L’Italia, per diventare un paese per madri, deve uccidere il mito della maternità
Non è un paese per madri di Alessandra Minello (Editori Laterza, 2022). Una recensione di Claudia Mazzilli
Un saggio di demografia che, mentre indaga le molteplici cause della denatalità in Italia, è anche un’opera impegnata nel realizzare l’obiettivo della genitorialità libera, per madri e padri: in questo libro, agile ma ricchissimo di rinvii a indagini statistiche e corredato da ampia bibliografia, Alessandra Minello esplora le trasformazioni culturali, economiche e sociali che hanno investito le famiglie italiane spingendole a fare sempre meno figli, entro il più ampio scenario europeo e globale aggiornato al 2022, ai tempi della post-pandemia e del conflitto russo-ucraino, dandoci la possibilità di riconoscerci in una fotografia appena scattata.
Negli ultimi settant’anni tutto è cambiato, in apparenza, con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro: eppure scopriamo che oggi solo il 50% delle donne italiane partecipa al mercato del lavoro retribuito e che la donna è ancora intesa, in primis, come madre. Refrattario a ogni rivoluzione economica e sociale, resistente a qualsiasi erosione, è il mito della maternità per le donne. E il mito del lavoro per gli uomini: mentre per l’uomo la nascita di un figlio può persino essere un potente acceleratore della carriera, perché i padri con l’arrivo dei figli sentono il dovere di incrementare le risorse economiche della famiglia, invece la cura della prole resta vocazione esclusivamente femminile. Un dato trasversale a qualsiasi ceto o livello di scolarizzazione: per le donne con bassa o media istruzione l’arrivo di un figlio può comportare la rinuncia al lavoro (spesso perché questo è mal retribuito e rinunciare allo stipendio della donna è più conveniente che sostenere l’alto costo dei servizi di cura non statali oppure, secondo altre teorie, perché le donne meno istruite sono meno propense alla parità di genere e più remissive nel rinunciare all’autonomia economica); ma non se la passano molto meglio le donne altamente istruite, per le quali l’arrivo di un figlio determina comunque un rallentamento della carriera, un demansionamento o una ricollocazione professionale al di sotto delle proprie aspirazioni.
La retorica della maternità come massima realizzazione della donna nella comunicazione pubblica si fa assai spesso becera propaganda, come nel caso dei continui attacchi al diritto all’interruzione volontaria di gravidanza garantito dalla legge 194; si pensi anche al Fertility Day istituito nel 2016 che, invece di dare informazioni sulla salute riproduttiva, è diventato un riproduttore di stereotipi, compreso il pregiudizio che “il bambino soffre quando la mamma lavora”!
Se fino alla metà del ’900, nella società rurale, il controllo delle nascite era poco diffuso e anzi i figli contribuivano al sostentamento della famiglia, procacciando braccia per l’agricoltura, oggi si vuole garantire ai figli un tenore di vita almeno uguale al proprio, ma la Grande recessione dello scorso decennio, la narrazione mainstream della crisi, un mercato del lavoro fatto di contratti precari e percorsi professionali tortuosi non incoraggiano una maggiore natalità. Secondo i dati Istat Famiglie, soggetti sociali e ciclo di vita del 2016 il 45,4% delle donne di età compresa tra i 18 e i 49 anni è senza figli, che sia una libera scelta o no: una quota tra le più alte d’Europa. Soprattutto, stando ai dati Eurostat, l’Italia non è un paese per madri lavoratrici: il 63% delle donne senza figli tra i 25 e i 49 anni ha un’occupazione, percentuale che scende al 59% per le donne con un figlio, al 56% per quante ne hanno due, al 42% se ci sono più di due figli.
Capitolo dopo capitolo, Alessandra Minello confronta i servizi pubblici italiani di supporto alla genitorialità con quelli di altri Paesi: manca in Italia il sostegno delle visite domiciliari dell’ostetrica per il periodo dell’allattamento, in cui è alto il rischio di depressione post partum (un servizio presente in Germania); inadeguati o insufficienti gli asili nido e gli assegni familiari; gli orari di lavoro sono poco compatibili con gli orari scolastici dei figli e con “i compiti per casa” assegnati a scuola. Tali carenze strutturali trovano una compensazione nella rete di sostegno parentale: zie, ma soprattutto nonne e nonni, che con la pensione danno un apporto economico e che mettono a disposizione il proprio tempo: una rete essa stessa riproduttrice di stereotipi (le nonne vicarie delle mamme più dei padri e dei nonni…) e destinata tuttavia a diventare sempre più fragile per l’innalzamento dell’età pensionabile (e perché si diventa nonni sempre più tardi, se si diventa tardi genitori!) e per la difficoltà a contare sui nonni in un mercato del lavoro caratterizzato da forte mobilità territoriale (se oggi il 66% degli ultraottantenni ha un figlio che abita a meno di un chilometro di distanza, questo dato potrebbe in futuro cambiare).
In alcuni Paesi (soprattutto nel Nord Europa) alla maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro si associa un welfare efficace nei confronti dell’infanzia e della famiglia: in questi Paesi la fecondità è più alta che in Italia, ma ancora inferiore ai due figli per donna. Ad esempio in Germania, nonostante la solidità dei servizi offerti alle famiglie, il numero dei figli per donna è solo di 1,6: non molto migliore che in Italia (1,3 figli per donna).
E allora? L’emancipazione femminile e il desiderio di istruzione e carriera hanno ammazzato il desiderio di figli? Non proprio, o non solo e non sempre. Qui il saggio di Alessandra Minello diventa sempre più stimolante. Se alcune pagine sembrano limitarsi a fare ordine o correggere informazioni in parte già note sugli effetti dei condizionamenti economici sulla natalità, con analisi che potrebbero non appassionare le lunàdigas convinte che la scelta di non fare figli passi anche da motivazioni intime e privatissime (dunque irriducibili alle congiunture demografiche o economiche), si passa poi ad analizzare aspetti più nascosti, zone opache che rischiano di passare inosservate.
La natalità è più elevata solo lì dove la distribuzione dei ruoli di cura all’interno delle famiglie è un po’ più equilibrata, anche se non raggiunge ancora la piena parità di genere: un cambiamento culturale che deve avvenire nel privato della coppia ed è quindi più difficile da ottenere, in tutti i Paesi occidentali, ma che vede le donne di Italia, Grecia, Romania vivere come “equilibriste” tra lavoro fuori casa e lavoro domestico di cura: una difficoltà che sembra di “conciliazione” tra lavoro e famiglia e che in realtà è di “sovraccarico”. Difficoltà che, stando ai dati, hanno persino le donne tedesche, nonostante Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, sia spesso citata come modello esemplare di emancipazione, in quanto madre di sette figli!
E sul tempo dedicato ai figli e alla casa è necessario fare delle precisazioni di ordine qualitativo oltre che quantitativo. Mentre i padri dedicano tempo ai figli in attività di gioco, supporto allo studio e in generale di relazione affettiva (percepite come più gratificanti), alle donne spetta il lavoro domestico vero e proprio e ahimè solitario (pulire, lavare, cucinare). Non senza rimozioni e autoinganni.
Un gioco ricorrente tra chi si occupa di questi temi sta nel constatare che ogni volta che si riflette pubblicamente su questo argomento c’è sempre una donna che alza la mano e dice: «A dire il vero mio marito in casa fa tutto!». Quando a questa persona si chiede: «Ma suo marito pulisce anche il bagno?», generalmente cala il silenzio, perché in quel “tutto”, ad eccezione di casi rari, sono incluse tipicamente le attività per cui riteniamo normale una divisione dei ruoli (pp. 39-40).
E quindi il “tutto” degli uomini è fare la spesa, fare qualche lavoretto di bricolage, buttare la spazzatura e intrattenere i figli per qualche oretta, il “tutto” delle donne è tutto il resto: troppo.
I ruoli di cura nella gestione della casa e della famiglia, in modo sottile e nascosto, influenzano così il mercato del lavoro retribuito e penetrano nei meccanismi di orientamento agli studi. Le donne svolgono professioni legate alla cura che sarebbero poco gratificanti per gli uomini. Le donne, che nel 1940 coprivano solo il 20% delle iscrizioni all’università e nel 1975 il 40%, nel 2017-18 sono diventate il 55%, raggiungendo così una piena parità di genere nell’accesso agli studi: persiste però il gap salariale tra uomini e donne che, vincolando la donna al ruolo di madre, fa percepire il suo stipendio come un’integrazione accessoria rispetto alla retribuzione fondamentale, che è quella dell’uomo; inoltre le donne per lo più si iscrivono a facoltà umanistiche o improntate alla pedagogia invece che alle STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, informatica) percepite come più difficili o con carriere non conciliabili con la famiglia; alcune categorie professionali sono ormai quasi totalmente femminilizzate (la maestra, la professoressa, la psicologa, l’infermiera…): sono proprio queste professioni che hanno perso prestigio, perché quando le donne sono entrate nel mercato del lavoro non avevano la stessa preparazione, esperienza e consapevolezza degli uomini in materia di diritti sindacali.
Solo poco più della metà delle donne manager in Italia ha un figlio e, se le donne madri non arrivano ai ruoli apicali, è difficile che possano nascere politiche lungimiranti di conciliazione tra lavoro e maternità. Lì dove uomini e donne accedono a una professione in modo più equilibrato, si scopre che le donne sono comunque condizionate dall’“ossessione della cura”, evidentemente una tara inconscia che ci portiamo dietro dal gioco di accudimento delle nostre bambole (il gioco è cultura!): esemplare il caso delle docenti universitarie che, oltre a subire penalizzazioni e discriminazioni di carriera legate alla maternità, durante la quale interrompono o rallentano l’impegno nella ricerca scientifica, sono destinate anche all’interno dell’istituzione accademica a lavori di cura: burocrazia, insegnamento, ricevimento e tutoraggio degli studenti…, a cui solitamente dedicano per abnegazione spontanea (o anche per segregazione orizzontale) maggiori energie dei colleghi maschi, senza che questo impegno sia valorizzato nei percorsi di carriera rispetto alle mere pubblicazioni scientifiche.
Tutto questo contribuisce a delineare e persino a rafforzare il mito della donna che, a seguito delle pressioni culturali, chiede a sé stessa di essere “accuditrice” in ogni ambito della vita professionale e privata, e il cui impegno multi-tasking si è fatalmente aggravato in pandemia, quando i confini tra lavoro di cura della prole e lavoro retribuito sono diventati permeabili per lo smart-working e la didattica a distanza dei figli, con un supplemento di stress, sensi di colpa e percezione di inadeguatezza (in parole semplici: avere tutti i familiari a casa accresce il carico delle mansioni) che resta ancora tutto da esplorare per le scienze psicologiche, sociali e demografiche. Tant’è che la perdita del lavoro nel 2020 ha inciso di più sulle donne che sugli uomini.
Ancora qualche fotografia: in Italia le famiglie con figlio unico sono la metà delle famiglie con prole, per scelta o per la difficoltà di poter programmare ulteriori figli nei tempi biologici della fertilità della donna.
Proprio perché siamo il Paese del mito della maternità, ma della maternità “al naturale”, tutta italiana come il pomodoro sulla pizza e i limoni biologici del limoncello, abbiamo divieti e tabù di ogni tipo: la maternità surrogata (un tema in verità divisivo anche per le femministe, per le implicazioni etiche legate allo sfruttamento del corpo femminile…) non è percorribile legalmente in Italia, mentre la fecondazione assistita eterologa e l’adozione sono legali ma trovano forti limitazioni, da ricercare nelle radici culturali del cattolicesimo, determinando discriminazioni tra famiglie ad alto reddito, che superano ostacoli pratici o burocratici, anche recandosi all’estero, e famiglie a reddito medio o basso, coppie omosessuali e single, che vi accedono con difficoltà oppure non possono accedervi affatto perché privi dei requisiti ed esclusi dalla giurisprudenza. Alessandra Minello giustamente osserva che leggi meno escludenti su queste materie poco inciderebbero sul piano dei numeri in termini di natalità, ma porterebbero comunque a un sano cambiamento nel mito della maternità, così attardato in Italia in una visione anacronistica nella cornice del matrimonio tradizionale, eterosessuale e connotato da forte disparità di genere.
Nell’investigare l’intreccio tra cultura e struttura, tra stereotipi socio-culturali radicati e sistema dei servizi, Alessandra Minello ricorda l’opera di scultura Family Monument che nel 2007 a Trento fu realizzata dall’artista britannica Gillian Wearing: una madre, un padre, un figlio maschio e una figlia femmina, un cane. Se già allora l’opera suscitò critiche, oggi sarebbe ancora meno rappresentativa delle molte famiglie possibili che esistono anche in Italia. Ad esempio le famiglie immigrate che, a loro volta, fanno sempre meno figli: le donne straniere, infatti, sono poco incoraggiate a procreare perché hanno uguali o maggiori difficoltà rispetto alle donne italiane nell’accesso ai servizi pubblici di assistenza e subiscono anch’esse una distribuzione tradizionale dei ruoli di cura, femminili, e di lavoro retribuito, riservati agli uomini; in non pochi casi queste donne, soprattutto quelle provenienti da Ucraina e Romania, non hanno figli in Italia perché li hanno lasciati nei paesi d’origine; come le italiane, spesso sono laureate in discipline umanistiche, nelle quali l’ostacolo della lingua si supera più faticosamente che per le lauree Stem nell’accesso al lavoro… E poi ci sono le famiglie costruite sull’omogenitorialità o sulla monogenitorialità (una famiglia su dieci è monoparentale: sono quelle più esposte al rischio povertà). E ancora: famiglie con separazioni o divorzi in cui il carico di cura non è condiviso ma diviso (il genitore, quando ha con sé il figlio, deve sopperire a tutte le sue necessità). Sono famiglie le coppie senza figli, le famiglie o coppie costruite fuori dal matrimonio (i figli nati fuori dal matrimonio sono ormai un terzo del totale), le famiglie “allargate”, le famiglie in cui il nuovo partner non ha un ruolo giuridico definito, sono “famiglie” anche i single.
I dati Eurobarometro 2019 mostrano che il 27% delle italiane e degli italiani sono contrari alla parità di diritti di persone lesbiche, gay e bisessuali, posizionandosi tra i Paesi meno inclusivi d’Europa, nonostante la comunità scientifica internazionale già dagli anni Novanta abbia dimostrato che non vi sia alcun effetto negativo della genitorialità omosessuale e, se ci sono differenze, queste sono positive, perché i figli di coppie omosessuali sono più paritari rispetto ai ruoli di genere e più inclusivi di qualsiasi differenza.
Ed era il 2009 – scrive Alessandra Minello rievocando un passato prossimo dal quale fatichiamo a emanciparci – quando Lorella Zanardo pubblicava Il corpo delle donne, un documentario in cui denunciava la rappresentazione sessista e stereotipa delle donne nei media, soprattutto in televisione. L’Italia, tuttora, non è un paese per donne: dalle violenze domestiche a quelle sui social ai femminicidi, l’odio per le donne sembra l’habitus culturale di moltissimi uomini, e poiché il 90% delle violenze avviene per mano di un familiare (partner, ex partner o parente), l’Italia resta un paese in cui la famiglia è spesso un contenitore di oppressione e violenza spesso primitiva (l’arma più usata è il coltello), niente affatto quel celebrato “rifugio accogliente” in cui si compie la “massima realizzazione possibile” di una donna, la maternità. È utile riportare anche in questo articolo il numero 1522, che permette di chiedere assistenza in caso di pericolo: un servizio predisposto dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dal Dipartimento per le pari opportunità, nell’ambito degli strumenti che danno concretezza alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.
Il libro di Alessandra Minello non manca di citare Lunàdigas come una delle comunità più impegnate a decostruire il mito della maternità e a diffondere la cultura della libertà riproduttiva delle donne. Perché la maternità non può essere tutto per una donna. E i dati raccolti sono davvero significativi: secondo l’indagine di Swell-Fer (Subjective Well-Being and Fertility) le mamme italiane sono tra le più infelici:
quando i figli sono piccoli le donne non trovano il tempo per fare una doccia, men che meno per un’uscita con le amiche e gli amici. Questi non dovrebbero essere gli standard, così come questo status di iper impegno e devozione non dovrebbe essere una medaglia da appendersi al collo nel confronto con le altre madri o con chi madre non lo è (…). A proposito di benessere, le ricerche nazionali e internazionali ci dicono che il benessere delle madri aumenta appena dopo la nascita di un figlio, ma nel lungo periodo le non madri hanno livelli di contentezza maggiori rispetto alle madri” (pp. 48-49)
Come dice il proverbio, figli piccoli problemi piccoli, figli grandi problemi grandi.
Secondo l’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro) l’uguaglianza di genere nei ruoli di cura si realizzerà nel 2066 perché le implicazioni culturali dei ruoli di cura sono assai resistenti ai cambiamenti. Nelle ultime pagine del saggio, la studiosa analizza i limiti e le potenzialità delle politiche dedicate al sostegno alla famiglia, tra cui il congedo per paternità retribuito, un dispositivo introdotto nel 2013 ma di cui solo il 33% dei padri ha usufruito (una percentuale raggiunta solo nel 2018, stando ai dati Inps): lo scarso utilizzo di questo strumento, che non pesa sui costi del datore di lavoro, si può spiegare solo in termini culturali: il papà che si vergogna di fare il “mammo”.
In una situazione di parità, di scioglimento della spirale, ogni scelta sarà meno vincolata da orientamenti ideologici, in qualsiasi parte essi spingano. Chi deciderà di essere solo madre potrà farlo, possibilmente in un sistema che faciliti tutti i percorsi che portano alla maternità. Chi deciderà di non voler essere madre non sarà giudicata. Chi vorrà essere madre e lavoratrice lo farà con più facilità (p. 115).
Soprattutto, conclude l’autrice, occorre “uccidere i miti” e avviare in famiglia, nelle scuole, in tutte le agenzie formative, un’educazione che davvero sia improntata alla parità di genere, perché la diversa educazione di bambine e bambini agisce da moltiplicatore delle differenze perpetuando gli stereotipi. L’Italia, per diventare un paese per madri, deve uccidere il mito della maternità.
Claudia Mazzilli