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Quando La Solitudine Delle Madri Genera Mostri

Quando la solitudine delle madri genera mostri

Romana Petri, Mostruosa maternità (Perrone editore, 2022)

Recensione di Claudia Mazzilli

In Mostruosa maternità (Perrone editore, 2022, pp. 197) Romana Petri esplora un confine impalpabile, quello dove l’ordinario, il distruttivo e l’autodistruttivo si fondono, convivono e collidono nel materno: dodici madri assassine, dodici donne che danno e poi tolgono la vita ciascuna in modo diverso, usando le proprie mani o causando più o meno direttamente una morte tragica per figli o figlie.

Dodici racconti ora molto brevi ora lunghi, assai variegati nella struttura, nella scelta della voce narrante, nell’epoca (dal 1237 agli anni Duemila) e nel luogo di ambientazione (grandi città come Roma e Bologna, spaccati della vita di provincia italiana, ma anche Brasile, Jugoslavia, Lettonia…), nello stile (ora tinto di una coloritura arcaica ora vivacissimo e colloquiale, ad esempio nella conversazione di due clienti di una parrucchiera). In queste dodici storie si avvicendano madri che sono state ragazze normali (quelle da sabato sera in discoteca), popolane da film neorealista (con i loro mestieri umili e magari un po’ bruttine o non proprio giovanissime), ragazze dell’Est immigrate in Italia oppure autentiche principesse, bellissime, ricche e buone, come nelle fiabe di cui manca però proprio l’happy end. E per ciascuna è indistinto il confine tra la fiaba e la tragedia, tra l’illusione di felicità e il necrologio, tra la festa e il trafiletto della cronaca nera, tra il sogno di trovare una realizzazione nell’amore del compagno e l’incubo del ruolo di madre.

Le loro vite sono segnate da un passaggio irreversibile a una condizione che prenderà impercettibilmente i contorni del patologico, della depressione, dell’autolesionismo, della follia: imbottigliate in un vetro trasparente, quello di un ruolo che le ha isolate e ingabbiate invece di integrarle e gratificarle attraverso lo status di madre, le protagoniste troppo tardi si rendono conto di essere ormai senza via d’uscita. Non comprendono che ormai è un’altra cosa (e tremenda) lo stress di un sonno interrotto 17 volte dal pianto di un neonato, la fatica di una pappa fatta ingoiare in due ore e subito vomitata, la frustrazione per le decine di chili che hanno sformato la silhouette di una volta, o per le smagliature che compromettono possibili carriere da modella. O i bambini da accudire rinunciando allo studio, nel ménage tra casa e lavoro autogestito senza il sostegno di mariti o compagni, assenti o più spesso latitanti in quanto partner deresponsabilizzati o affamanti. E poi la delusione, le preoccupazioni e le ossessioni per un figlio che non è normale, che ha una qualche forma di disabilità.

Ma in questi racconti c’è anche il punto di vista delle figlie, le loro relazioni con le madri e con i padri, o l’invidia della madre per la figlia bella e giovane, o la gelosia della madre quando scopre che il figlio le preferisce il padre (eppure la madre è tutto!, la madre conta molto più del padre!).

È a questo punto che il mostruoso affiora nel materno, rivelandosi paradossalmente prossimo all’accudimento, quasi innato e intrinseco ad esso: e il mostruoso è il salto dalla torre, il proiettile nella tempia, il bambino annegato o fatto a pezzi. O è scegliersi un compagno violento che faccia quel che non si osa fare.

No, non è come un virus che vaga nell’aria (dice un personaggio fatalista in un racconto), non è qualcosa che poteva capitare oppure no, ma ahimé lo si respira e lo si contrae. Il mostruoso è un destino che a un certo punto si compie, che fatalmente doveva compiersi secondo una parabola ineluttabile di accadimenti. Qualcosa sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno decifra finché non esplode, e può agire senza ostacolo e senza rimedio.

Incorniciati da un prologo e un epilogo dedicati al caso di Annamaria Franzoni, la madre assassina che mai ha confessato l’infanticidio (uno dei casi di maggiore impatto mediatico), i racconti si muovono tra cronaca, fiaba e leggenda popolare, in un perimetro narrativo variabile tra notizia da TG mainstream, saga antica e realismo magico.

Le madri che uccidono sono assassine, non c’è dubbio. Ma la scrittrice sa mettere da parte il martelletto del giudice, sa abbassare il dito indice del moralista. Dentro la fiaba universale della maternità come massima realizzazione sociale e fonte assoluta di felicità femminile, Romana Petri dà voce e parole alle donne che in questo mito scoprono la truffa di una fatica logorante nella ricchezza come nella povertà, lo scandalo di un isolamento insonne sia dentro famiglie normali sia in relazioni tossiche, la scalata senza soste di doveri che portano alla malattia, alla follia, al desiderio di una qualsiasi fine senza lieto fine.

 

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