NONHOFIGLI. Chea – un racconto di Serena Castro Stera
La donna cambogiana che devo intervistare quando aveva quattro anni è stata concessa a
pagamento dai genitori ad uno “zio” che a sette l’ha venduta ad un bordello. A diciassette
anni è uscita di là grazie ad un membro di un’organizzazione umanitaria trovatosi a
frequentare quei porcili nel tentativo di negoziare il riscatto d’alcune bambine di appena nove
anni. Per liberarla l’uomo l’ha sposata, consenziente, in un raro momento di lucidità.
Assumeva droghe dall’età di sette anni, era tenuta in una gabbia da dove usciva solo per le
prestazioni ai clienti, alcuni dei quali particolarmente motivati dall’aggressività che lei
dimostrava nonostante l’abbrutimento totale. Così era più soddisfacente riempirla di botte e
stuprarla.
Affrancata dal suo matrimonio con un occidentale, è sparita poco dopo, rifugiandosi nella
boscaglia. Conduce una sorta di guerriglia contro la prostituzione delle bambine, ha ucciso,
evirato, bruciato e soprattutto pagato vere fortune per liberarne anche una sola. Si sospetta che
ci sia lei dietro ad una serie di furti finalizzati e molto ben organizzati ma soprattutto cerca e
trova finanziamenti legali per affrancare le schiave-bambine e ha fondato un centro di rifugio
e recupero dove le vittime liberate imparano cos’è un girotondo. Si dice che a volte, partecipi
anche lei.
Ma, si dice, non sorride mai.
Mi sono preparata, ho studiato tutto quello che si sa della sua storia, ho un percorso di
domande da porle, tuttavia vorrei lasciare molto al caso, al feeling del momento.
Quando si siede composta davanti a me però, realizzo che nessun feeling è possibile perché è
agghiacciante, è bellissima ma è oltre. Insondabile.
Così, la sola necessità che mi sorge è di riportarla in vita. Parliamo per un po’, lei quasi
sempre ad occhi bassi e sottovoce.
Infine, l’unica domanda esplicita che le pongo è la più banale e terribile.
“Lei, Chea, vorrebbe come ogni donna una vita normale, un uomo, dei figli?”
I suoi occhi sono chiodi e ogni singola parola è un martello che mi crocifigge.
“Un uomo dice? Non ho mai guardato negli occhi l’uomo che mi ha riscattato chiedendogli
perché era lì. Mi dice che frequentava il porcile per trovare il modo di salvare le bambine io
potrei accorgermi che mente, e io allora, lo ucciderei. Un uomo, dice? È impossibile.
Figli? Non ho figli, non ne avrò. A dodici anni ho partorito una femmina che ho ucciso
annegandola nelle latrine e l’unico gesto materno che davvero le dovevo era quello che ho
fatto. La sua vita era segnata, io glie l’ho risparmiata. Non mi dispiace, non ho rimorsi, la mia
esistenza andava in questa direzione. No, non vorrei mai fare dei figli, potrebbero essere
maschi.
Vita dice? Cos’è una vita normale? Forse lei lo sa, ma io non ho il tempo di pensarci. Devo
muovermi ho mille figlie da salvare. Me ne hanno rubate mille, me ne rubano ogni giorno
altrettante”
Si alza, mi fa un breve cenno col capo e si allontana.
Poso la penna. Chiudo il registratore. Guardo un pezzo del mio cuore che si contorce in Chea.
Mille figlie ha detto…
Cristo è quelle figlie e sua madre aveva quel passo.