Demetra e Kore: nasciamo figlie prima di essere madri
Spunti di riflessione da Adriana Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica (Castelvecchi, 2023)
La casa editrice Castelvecchi ha ripubblicato molti saggi della filosofa Adriana Cavarero, testi fondativi degli studi di genere e del dibattito sulla differenza sessuale, da tempo introvabili in libreria e ora di nuovo disponibili alla lettura. Tra questi Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica (prima edizione 1990) contribuì a riconoscere nel pensiero patriarcale un “crimine filosofico”: la negazione sistematica del femminile e la riduzione del materno a dovere biologico. Cosa direbbero Demetra, Penelope, Diotima e la servetta tracia di Talete su corpo, identità, sesso e maternità e sui massimi sistemi della filosofia? Adriana Cavarero trent’anni fa “ha rapito” queste icone e le ha reinterpretate, liberandole dalla loro funzione ancillare al servizio degli uomini (Odisseo e Achille, Socrate e Platone, Talete…) e restituendole “emancipate” ai movimenti femministi italiani e internazionali. Non ci compete un’analisi complessiva e specialistica di questo e di altri studi di Adriana Cavarero, e lasciamo alla curiosità di chi vorrà leggere l’esplorazione delle altre figure femminili, limitandoci a proporre brevemente (e nel modo più divulgativo possibile) la sua interpretazione delle figure di Demetra e Persefone-Kore (korē, “fanciulla”, è l’epiteto di Persefone, come vedremo assai significativo).
La filosofa depura questo mito dalle incrostazioni patriarcali, individuandovi un significato di dirompente liberazione rispetto alle questioni riproduttive (compresi i temi dell’aborto e della gestazione per altri – o maternità surrogata –, che però ci riserviamo di approfondire in altre occasioni): la libertà di generare, la libertà di essere madre o non esserlo.
Il mito è noto: Demetra (dea legata alla fecondità della terra) perde sua figlia Persefone, rapita da Ade (dio degli Inferi), che ne fa la sua sposa. Così Demetra lascia che la terra resti sterile fino a quando non si raggiunge un compromesso: Persefone vivrà sei mesi con la madre e sei mesi nella dimensione infera con lo sposo Ade. Il mito viene tradizionalmente associato ai cicli stagionali della semina e del raccolto (la terra si riposa e resta improduttiva nella stagione invernale e produce i frutti nella stagione calda).
Ma, in uno strato più antico, il mito ci parla innanzitutto di una interruzione della genealogia femminile: Persefone smette di essere la figlia di Demetra e diventa la sposa di Ade. Dalla matrilinea al patriarcato. Persefone è deportata in un ordine simbolico cui è estranea. Persefone, che per linea materna avrebbe dovuto essere associata alla nascita e alla fecondità, in quanto sposa di Ade viene associata alla morte, quella morte che è il “fine ultimo” del pensiero occidentale: quella morte che ha separato il pensiero (immortale) dal corpo (mortale) e ha distinto l’essere dall’apparire, con una conseguente svalutazione del vivente in tutte le sue forme rispetto all’assolutizzazione del Logos, costruendo così la dicotomia fondante della filosofia occidentale, entro cui l’immortalità (ottenuta sia con l’esercizio astratto del pensiero sia con le gesta imperiture dell’eroismo guerriero) è il risarcimento, la rivalsa, la consolazione dell’uomo patriarcale.
Se si decostruisce il mito da un punto di vista anti-patriarcale, c’è un’altra conseguenza assai significativa che discende dal ratto di Persefone: la madre, quando le è sottratta la figlia, smette di generare rendendo sterile la terra. Non ha il dovere di generare. Se non vuole, non genera. Al centro del mito c’è dunque la potenza materna inscritta nella natura: il potere di generare, ma anche il potere di non generare. E a Demetra non basta sapere che la figlia è altrove (negli Inferi, con Ade). Demetra vuole vedere la figlia, vuole che la figlia sia e appaia nella dimensione naturale/natale, che non è un venire dal niente o da una dimensione oltre il mondo (il mondo delle idee di Platone) ma è un venire al mondo contingente e incarnato, un nascere da madre, non disgiunto dalle altre forme di generazione naturale (il riprodursi degli animali, lo sbocciare dei fiori), in armonia con i ritmi della natura tutta.
Persefone, la figlia: non necessariamente madre a sua volta. Perché il tema del mito è la libertà di generare, non l’obbligo di generare che millenni di linguaggio patriarcale hanno ricoperto di retorica, con immagini edificanti sul ruolo di nutrice della donna. Lo sguardo reciproco tra madre e figlia basta al riconoscimento della potenza del ruolo materno, che è potere sia di generare sia di non generare. È nel nascere che siamo radicate, in quanto figlie prima che madri; e del segreto del generare trasmesso in via materna la figlia dispone a sua discrezione, come vuole. Detto in parole ancora più semplici: essere donna è nascere, non generare. L’essere nate non comporta il debito/dovere di generare a nostra volta in una catena senza fine.
Questo sarebbe dunque il significato più antico del mito, nel contesto della cultura della Grande Madre.
La risemantizzazione “agreste” del mito è tutta patriarcale e lo impoverisce travisandolo: nell’analogia tra la terra che genera i frutti in primavera e la madre che è fecondata dal seme maschile il patriarcato esalta il dovere periodico del fare figli, un imperativo categorico a cui non si sfugge. Ma c’è qualcosa di ancora più terribile nella narrazione della figlia strappata alla madre, nella separazione del reciproco sguardo tra madre e figlia:
c’è uno stare delle donne nell’ordine patriarcale che le vuole divise e sole, strappate da un luogo di comune appartenenza e di reciproca significazione, e collocate in un posto che prevede per esse ruoli e funzioni finalizzate al regno dei padri […] la madre è un contenitore del nascituro, e quindi è tendenzialmente controllabile e regolabile da quell’ordine sociale che di lei ha fatto appunto un contenitore, cosicché la potenza materna ha finito col trasformarsi nel suo contrario (p. 79).
Meri involucri riproduttivi, le donne, secondo il dogma patriarcale. Perché l’avventura dello Spirito è la Metafisica e già in Aristotele e nei trattati ippocratici la donna è solo il contenitore del seme maschile, officina dell’involucro corporeo dello spirito, non origine della vita ma incubatrice di passaggio, incubatrice del corpo dei nascituri. E poi nutrice dei nati: un accudimento che soddisfa le sole necessità materiali (l’apparire, il non essere), mentre lo Spirito, l’Anima, si sublima solo attraverso la paideia maschile, che eleva fino alle vette dell’Essere. La Metafisica: la branca “matricida” della filosofia che distrugge le sue prime radici, il nascere da madre, perché il nascere nel pensiero patriarcale è deciso altrove, nella dimensione eterna e iperurania che legittima i codici etici e giuridici dell’Uomo (con valenza universale e neutra benché intrinsecamente maschile; mai “quest’uomo”, “questa donna”, nella contingenza della loro esperienza e sessuazione). “Si spalanca dunque un orizzonte simbolico maschile che si nutre di dualismi:
donna/nascita e uomo/morte, corpo e pensiero. Non però dualismi tranquillamente bipolari su di un piano per così dire paritario, perché il polo maschile comanda l’altro, ossia perché l’universalizzazione di un sesso riduce l’altro a propria funzione gettandogli addosso le sue luttuose categorie” (p. 83).
Sembrano riflessioni astratte o lontane, ma separando la madre/contenitore dall’embrione/nascituro è stato possibile in epoche passate dare il cognome per linea paterna e dare fondamento giuridico alla patria potestà e, ancora oggi, limitare e ostacolare il diritto all’aborto. Perché se si è spezzata l’unità originaria Demetra-Persefone, se madre e figlio non sono un’unità inscindibile, la scelta è altrove ed è di altri e per fini altri (dare figli alla patria, dare braccia all’industria e menti all’economia, in base a esigenze demografiche e socio-economiche), senza mai lasciare la procreazione alla scelta libera e autonoma della donna.
Così polis e physis si oppongono. Il ventre della madre non appartiene più alla madre e men che meno le appartiene quel che nel ventre accade. Il generare è, ora, questione di Stato. Ma “Demetra vuole Kore, la fanciulla, la vergine nata da lei, non la figlia gravida e il generare ininterrotto” (p. 103).
Claudia Mazzilli