Ilaria Maria Dondi, Libere di scegliere se e come avere figli
Ilaria Maria Dondi ci guida a capire che non esiste un solo tipo di madre e non esiste un solo tipo di donna senza figli. E demolisce gli stereotipi con l’empatia.
Una mini-enciclopedia sul pluriverso della maternità (scelta, subita, respinta, pentita…). Un inventario imperfetto, come lo chiama l’autrice, sul “se e come avere figli”, con la casistica labirintica di opzioni e situazioni in cui si può incappare quando si ha sulla testa, da millenni, la spada di Damocle del figlio vero, immaginario, simbolico (desiderato, dovuto, partorito, adottato, sognato, abortito…).
Con rigore, con qualche punta di ironia, ma soprattutto con grande umanità e una spiccata attitudine all’immedesimazione, Ilaria Dondi in Libere di scegliere se e come avere figli (Einaudi, 2024; pp. 164) passa in rassegna madri, non madri, childfree e childless (sotto le rubriche: sterilità, infertilità, vedovanza…), puttane, zitelle, suore, madri simboliche, cioè madri di idee/progetti/utopie/romanzi (la mammizzazione è sempre dietro l’angolo: per la carenza della lingua patriarcale, poco inclusiva con categorie non conformi e volutamente innominabili; ma anche perché se non fai figli devi aver fatto qualcosa di straordinario per riscattarti! Mica puoi essere una persona normale che semplicemente si gode la vita!).
E ancora: madri e non madri single o sposate, donne senza utero, nullipare, primipare attempate, ragazze madri, madri più o meno naturali, madri per fecondazione assistita, madri senza parto, gestanti per altre, madri lesbiche, madri casalinghe e madri lavoratrici, madri disabili (a dispetto dell’eugenetica!), madri black o brown, madri infanticide, madri suicide o per altri motivi mostruose, madri a distanza, madri femministe, madri trans. E dunque: maternità senza parto, parto senza maternità, aborti “taciuti” e aborti “politici”… Madri senza istinto materno (costrutto sociale o corredo intrinseco per natura?) e – ulteriore paradosso – professioniste apprezzate che amano i bambini ma non vogliono figli…
Ilaria Dondi, orgogliosa childfree, poi madre “per scelta ponderata”, si trova a passare “dall’altra parte della barricata”. Scopre in sé stessa gli stereotipi patriarcali quando si sorprende a dire un’amica senza figli “Beata te, che hai tutto quel tempo a disposizione!”. Una delle tante frasi fatte: beata te che…, poverina…, non puoi capire… ecc. Ma Ilaria si trova anche a subire micro-aggressioni verbali da parte di chi non la considera abbastanza femminista (perché un figlio alla fine lo ha fatto) o non la reputa una buona madre proprio perché è un’attivista femminista. E così Ilaria ci guida nell’esplorazione dei tanti dualismi creati dal patriarcato, ma anche da certo femminismo pop poco incline all’approfondimento né disponibile a una provvisoria sospensione del giudizio (propedeutica all’approfondimento, e non al disimpegno). Così si giunge all’unica conclusione possibile: essere femminista significa auto-determinarsi; o anche prendere consapevolezza di aver compiuto alcune scelte per seguire doveri sociali imposti più che per assecondare i nostri desideri e, ammettendolo con sincerità, finalmente vivere meglio e correggere il tiro, ascoltandosi di più. Non occorre alcuna giustificazione per fare o non fare figli. “Voglio”. “Non voglio”. Basta.
Ilaria Dondi ci svela la truffa della maternità patriarcale, che è sempre eteronormata, agìta preferibilmente dentro il matrimonio, da conseguirsi né troppo presto (lo stigma delle ragazze madri) né troppo tardi (lo stigma delle primipare attempate) e da praticare come un dovere assoluto, con spirito di sacrificio, senza lamentele. Fuori di questo paradigma tutte le altre maternità sono tutt’altro che esemplari. Nasci, studia, lavora, sposati, genera, torna a lavorare (se ci riesci ancora, se non ti licenziano, se sei una superdonna multitasking e soprattutto una donna ricca o privilegiata, che può contare su servizi e/o reti familiari di supporto), diventa nonna, muori. Tappe obbligate, scadenze precise.
Anche nella Costituzione italiana persistono principî patriarcali, nonostante l’impegno delle donne dell’Assemblea costituente (delle quali Ilaria Dondi riporta i nomi con gratitudine): grazie a loro fu intaccata la concezione della donna come madre e fattrice depositata nello Statuto Albertino e nel Codice Rocco. Le ventuno costituenti contribuirono in modo decisivo alla definizione dei principi di pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge (art. 3), parità tra uomo e donna in ambito lavorativo (artt. 4 e 37), uguaglianza morale e giuridica dei coniugi all’interno della famiglia (art. 29); parteciparono alla definizione della tutela giuridica e sociale dei figli nati fuori dal matrimonio (art. 30), delle misure economiche a sostegno della famiglia (art. 31) e della parità di accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza (artt. 48 e 51), tracciando il solco per le azioni dei legislatori dei decenni successivi su queste materie (riforma del diritto di famiglia, aborto, divorzio). Tuttavia la Costituzione, figlia del suo tempo, definisce la famiglia come “società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29), dunque eteronormata, e indica con chiarezza il ruolo principale della donna, la “sua essenziale funzione familiare”, pur non considerandolo incompatibile con il lavoro, cui si riconoscono gli stessi diritti e le stesse retribuzioni dell’uomo (art. 37).
In questo quadro di norme scritte e non scritte, tu “imposti relazioni e lavori senza perdere la visione d’insieme, abbassi il tiro dei sogni, ponderi scelte più ragionevoli che coraggiose, metti a tacere quel desiderio che scalcia” (p. 22). In modo da poter, a tempo debito, fare il figlio in un contesto di approvazione sociale in cambio di una promessa di felicità che spesso non arriva da sé con la nascita del figlio – Ilaria Dondi cita con puntualità ricerche autorevoli, tra cui Orna Donath, l’autrice di Pentirsi di essere madri –, “se non per un brevissimo periodo iniziale, destinato a scemare entro il primo anno di vita del bambino” (p. 32).
Ilaria contesta punto per punto le credenze del pensiero pronatalista, ne denuncia l’aggressività e la pervasività in tutti gli spazi del discorso pubblico e privato, tanto che in questi ultimi anni è sempre più difficile far circolare narrazioni alternative della maternità e renderle popolari al di fuori delle comunità femministe (e fra queste cita noi lunàdigas). Ad esempio, pochə sanno che le donne senza figli per scelta sono solitamente poco pentite (d’altronde ci si può pentire di qualsiasi cosa, non solo di non fare figli!) proprio perché hanno fatto una scelta controcorrente, pagandone un prezzo in termini di stigma: ma controcorrente quanto? Si stima infatti che le donne nate nel 1976 rimaste senza figli alla fine della loro vita riproduttiva saranno il 22,5 %: il doppio di quelle nate nel 1950 (p. 20). La rinuncia a generare è un’opzione sempre meno disprezzata. Proseguendo nella lettura, si apprende che già nel Cinquecento le donne cominciarono a posticipare alla metà dei vent’anni il matrimonio e la procreazione, per mettere da parte da sole la propria dote: nel corso dei secoli, per quanto oppresse, le nostre antenate (sarte, domestiche, lavandaie, contadine o artiste o commercianti) sono state molto più consapevoli di quanto possiamo credere, gettando “le basi della coscienza femminile futura” (p. 69).
Nella maggior parte dei paesi occidentali percentuali elevate di donne tra il 1850 e il 1914 hanno superato i quarantacinque anni senza avere figli, con un picco australiano che supera il 30 per cento. L’idea che fino a qualche decennio fa tutte le donne diventassero madri tranne quelle che proprio non potevano, insomma, è un falso. La mistificazione maternocentrica affonda le sue radici nel baby boom del secondo dopoguerra. Si tende infatti oggi a confrontare gli attuali tassi di natalità (e di donne childfree) con l’eccezionale esplosione di fiducia e prole di quei decenni. Adesso dunque le scelte riproduttive si stanno solo riallineando ai livelli storici (pp. 69-70).
Il saggio esplora anche le nuove opportunità, i danni psicologici e le implicazioni etiche della fecondazione assistita e della gestazione per altre. Si pensi alla “coercizione riproduttiva” subita dalle donne che, indotte dai familiari, intraprendono percorsi logoranti di fecondazione assistita più per il senso di colpa di non poter generare che per autentico desiderio di un figlio. Ilaria Dondi affronta il tema della GPA con la consapevolezza che le nuove tecnologie aprono spazi di libertà e autodeterminazione un tempo impensabili, ma anche con la necessaria cautela, perché non è femminismo né emancipazione “opprimere altri corpi pur di liberare i nostri” quando il neocapitalismo riproduttivo porta allo sfruttamento schiavistico delle gestanti surrogate dell’India, dello Sri Lanka, dell’Ucraina, sottopagate e costrette a sottoscrivere contratti ingannevoli e privi di tutela sanitaria e psicologica pre- e post-parto (ma per il momento rinviamo una discussione articolata su questo tema, troppo complesso per poterlo comprimere in poche righe).
In conclusione: essere madri è un’identità monolitica? È uno status che si può definire? In tanto pullulare di tipologie di madri e non madri, ciascuna con il suo vissuto variegato, “le variabili sono infinite e ognuna, presa da sola o sommata alle altre, condiziona il valore o l’aspettativa riproduttiva che ci viene attribuita” (p. 160). E soprattutto essere madri è una identità (ammesso che lo sia) aggiuntiva, non sostitutiva né esaustiva del valore della donna.
Ilaria Dondi, nella sua rassegna, non vuole affatto incasellare e classificare; anzi, ambisce a relativizzare e decostruire da una prospettiva femminista ciascuna delle definizioni divisive, che sono costruzioni del patriarcato, con il corredo di frasi, domande e luoghi comuni per tutte, madri, non madri, aspiranti madri: “Quando la smetterai di essere ossessionata, vedrai che resterai incinta”; “e se poi te ne penti quando è troppo tardi?”; “e lui che dice?”; “pensa a quelle che non possono”…
Il libro è sì un piccolo e curatissimo saggio di segno multi-disciplinare, che si muove tra cronaca e demografia, storia dell’immaginario e scienze sociali, giurisprudenza e medicina, corredato da riferimenti bibliografici e sitografici che offrono ulteriori approfondimenti. Non si tratta però di un bignami, di un freddo manualetto, perché Ilaria Maria Dondi lo apre e lo chiude con il racconto della propria esperienza di vita (cui ricorsivamente ritorna), unica, relativa e non riducibile a un’etichetta. Assumendo e rendendo esplicito il suo specifico punto di vista, riesce a conferire onestà intellettuale a un racconto dichiarato parziale con sorprendente schiettezza, con l’umiltà di non sentirsi tuttologa su materie che ogni giorno aprono scenari nuovi e inimmaginabili. Inoltre l’autrice ammette che alcuni pregiudizi sono a tal punto interiorizzati e inconsci che è difficilissimo anche per un’attivista femminista (bianca, cisgender, eterosessuale) non cadere nelle trappole razziste e classiste. Solo chiarire il proprio posizionamento può creare una relazione autentica, anche con chi legge da lontano. Perché teoria e pratica, libri e pensiero incarnato vanno insieme, come bell hooks non si è mai stancata di ripetere.
Ilaria Dondi ci invita a superare le facili dicotomie patriarcali (uomo/donna, bianco/nero, puttana/santa, madre/non madre…). Nessuna persona può esperire tutta l’esperienza umana possibile. Ma tramite l’empatia, che è una forma nobile di conoscenza, è possibile mettersi in ascolto dellə altrə, fare tesoro delle emozioni altrui, non assolutizzare il proprio vissuto, non erigerlo a norma, immaginarci noi stessə nelle vite altrui, e capire qualcosa in più.
Essere un po’ più sorelle di chi si incontra per caso in una sala d’attesa (in stazione o dal medico) ed è così diversə da noi: basterebbe questo a rendere migliore il mondo.
Ilaria Maria Dondi è giornalista professionista e direttrice responsabile della testata digitale «Roba da Donne». Scrive e si occupa di questioni di genere, con particolare riferimento alle forme di violenza, agli stereotipi e ai linguaggi discriminatori. È autrice di Rompere le uova, newsletter sui diritti riproduttivi.
Claudia Mazzilli