Io lunàdiga, tu lunàdiga, suora lunàdiga
Pensare all’esser madre e al senso materno, in termini spirituali
“Sposa di Dio”, “madre di tutti”, “fratelli”: ma quindi anche in Chiesa c’è una famiglia? Nella “casa” di chi dedica la sua vita a Dio, chi ne fa parte, non sembra sfuggire a peculiarità specifiche basate sul genere. In effetti, la società, che include anche l’universo ecclesiastico, è dominata da schemi di patriarcato latente diffusi in ogni tipo di gruppo socio-culturale. Nello specifico, nella Chiesa, suore e preti mantengono la performatività del maschile e del femminile nei ruoli che ricoprono nel proprio percorso spirituale.
Seguendo l’immaginario sociale della donna, la suora è considerata parte del matrimonio con Dio, assumendo il ruolo di moglie e serva al cospetto di princìpi divini a lei superiori. In aggiunta, è riconosciuta, insieme alla figura della Madonna, come riferimento materno per tutti i fedeli, quasi a voler riempire la sua mancata riproduzione con un fine ultraterreno. L’immaginario sociale dell’uomo, invece, si manifesta nei ruoli del prete. Egli è l’unico protagonista dei riti religiosi pubblici, presentandosi come mediatore diretto tra i fedeli e Dio, escludendo il genere femminile. A chiudere il cerchio è, infine, la figura dei fedeli stessi, a cui ci si appella come “fratelli” durante la celebrazione, generalizzando l’intero pubblico come appartenente alla categoria maschile; allo stesso modo, la società parla di “uomini” anziché di essere umani.
Tali premesse sono fondamentali per delineare il ritratto della ‘suora lunàdiga’, perché mostrano dettagli rilevanti della vita religiosa femminile. Nello specifico, la suora sceglie il matrimonio con Dio e adotta, spiritualmente, tutti i fedeli, rinunciando all’atto procreativo, ma non alla maternità vera e propria. Infatti, la protezione materna si realizza prendendosi cura del convento o della comunità religiosa di riferimento. Molto probabilmente, ciò spiega perché la non-maternità di una suora non è sottoposta a giudizi morali esterni: la rinuncia alla procreazione è irrilevante rispetto alla scelta di diventare una madre spirituale e, per questo, la suora non è percepita come una donna incompleta.
Eppure, è così difficile ammettere che una donna sceglie tanto di seguire la vocazione divina quanto di rinunciare alla maternità, come conseguenza della sua decisione? A questo punto, si aprono due strade interpretative.
La prima, più terrena, rivela come la scelta di non essere madre sia presa volontariamente dalla suora, fin dal noviziato, per ragioni personali ed intime, come succede per tutte le lunàdigas. Al contrario di una ‘comune’ donna childfree, però, una suora lunàdiga ha la necessità di giustificare la sua decisione con le definizioni morali che il contesto religioso richiede. Nella realtà dei fatti, tuttavia, lei resta una donna senza figli che autonomamente sceglie per sé un ruolo individuale e sociale.
Invece, la seconda interpretazione, metafisica ed astratta, riconosce alla non-maternità di una suora un significato che non può essere classificato secondo i ruoli familiari proposti dalla società. La teologa Perroni parla di un “Dio a-familiare” e le tre suore gli attribuiscono “sia mascolinità che femminilità”, suggerendo che né Dio né le persone prescelte come sue mediatrici – preti e suore, inclusi allo stesso modo – hanno un’identità e un ruolo di genere. In altre parole, i servi di Dio sono destinati a svolgere un ruolo che prescinde il maschile e femminile, la maternità e la non-maternità e, allo stesso modo, la paternità e la non-paternità. Così, la rinuncia alla procreazione non è una scelta: essa non è contemplata fin dal principio nelle vite di chi è coinvolto nel mondo divino e religioso, per motivazioni che non hanno a che fare con il sociale ed il reale.
Queste due prospettive possono essere entrambe condivisibili: esse rappresentano valori personali a cui ognuno si sente legato in modo differente. In effetti, non necessariamente una lunàdiga condivide solo l’interpretazione terrena della non-maternità di una suora. Al contrario, Marinella Perroni dimostra che si può essere lunàdigas, laiche, ma anche fedeli al Regno ultraterreno e a-familiare enunciato dalla Chiesa.
E poi, sapete cosa?! Verrebbe quasi da dire che quel Dio, senza genere e performatività, sia divinamente queer!
Lunàdigas? Parliamone!
di Nicole Rubano per Lunàdigas
Un app untamento per pensare e per parlare: non perdete le testimonianze dell’Archivio Vivo di Lunàdigas.
Le immagini sono tratte da testi di Hildegarde von Bingen