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La Donna Gelata Di Annie Ernaux. Una Recensione Di Claudia Mazzilli

La donna gelata di Annie Ernaux. Una recensione di Claudia Mazzilli

La scrittrice francese Annie Ernaux racconta senza pudore le donne “congelate” dagli obblighi della maternità.

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Annie Ernaux

Nei suoi romanzi Annie Ernaux racconta sempre la stessa storia. Ogni volta però la scrittrice tira fuori un solo filo dalla matassa narrativa dei propri ricordi, un filo che lega il suo vissuto ad una narrazione collettiva: la morte del padre; la morte della madre; i primi amori; un aborto clandestino; una sorellina nata e morta prima della sua nascita; la scuola; il concorso da insegnante; una vacanza estiva; un litigio tra i genitori. Da un solo episodio si dipana con precisione esatta un racconto totale, un filo che si dilata a spirale e chiude in sé uno spaccato di società francese tra periferia rurale e grande città, dal 1940 a oggi, lungo una vita che attraversa tutte le tappe dell’emancipazione di una donna, tra fasi di progresso e altre di regresso: perché il filo a volte si ingarbuglia. Nulla è lineare nella fatica di Annie Ernaux di appropriarsi di sé stessa nel modo più radicale.

La donna gelata (L’Orma editore 2021; traduzione di Lorenzo Flabbi) è il romanzo in cui si decostruisce il mito della maternità. Nata e cresciuta in un paesino di provincia da due operai che lasciano la fabbrica per aprire per conto proprio una drogheria, Annie Ernaux non conosce in casa propria la differenza tra doveri maschili e doveri femminili: le incombenze della drogheria toccano ad entrambi i genitori; spesso è il padre che cucina; la polvere sui mobili resta dov’è, in casa sua come in quella di altre parenti. È la scuola, invece, il luogo dove Annie scopre le regole del patriarcato, anche attraverso la socializzazione con altre ragazzine di ceto superiore, le cui mamme, a casa, sono dedite come le fatine delle fiabe a mansioni ben distinte da quelle maschili, e appaganti (!). In confronto, mamma e zie di Annie appaiono creature rozze, ibride, mascolinizzate. Poi, tra gli amici di università, Annie trova un fidanzato (di una famiglia più “borghese e cittadina”) e si sposa; la divisione dei compiti tra marito e moglie sembra equa:

Dov’era la schiavitù di cui si faceva un gran parlare?… Completamente fuori strada, Il secondo sesso!  (p. 134)

“La commovente immagine della coppia moderna e intellettuale” però si sgualcisce: lo strappo senza rimedio è la nascita del primo figlio, che respinge nelle caverne ogni illusione di emancipazione e parità. Non tanto per colpa di lui, del marito, quanto per i condizionamenti del mondo esterno a quello intimo della casa (arredato con tanto buon gusto e premure, tenacemente difeso da quel che c’è fuori): i due giovani sono ancora alla ricerca di un lavoro stabile, e sarà l’uomo a trovarlo prima. Un destino socio-biologico lega fatalmente Annie al dovere primario e totalizzante di accudimento del figlio: la ripartizione equa degli obblighi domestici salta perché il marito trascorre poco tempo a casa.

Basterà riempirlo di coccole, dicevano le donne, la padrona di casa, mia suocera. Che delizia, le coccole, il piedino, la manina, un sorriso per la mammina, ninna nanna ninna oh. Difficile credere si trattasse solo di quello. Scopro la giornata scandita da sei cambi e da sei biberon, e la buona volontà non è stata abbastanza, il mio latte si è prosciugato nel giro di dieci giorni. Alle cinque del mattino contemplo il bricco in cui il latte si scalda a bagnomaria, lo sguardo fisso. Vitrea. Che alla stessa ora gli operai escano per montare il turno in fabbrica, o i netturbini riversino rifiuti nel loro furgone, non mi è di nessun conforto, ho l’impressione di essere in un’altra dimensione, rispetto a loro. Cibo e merda a gettito continuo. In più, l’ossessione dei microbi, le coliche, il minimo malessere. Certo, certo, glorificare l’umile compito, l’«opera eletta che esige molto amore» eccetera, trasfigurare la merda. (p. 148)

Le parole casa, cibo, educazione, lavoro non hanno più lo stesso significato per lui e per me (…) Fare il minimo, soltanto il minimo indispensabile. Non mi avranno. Mettere i piatti a mollo nel lavello, una passata di straccio sul tavolo, tirar su le coperte, far mangiare il Picio, lavarlo, questo sì. Ma non spazzare, e soprattutto mai spolverare, forse tutto quel che mi resta de Il secondo sesso, la storia di un’iniqua battaglia contro la polvere persa in partenza. (pp. 154-155)

Però…:

Ora bisogna preservare la bellezza della nostra dimora. Proteggerne l’armonia. Non ho forse un aspirapolvere nuovo con un mucchio di aggeggi intercambiabili per catturare anche lo sporco più invisibile? Farò questo sforzo, e pazienza se per tirare fuori l’arnese dal ripostiglio, montarlo, cambiargli i pezzi e rimettere tutto a posto ci vuole il triplo del tempo rispetto a una passata di scopa (…) Separare i panni da lavare, ricucire i bottoni a una camicia, la visita dal pediatra, è finito lo zucchero. Una lista che non ha mai emozionato e divertito nessuno. Sisifo, con il suo masso da spingere all’infinito, almeno ha un certo stile, un uomo su una montagna che si staglia nel cielo; una donna nella cucina di casa sua, che getta il burro in padella trecentosessantacinque giorni l’anno, non è né affascinante né assurda, è la vita, bella mia. (pp. 159 -161)

E lui:

Quando la sera prende in braccio il Picio, che è tutto contento, nutrito, lavato e pronto per la notte, è come se avessi vissuto l’intera giornata per arrivare a questi dieci minuti di esibizione del figlio al padre. (pp. 166-67)

Annie riprende a studiare per il concorso da insegnante che la restituirà al mondo esterno. Uno studio concentrato nelle due ore di pisolino pomeridiano del bambino, nella speranza che non si svegli. Finché l’equilibrio tra marito e moglie si rompe. Ma poi si riaggiusta:

La gioia di poter urlare come una pazza senza che lui riesca a fermarmi col suo sorrisetto di superiorità, niente parolacce per favore. Ma verrà il tempo in cui smetterò di concedermele le scenate, «c’è il bambino», non ti vergogni?, davanti a lui, un po’ di dignità, per meglio dire di sottomissione. Un padre risoluto e una madre che non fiata mai, una mano santa per la serenità dei figli. (p. 173)

E quando lui le chiede di poter andare al cinema da solo, per l’ultimo film di Bergman:

«Te la prendi se vado a vederlo più tardi?… Sennò a che serve essere in due a badare al bambino?». Non sono crollata e non ho nemmeno urlato. (p. 173)

E, finalmente, il concorso vinto e il lavoro a scuola che la riporta allo studio e alla socialità:

Eppure i colleghi maschi possono uscire da scuola con tutta calma, avviarsi con aria distinta verso la propria macchina, andare a sfogarsi in appassionate riunioni sindacali (…). Io, donna sposata e madre di famiglia, devo trottare. A mezzogiorno, alle cinque del pomeriggio, vorrebbero fermarsi a chiacchierare all’uscita, non ho tempo, bye bye baby, mio figlio mi aspetta e devo anche passare in macelleria (…). Non osavo pensarla in quei termini, da’ retta a quel che dicono tutti, professoressa, il mestiere perfetto «per una donna», diciotto ore di lezione a settimana, il resto del tempo a casa, un sacco di vacanze per potersi occupare dei figli, se guardi bene è un lavoro da sogno, senza ripercussioni per il resto della famiglia, indolore, la donna «si realizza», porta a casa uno stipendio, ma resta comunque una brava moglie e una buona madre, come si fa a lamentarsene? (pp. 177-179)

Già, di cosa lamentarsi? Di non trovare il tempo per correggere i compiti? Basta sapersi organizzare, non fa che ripeterle la suocera, la fatina che guida Annie nell’apprendistato ad essere madre perfetta. Intanto il bambino cresce e le concede qualche tregua, qualche quota di tempo libero: Annie potrebbe dedicarsi con più passione e creatività al lavoro di insegnante, fare dei progetti per la scuola, oppure fare attività sindacale come i colleghi maschi, frequentare laboratori di teatro, seguire dei corsi di letteratura, fare un po’ di sport. Non sa nemmeno più di cosa ha voglia. Sceglie la soluzione più semplice, quella a cui ormai è ben addestrata: lascia le pillole anticoncezionali chiuse nella scatolina e mette al mondo un secondo figlio: due, il numero perfetto.

Il secondo figlio di una donna gelata.

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Marina Vitale
Marina Vitale
3 anni fa

Eh! Si,un quadro sconsolante espresso con la profondità del sentire e la delicatezza di questa grande narratrice che riesce a esprimere il detto e il non detto di noi tutte.

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