skip to Main Content
Carne Viva Di Merritt Tierce. Una Recensione Di Claudia Mazzilli

Carne viva di Merritt Tierce. Una recensione di Claudia Mazzilli

La scrittrice e attivista Merritt Tierce racconta ferite e censure sul corpo delle donne: Carne Viva (Edizioni SUR 2015)

Il dominio dispotico sulle donne afghane, per paradosso, o per analogia, o per quelle strane associazioni di immagini tipiche della dimensione onirica, mi ha indotta a rileggere un romanzo “crudo” di qualche anno fa, fortunatamente ancora disponibile in commercio per chi voglia leggerlo adesso: Carne viva, opera d’esordio della scrittrice statunitense Merritt Tierce (SUR 2015, traduzione di Martina Testa). Come nei sogni (e negli incubi) si sovrappongono e si ibridizzano sensazioni e ricordi, così quelle pagine oggi riaffiorano a ricordarci che non ci sono certezze nelle conquiste delle donne, neppure nel nostro presuntuoso Occidente.

Il romanzo di Merritt Tierce comincia in medias res con pagine sature di un realismo integralmente aderente ai dettagli più raccapriccianti, in una narrazione fatta di episodi seriali e ricorsivi, che rischiano persino di respingere o nauseare chi legge: una ragazza madre racconta la sua vita di cameriera (a Dallas) in più bar, fast food e ristoranti contemporaneamente; l’incastro dei turni in un ossessivo déjà-vu di sfacchinate, straordinari, paghe raccogliticce, perlopiù raccattate dalle percentuali sulle mance, in un organigramma (feudale e gerarchico) di camerieri, aiuto-camerieri e lavapiatti:

Ormai mi restavano meno di due ore di riposo a casa prima di attaccare al ristorante italiano dove lavoravo la sera (…) non aveva molto senso ripassare da casa, e tenevo l’uniforme dell’altro locale in macchina proprio perché ogni tanto capitava. Ma a volte anche se potevo restare a casa solo cinque minuti il viaggio lo facevo comunque. Mi sedevo per terra in bagno e chiudevo la porta, pur vivendo da sola. Per avere la sensazione che ci fosse qualcosa fra me e tutto il resto, almeno per pochi istanti. (p. 50)

E ancora: il dimagrimento continuo e il rifiuto di toccarsi la pancia durante la gravidanza, i maltrattamenti, le molestie o le avventure sessuali tra persone consenzienti (clienti, colleghi, datori di lavoro), cocaina, le interruzioni volontarie delle gravidanze successive, i gesti di autolesionismo prima occasionali, poi sistematici (tagli e bruciature), in un’unica lunga apnea narrativa che conosce poche, brevissime, intense inspirazioni: le poche righe in cui si parla con tenerezza della bambina nata da una gravidanza indesiderata; qualche capoverso in cui si racconta con rassegnato rimpianto il rapporto sciupato con l’ex marito di Marie, il ragazzo padre, rimasto premuroso e gentile anche dopo quella prima fatale esplorazione erotica dentro un unico sacco a pelo durante una gita in Messico, ma pure lui troppo giovane dentro un amore incerto, tiepido e acerbo e dentro un matrimonio non programmato e imposto dalle convenzioni come un risarcimento in termini di reputazione sociale.

Mi brucio il collo con uno spiedino da fonduta mentre tu guardi I Robinson sul mio letto (…) Lo spiedino è acuminato ma non uso le punte. Accendo il fornello e tengo l’asticella di metallo sopra la fiamma azzurra finché il manico di plastica non comincia a scaldarmisi fra le dita e la punta non diventa rossa, diavolesca. Aspetto che parta la risata registrata perché so che la pelle farà un piccolo crepitio che non voglio farti sentire ma che probabilmente non noteresti comunque. Sembrerebbe un normale rumore di quando si cucina. Mi premo forte addosso l’asticella di metallo e conto fino a tre prima di staccarla. La metto nella lavastoviglie, con dei pezzettini di pelle appiccicati sopra. Fa male ma è una bella sensazione. Cioè mi dà una sensazione di sollievo. Il dolore è reale e sincronizza tutto il dolore che ho nel resto di me stessa ma non riesco a organizzare. (pp. 114-115)

Potrebbe sembrare una narrazione puramente fotografica del disagio di una donna nata in un contesto con poche opportunità di riscatto sociale e culturale: una ragazza che nel vitalismo transeunte del sesso con partner casuali brucia rabbia e disperazione ma, talvolta, anche curiosità e inquietudini nonostante tutto ingenue, adolescenziali, persino virginali, perché la consapevolezza dei meccanismi del proprio erotismo non è stata raggiunta con la precoce maternità.

Il mio confessore era Calvin: ogni pomeriggio gli raccontavo dei miei nuovi uomini e non risparmiavo dettagli, né sullo squallore né sulla pericolosità di quello che facevo. Lui mi rimproverava, mi dava della scriteriata, mostrava una preoccupazione nei miei confronti che avrei voluto provare anch’io. A Calvin non nascondevo quanto fingessi. Fingevo che mi piacesse farlo, fingevo di averne voglia, fingevo di venire. Lui non capiva e io non riuscivo a spiegarglielo. Aveva qualcosa a che fare con l’amore e qualcosa a che fare con la disperazione. Era così: a volte ero accovacciata a terra a raccogliere pezzi di polpettine di granchio caduti accanto alla scarpa di un importatore di diamanti, con il grembiule e la mia spazzola per le briciole e il mio Sissignore, certo, subito, e restavo paralizzata nel vedere e nel toccare quell’avanzo di polpa di granchio perché non era la risata spumeggiante di lei e non era quel punto sulla sua spalla, proprio vicino al collo, che profuma di sole. Non sono una madre, pensavo mentre mi dirigevo al secchio dell’immondizia. Puoi comunque scoparti un sacco di gente, mi diceva Calvin, ma divertendoti. Fallo per te stessa, fallo per il piacere. O quantomeno fallo con le dovute precauzioni. Ma non era questione di piacere: era che alcuni tipi di dolore sono il perfetto antidoto per altri. (p. 76)

Ma a un certo punto affiora chiara l’eziologia della dannazione di Marie, quando restò incinta: chiesa, scuola, istituzioni pubbliche si strinsero in alleanza, in un circuito di esclusione che espulse la peccatrice Marie dal paradiso terrestre degli studi universitari e da ogni opportunità di crescita professionale, scaraventandola nell’inferno auto-inflitto di una sessualità compulsiva, dell’autolesionismo e delle droghe. Dopo il parto, persino la bibliotecaria la mette alla porta quando Marie tenta di allattare la figlia nella sala lettura dove ogni tanto, nel poco tempo libero, va a leggere riviste e biografie. Ma ecco la cacciata dall’Eden:

Quando un mese e mezzo dopo la missione di volontariato salgo sul palco per tenere il discorso di fine anno in quanto studentessa coi voti più alti di tutta la scuola, ancora non lo so. Non ho tenuto d’occhio il mio ciclo con particolare attenzione e la fine delle superiori è un periodo incasinato. I miei invitano tutti gli amici della chiesa a un barbecue in giardino per festeggiare la mia ammissione a Yale. (…) Ho pensato anche che quello che avevo fatto era sbagliato.

Gli anziani accettano le dimissioni del prete responsabile del gruppo giovani. Nella sua lettera ai fedeli della comunità dice che gli dispiace profondamente di non essere stato in grado di tutelare i minori che gli erano stati affidati, riferendosi a me immagino.

Gli anziani mi convocano per un colloquio privato, nella biblioteca. Loro nove e una ragazzina di diciassette anni. Be’, sei l’ultima persona da cui ci saremmo aspettati di veder succedere questo, dice uno. Non so quali siano state le circostanze, dice un altro, e non sei nemmeno obbligata a dircelo. Ma sappiamo tutti come sono fatti i ragazzi. Alla fine siete voi ragazze a dover decidere, a dover fare le scelte che vi permettono di mantenere la castità e la purezza.

Mi vergogno così tanto, sono talmente mortificata che lascio il mio corpo seduto lì al tavolo. (pp. 136-137)

L’autrice di Carne Viva, Merritt Tierce, è cresciuta in Texas, “in una famiglia di fondamentalisti cristiani appartenenti alla chiesa battista del Sud” (parole sue) e si è poi allontanata dal cristianesimo alla nascita del secondo figlio. Nel 2004 la Tierce ha fondato il Texas Equal Access Fund, un’organizzazione a sostegno delle donne che non possono permettersi di abortire (in Texas l’assicurazione sanitaria federale non copre l’aborto), oltre che impegnata in battaglie legali contro le restrizioni del diritto all’aborto. La sua vita, la sua militanza, il suo romanzo (con finale senza redenzione) sono la prova che le conquiste femministe dei decenni passati non sono garantite una volta per tutte e vanno continuamente rivendicate, nell’Occidente bianco come nell’Oriente martoriato. E non è questione di misura, di stare peggio lì e meglio qui. Per i diritti non c’è il cottimo. I diritti ci sono o non ci sono.

Link utili:

Un’intervista alla scrittrice

Le attività del Texas Equal Access Fund

La situazione in Italia ai tempi del Covid

 

Back To Top