembo. Ciò viola la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia (1989), che garantisce il diritto di conoscere le proprie origini e che vieta la vendita di bambini (artt. 2 e 35). Per tutte queste ragioni la Convenzione internazionale femminista per l’abolizione della gestazione surrogata paragona tale pratica alla schiavitù che, secondo l’articolo I della Convenzione delle Nazioni Unite sulla schiavitù (26 settembre 1926), è “lo status o condizione di persona sulla quale sono esercitati, in parte o in toto, i poteri connessi al diritto di proprietà”; e in Italia, il collettivo Se non ora quando – Libere nel 2015 lanciò un appello alle istituzioni europee affinché la gestazione surrogata fosse dichiarata illegale.
Numerosi report, curati da docenti universitari, ricercatrici e attivistə, offrono dati sconfortanti; quelli che io ho consultato sono raccolti in un saggio dal posizionamento esplicito, ma che affronta il tema in una prospettiva internazionale e con un taglio interdisciplinare: Per l’abolizione della maternità surrogata, a cura di Marie-Josèphe Devillers e Ana-Luana Stoicea-Deram, traduzione a cura di Miguel Martinez, Ortica editrice 2022. Anche il libro di Ilaria Maria Dondi (Libere di scegliere se e come avere figli, Einaudi 2024, pp. 50-58; già recensito da Lunadigas.com) illustra quanto siano in espansione i profitti del mercato riproduttivo, i cui utili sono destinati a crescere.
Dalle gravidanze surrogate le donne ottengono l’1-1,5% della cifra pagata dai genitori intenzionali; quasi tutta la cifra dunque costituisce un iper-profitto per la clinica. Tali cliniche hanno ovviamente l’interesse a delocalizzare per usare manodopera a buon mercato: le gestanti sono donne brune invece che donne bianche, ma con ovociti acquisiti da una donna di pelle bianche, che in questo bio-mercato, in cui tutto è in vendita, valgono di più di quelli delle donne nere o brown. Un bio-colonialismo che risponde a una domanda razzializzata.
I contratti di gestazione surrogata, stipulati da avvocati senza scrupoli, prevedono che siano i genitori intenzionali (e non la gestante) a decidere con apposite clausole le circostanze della selezione degli embrioni da impiantare o di eventuali aborti e le modalità del parto. Per non parlare dei casi di rescissione del contratto o dei contratti non rispettati per ripensamento dei genitori intenzionali (spesso in caso di malformazione del nascituro o del neonato). In molti casi donne indigenti non solo non hanno ricevuto il denaro pattuito per la prestazione, ma si sono trovate ad accogliere un’altra bocca da sfamare nelle loro famiglie già fragili e numerose.
Tali contratti non menzionano la clinica, ma hanno la parvenza di accordi diretti tra la gestante e i genitori intenzionali, esonerati da ogni responsabilità o risarcimento in caso di complicanze della gravidanza, malattia o morte. Un mercato opaco. Talvolta il confine tra sfruttamento della gestazione surrogata e sfruttamento della prostituzione è impalpabile e le rotte sono le stesse del traffico sessuale, sicché molte donne vittime di tratta hanno subito entrambi gli abusi, passando dal mercato del “sesso senza prole (prostituzione)” al mercato della “prole senza sesso (maternità surrogata)”, come li definisce Laura Nuño Gómez (p. 154). Prostituzione e maternità surrogata sono dunque ben altro che forme di autodeterminazione per le donne indigenti, ma “strategie di sopravvivenza economica di genere che richiedono alle donne di correre rischi irragionevoli” (Melissa Farley, p. 162). Per fare un confronto immediatamente comprensibile, pensiamo alla differenza tra la donazione di organi e il traffico illegale di organi. Rita Banerji fa un paragone simile: “se si trattasse di un povero che vende il suo rene a un ricco, nessuno direbbe “bello” se quel donatore fosse stato fatto prigioniero, sottoposto a procedure mediche di cui non aveva idea, costretto a rinunciare ai suoi diritti, ad accettare di non ritenere l’ospedale o l’acquirente responsabili se si fosse ammalato o fosse morto, e costretto ad accettare di rinunciare al suo denaro nel caso in cui il rene donato fosse stato rifiutato quando impiantato nell’acquirente. Sarebbe scandaloso” (p. 100).
Fare di un bambino una merce di scambio viola l’articolo I della Dichiarazione universale dei diritti umani, secondo la quale “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Tali diritti sono indivisibili e inalienabili: o di tuttə o di nessunə. Tanto che anche attivistə dei diritti LGBTQ+, come Gary Powell, ritengono che la maternità surrogata non abbia nulla a che vedere con tali diritti, se garantisce solo il privilegio di genitori gay ricchi di acquistare figli nelle piazze del bio-mercato; guardando alla realtà specifica del Regno Unito, Gary Powell invita a diffidare anche della maternità surrogata altruistica e, numeri alla mano, dimostra quanto labile sia il confine con la maternità surrogata commerciale (pp. 128-29).
La gestazione surrogata non solo apre potenzialità di profitto inimmaginabili al capitalismo riproduttivo ma, secondo la filosofa femminista Adriana Cavarero (Nonostante Platone, Castelvecchi 2023, già recensito su Lunadigas.com), rinforza la visione patriarcale della donna come macchina riproduttiva e del grembo materno come “forno in cui lievita il bambino”, dimenticando quanto la gravidanza coinvolga non un pezzo del corpo della donna, ma tutto il corpo della donna, la sua vita, il suo benessere psico-fisico, ben oltre la conclusione della gravidanza.
Tra le possibili conseguenze della gravidanza c’è anche l’eventualità che la donna si sia affezionata al bambino che porta in grembo e non voglia rinunciarvi al momento del parto. Ne consegue che le gestanti, e non le cliniche che le arruolano o i genitori intenzionali, dovrebbero veder garantito sia il diritto di tenere per sé il bambino sia il diritto di interrompere la gravidanza, in caso di ripensamento. “Se altri – l’approfittatore della maternità surrogata, il donatore di sperma o di ovuli – rivendicano questo diritto, allora cosa impedisce allo Stato o alla Chiesa di avanzare la stessa pretesa?” (Phyllis Chesler, p. 115).
Altri studi rilevano che tra la gestante e il feto, attraverso la placenta e il cordone ombelicale, ci sono profondi scambi cellulari destinati a incidere profondamente sulla salute dell’una e dell’altro (tale fenomeno prende il nome di microchimerismo), anche quando la donna gravida non è la madre genetica del nascituro (Laura Isabel Gomez García, pp. 176-183); inoltre il bambino, mentre è nel grembo materno, riconosce la voce e gli odori della madre e, alla nascita, l’interazione con la madre gestazionale ha effetti positivi per il suo sviluppo: pertanto la gestante è, a tutti gli effetti, la madre biologica e legale del bambino, più della donna a cui appartiene l’ovulo impiantato (così anche Eva Maria Bachinger, p. 194 e Catherine Lynch, pp. 197-214).
“È importante ricordare che per migliaia di anni le donne hanno dato alla luce i bambini e non si riteneva che fossero geneticamente legate a loro. Erano viste come “contenitori” che portavano il figlio dell’uomo. Il gamete femminile – la cellula uovo – è stato scoperto solo nel 1827 dal biologo Karl Ernst von Baer […] La maternità surrogata sarebbe accettata se non risuonasse con un’idea profondamente radicata della donna incinta come incubatrice passiva? […] Gli sviluppi sociali e legislativi della seconda metà del XX secolo hanno portato a una crescente autonomia delle donne nella sfera pubblica e privata, ma anche al riconoscimento dell’unità del corpo e della mente. Si accettò sempre più che le donne e i loro corpi non erano a disposizione di altri, che la gravidanza non poteva essere ridotta alla gestazione, che le donne incinte non dovevano essere più considerate come balie che permettevano ad altri di diventare genitori o allo Stato di avere nuovi cittadini. L’autorizzazione alla contraccezione, la legalizzazione dell’aborto e la criminalizzazione dello stupro, così come il potere della paternità ridotto all’autorità parentale, sono stati tutti passi in questa direzione. La maternità surrogata rappresenta una rottura con questi sviluppi positivi e un passo indietro” (Alexandra Clément-Saby, pp. 76; 80; 88).
Dopo aver delineato, in una sintesi stringatissima, un quadro che appare subito assai composito e problematico, perché invoca questioni mediche, giuridiche, psicologiche, oltre a interpellare i più intimi convincimenti morali, etici, religiosi, riprovo a descrivere la mia esperienza di lettura di Dare la vita di Michela Murgia. Murgia parte da una decostruzione del concetto di famiglia naturale, che è invece la famiglia patriarcale, cellula sociale minima di circuiti più ampi di coercizione e dominio: il familismo amorale di cui parlano i sociologici Edward Banfield e Laura Fasano; la cultura mafiosa denunciata da Roberto Saviano; lo “stato statico dello Stato”, come lo chiama Michela, indigesto alle culture libertarie… L’autrice passa poi a descrivere altri modelli di parentela e di “felicità relazionale”, basati non su legami di sangue, ma su paradigmi affettivi ed elettivi alternativi (i figli d’anima): dentro queste relazioni, Michela ha imparato a distinguere tra maternità e gravidanza. Questa distinzione, esperita direttamente nella sua famiglia queer, la porta a esplorare il tema della gestazione per altrə, senza nascondersi le questioni problematiche cui accennavo sopra, ma con una spinta fortissima in avanti, con una grande volontà di proiettarsi nel futuro, oltre la sua stessa vita, nel tentativo di superare sia la frattura che si è creata tra le femministe (pro o contro la GPA) sia la paralisi a cui la giurisprudenza è giunta in moltissimi Paesi europei e del mondo (in cui la GPA è da sempre vietata o è stata proibita).
La non sovrapposizione tra maternità e gravidanza è già contemplata dalla legge italiana – osserva Murgia –, e garantisce a una donna che resti incinta il diritto di non diventare madre e cioè di abortire (legge 194/1978) o di partorire in anonimato, non assumendosi la responsabilità della maternità (Dpr 396/2000). Far coincidere maternità e gravidanza pertanto, nel dibattito sulla GPA, significa minacciare la libertà delle donne anche rispetto a queste procedure già garantite.
Michela Murgia ritiene urgente una legge sulla gestazione per altre, irrinunciabile quanto quella sull’aborto. Così come le donne escluse dal servizio legale e gratuito dell’interruzione volontaria di gravidanza sono respinte nella clandestinità e andranno a cercare soluzioni pericolose per la loro salute e la loro vita, allo stesso modo, senza un’opportuna disciplina di questa materia nella legislazione nazionale, ci sarà chi andrà a cercare le risposte ai suoi bisogni in India o in altri paesi che hanno aperto le porte a questo miserabile turismo riproduttivo: “nessuna dovrebbe essere costretta a partorire o ad abortire perché ha bisogno di soldi, ma finché non saremo socialmente in grado di rimuovere gli ostacoli economici che impediscono alle donne di scegliere se diventare o no madri secondo il solo proprio desiderio, esse devono poterlo fare dentro a un quadro di regole che le tuteli e tuteli chi da loro nasce. Chiedere che si faccia una legge per impedire la gestazione surrogata non soltanto non ferma lo sfruttamento, ma lo rende privo di limiti” (Murgia, p. 72).
Secondo Michela Murgia, i contratti di GPA devono contemplare alte remunerazioni per la gestante, adeguati percorsi medici, assicurazioni sulla vita, sostegni ai familiari della gestante, e garantirle i diritti di autodeterminazione fino alla nascita del bambino, compresa la scelta di tenerlo per sé, proprio perché il bambino non è una merce e soprattutto perché nel corso della gravidanza non solo il corpo della donna si trasforma, ma può mutare anche la volontà della donna, che non è un mero contenitore.
Il problema che non dobbiamo nasconderci è la povertà delle donne che si offrono come gestanti, proprio come lo è per i lavori di cura che molte donne (le badanti) svolgono all’estero, con grandi sacrifici affettivi, esclusivamente per necessità. Nello stesso tempo, Murgia è consapevole che i genitori intenzionali meno ricchi, che non abbiano la possibilità economica di sostenere tutte le spese assicurative e sanitarie per la gestante, si sposteranno verso quei paesi dove la legislazione dà meno garanzie. Questa considerazione le impedisce di avere certezze assolute rispetto alla GPA.
C’è poi la questione della legittimità/illegittimità di respingere un bambino non conforme alle aspettative, e dunque degradato a merce: anche rispetto a questa eventualità Murgia si sforza di individuare una soluzione giuridica razionale. In questi casi potrebbe valere la già citata normativa del parto in anonimato, che rende lecita la possibilità di non assumersi la potestà genitoriale del nato: tale diritto andrebbe riconosciuto sia alla gestante sia ai genitori intenzionali.
Chi nasce ha il diritto di conoscere le modalità del suo concepimento? Per Michela Murgia questo non è un problema importante. Se i genitori intenzionali hanno impiantato i gameti nella portatrice gestazionale, sono a tutti gli effetti i suoi genitori biologici; in caso contrario, valgono le norme previste dalla legislazione sulla fecondazione eterologa, per i paesi dove essa è consentita; e poi: nei secoli, quanti hanno conosciuto le circostanze del proprio concepimento? Amore coniugale oppure occasionale; rapporto con un amante all’insaputa del coniuge; prostituzione… Si è mai sentito il dovere di illustrare tali circostanze alla propria prole?
Michela Murgia non si nasconde che il mercato della fertilità fiorisce sull’assunto patriarcale che non si è donna se non si è madre (e infatti ogni dieci coppie che ricorrono a gestanti surrogate, solo tre sono omosessuali e le altre sette sono eterosessuali). La domanda che ogni donna deve farsi non è “quanto voglio un figlio” ma “quanto sono disposta a usare il corpo di un’altra per ottenerlo”. Michela Murgia si chiede: “è autodeterminazione il pensiero che mi impedisce di percepirmi pienamente donna se non divento anche madre? Non lo so, perché questa spinta a riprodurmi biologicamente non l’ho mai avvertita dentro di me a tal punto da considerare un’ipotesi del genere. So però che davanti al desiderio di un’amica, di una sorella del cuore, quello che non ho chiesto mai a un’altra per me stessa, lo farei io liberamente per lei. E non vorrei che esistesse una legge che mi dicesse che non posso farlo” (Murgia, p. 96).
Quest’ultima dichiarazione di Michela Murgia ci riporta alla testimonianza delle sorelle tedesche Antonia e Franziska raccolta da Lunàdigas: Antonia non può avere figli a causa di un cancro cervicale che ne ha compromesso l’utero ma non le ovaie, che possono tornare a produrre ovuli. È giovane, ha lottato contro la malattia per la vita e adesso, anche se la medicina è pronta e sua sorella Franziska è disposta a fare da madre surrogata, la legge le vieta di dare la vita, di guardare al futuro. Antonia dice: «Mia sorella può donarmi il sangue. Mia sorella può donarmi un rene, se necessario, ma non può donarmi un bambino, per così dire. Beh, è assurdo».
Se la questione è l’autodeterminazione femminile, queste donne sono libere di autodeterminarsi? Direi di no.
Tutti i miei dubbi sulla GPA restano, anche dopo la lettura di Michela Murgia e l’ascolto della testimonianza di Antonia e Franziska. Ma nulla deve impedirci, di fronte a questioni complicate, di continuare a cercare, di continuare ad ascoltare chi sa fare nuove domande, chi riesce con il suo punto di vista a dare luce a un angolo nascosto di un problema che è un poliedro dalle mille sfaccettature, molte delle quali sono ancora in ombra. Essere lunàdigas per me significa soprattutto non giudicare, ascoltare, non interrompere la sorellanza, interrogarsi sempre, non schierarsi in tifoserie.
La storia di Antonia e Franziska non ci offre un caso di spregiudicato turismo riproduttivo, ai danni di una donna oppressa per ragioni geopolitiche, di razza, di classe. È una storia che ancora abita sulla soglia di legami familiari prossimi e consolidati, ma nello stesso tempo li amplifica e li reinventa in modo creativo: madre, sorella, figlio, nipote. Franziska dice: «Sarei madre surrogata per mia sorella, dato che ho già un figlio e so quanto è bello avere un figlio. Quando immagino che un giorno partorirò un bambino per mia sorella, un bambino che sarà mio nipote o mia nipote, è così bello».
Sento che questa è la via: sperimentare nuove parentele; arricchire anche i legami di sangue attraverso le relazioni elettive. Stare sulla soglia – almeno questo – rifiutando un’idea di famiglia come culla o incubatrice claustrofobica. Oltre quella soglia, in qualche modo, prima o poi ci incammineremo verso un orizzonte più lontano.
Claudia Mazzilli
Note:
Eva Maria Bachinger è giornalista e attivista della rete austriaca Stoppt Leihmutterschaft (Stop alla maternità surrogata).
Rita Banerji è attivista femminista nata in India e cresciuta negli U.S.A.; i suoi scritti sul femminicidio in India sono stati pubblicati in tutto il mondo.
Phyllis Chesler è professoressa emerita di psicologia e studi sulle donne, autrice del best seller Woman and Madness (1972), Woman’s Inhumanity to Woman (2002; 2009) e di studi sul delitto d’onore; è Senior Fellow dell’Investigative Project on Terror e collaboratrice del Forum sul Medio Oriente e dell’Institute for the Study of Global Antisemitism and Policy.
Alexandra Clément-Saby è uno pseudonimo; vive in Francia e insegna scienze economiche e sociali; studia le forme del patriarcato e le loro origini.
Melissa Farley è una psicologa e ricercatrice femminista; ha scritto libri e articoli sulla violenza connessa alla prostituzione, alla pornografia, alla maternità surrogata.
Laura Isabel Gomez García, attivista spagnola, ha studiato Psicologia e Teoria femminista e si occupa di tratta/prostituzione e violenza di genere. Scrive per NuevaRevolucion.es.
Laura Nuño Gómez è docente di ruolo presso l’Università King Juan Carlos di Madrid (URJC), dove ha promosso corsi di Studi di Genere e ha avviato l’Osservatorio sull’uguaglianza di genere. Dirige l’High Performance Research Group on Gender and Femminism e il Teaching Innovation Group per l’inclusione della prospettiva di genere negli studi universitari presso URJC. È autrice di Maternidades SA: The business of surrogate ventre (Catarata Books, Madrid, 2020).
Catherine Lynch, avvocata, si occupa di diritti dell’infanzia, dei sistemi di adozione e delle moderne tecnologie riproduttive ed è membro fondatore di Abolish Surrogacy in Australia.
Gary Powell è un attivista dei diritti gay e consulente speciale europeo del Center for Bioethics and Culture e Research Fellow for Sexual Orientation and Gender Identity presso il Bow Group del Regno Unito.
I numeri di pagina indicati accanto ai nomi di questə autorə si riferiscono alla traduzione dei loro saggi, raccolta in Per l’abolizione della maternità surrogata (a cura di Marie-Josèphe Devillers e Ana-Luana Stoicea-Deram, traduzione a cura di Miguel Martinez), Ortica editrice 2022.
Per ulteriori approfondimenti:
Adriana Cavarero, Nonostante Platone, Castelvecchi 2023.
Adriana Cavarero, Donne che allattano cuccioli di lupo, Castelvecchi 2023.
https://www.lunadigas.com/archivio/maternita-surrogata-germania/
https://www.lunadigas.com/riflessioni/demetra-e-kore-nasciamo-figlie-prima-di-essere-madri/
link alla recensione di Ilaria Dondi