NONHOFIGLI. ROSA – un racconto di Serena Castro Stera
Eccola quella zoza… eccola, aspetta solo che volto l’angolo della corte per inciuciare.
Con la coda dell’occhio vedo che si appoggia sulla scopa, mi fissa mentre mi allontano pronta a far scattare quella lingua da lavannara, so già che appena sarò fuori alzerà la testa verso il balcone del primo piano, chiamerà la signora Rusciano e inizieranno a parlare di me. “Uè, Marì, hai vist’a sposa? E comm’ sta !!!! Pare che s’è inghiottuto nu scupettino!” La sposa. Sono cinque anni che io e Gaetano ci siamo sposati, ma qui resti ‘a sposa finché non hai il primo figlio. E io non ne ho.
Una volta ci parlavo con la portinaia, sembrava una persona a modo, una donna semplice come tutti qui nel “palazzo” napoletano numero civico ventitré, interno otto del Corso Secondigliano. A me ha sempre messo allegria questo vivere un po’ pettegolo tutti affacciati ai balconi sul cortile e aiutarsi, passarsi il sale e stendere i panni, annusarsi gli odori e condividere comunioni, morti, matrimoni e nascite. Nascite, appunto.
In questo palazzo nascono continuamente bambini, si mangiano confetti tutto l’anno, è un fiorire di fiocchi sempre più grandi alle porte, una vera e propria gara: più grande è il fiocco, più grande è l’orgoglio e pure le nonne appendono i fiocchi, anche se il bambino è nato alle figlie o alle nuore che abitano altrove, che c’azzecca, ‘a famiglia è ‘a stessa!
Fu la portinaia a darmi le forbici con cui tagliai il nastro teso tra le due palme di buon augurio prima di entrare nel cortile il nove luglio di cinque anni fa, giorno del mio matrimonio. Ricordo che mi strizzò l’occhio e disse “Viva ‘a sposa! E come siete bella, chissà quanti belli figli avimm’a verè!”
Aggia perzino penzato che m’ha miso gli uocchi in cuollo****. Perché figli niente, né brutti né belli. E quanto lo vorremmo nu piccirillo, quanto mi rode questo corpo che non risponde. Sì, ha ragione la portinaia: mi sento come se mi fusse inghiottuto nu scupettino. Rigida. Sulle prime, abbiamo fatto l’ammore senza pensieri perché era sicuro che sarei rimasta incinta oggi o domani anche subito ci andava bene, tanto io me ne stong’a casa, sono casalinga e posso crescere ‘o criature. M’aggio comprato anche le riviste specializzate dove ti davano i consigli, fatelo così, fatelo cosà, mettete le candele intorno alla vasca da bagno, create l’atmosfera. E comme ch’o simm’ dato, come ce la siamo vista bella!! Ogni mese però, la stessa storia: puntuale ed odioso quel segnale di nulla di fatto e a me mi s’intostava ‘a nervatura e Gaetano a dire “Vabbè si scornusa pecchè hai le tue cose”. Perché lui non li doveva sopportare i sorrisini delle donne del palazzo, i racconti continui di nuovi bambini: “Sapete che la figlia della signora Lucariello ha avuto o’ quarto? E’ nu masculo, nu piccirillo accussì bellillo!”. Ecchè? Sono conigli questi, che figliano di continuo? Sulle prime tutti erano affettuosi, amichevoli e spesso ci scappava la battuta “Eh come siete sciupata Rosa, troppo lavoro eh?”. Ridevamo insieme, era bello, sapevo che era questione di poco.
Poi pian piano, hanno iniziato a s’impiccià nu poco truoppo. “State poco bbuono Rosa? Che c’è, avite qualche preoccupazione?” Il tono era strano, anche un po’ aggressivo e da ‘ntrechesse. Mi guardavano diverso. Sempre più spesso mi escludevano dai loro discorsi e si capiva la ragione: dovevano parlare di me. Come mai ancora niente? ‘A sposa non funziona? Che problemi ce stanno? Io a sbavare davanti al negozio di bomboniere, a sognarmi che scelgo un fiocco enorme e le bomboniere di Capodimonte più care da regalare a tutti e che se ne andassero affanculo. Io a tormentarmi mentre facevo i servizi in casa, a masticare lacrime immaginando la stanza del bambino, a prendere in braccio nipoti che nascevano ogni due, tre mesi, come funghi. Come mi piacciono i piccirilli! E io piaccio a loro! Stanno sempre quieti in collo a me, si vede che sentono che tengo dentro ‘na passione per loro. Mi fanno proprio salire nu calore in cuorpo. Tengo proprio bisogno di un figlio, lo DEVO avere. Sono una donna. ‘na femmena. Poi un giorno la signora Rusciano andò oltre. Ricordo ancora tutte le rughe della sua faccia mentre mi diceva con tono di confidenza “Ma vostro marito, sta bbuono, Rosa? Pecchè ci stanno tanti rimedi al giorno d’oggi” “Scusate SIGNORA RUSCIANO, ma pecchè non vi facite nu poco li cazzi vostri eh?” Da dietro le tende d’alcune finestre molte facce sbirciarono, qualcuno uscì sul balcone, la portinaia fingendo di portare un secchio apparve sulle scale. “Uè, ‘a sposa s’è incazzata! Su Rosa, pecchè v’appicciate accussì? Si fa per dire, scusate tanto” “Brava signo’ e scusatevi che è proprio ‘o caso, anzi già che ci siete, trovatevi un altro argomento per inciuciare da oggi in poi!” Da allora la mia vita qui è un inferno. Ho pianto e pregato Gaetano di cambiare pecchè accà io esco pazza. Ogni volta che entro ed esco dal palazzo, si abbassa il tono di voce, come se passasse una processione funebre ed io fossi il morto. Così mi considerano e così sono. Se non posso essere quello per cui ogni donna è nata, se non riesco a fare un figlio, sono guasta, inutile. Carne morta.
Perché è certo che la colpa è mia, sono troppo nervusa, troppo magra, troppo bassa, troppo qualcosa. O forse poco. E tengo certi uocchi ‘e pazza (ho certi occhi da pazza). Quel pover’uomo non c’entra, certo, “quellu ‘uaglione sorride sempre, saluta, è accussì educato”.
È un carabiniere, un difensore dell’ordine. Non può dipendere da lui.
‘A sposa è ‘o ‘uaio. (Il guaio è la sposa)
‘A sposa. (La sposa)
Serena Castro Stera
Il racconto NONHOFIGLI i ha partecipato anni fa al Concorso di Scrittura della Consulta Femminile di Trieste ricevendo una segnalazione. È pubblicato sull’antologia del concorso edita da Ibiskos.