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Raccontare Storie Di Donne Per Tirarsi Fuori Dall’imbuto Di Dolore Con Una Corda Di Parole.

Raccontare storie di donne per tirarsi fuori dall’imbuto di dolore con una corda di parole.

Elianda Cazzorla, Lilith e Lola, Iacobelli, 2024

Recensione di Claudia Mazzilli

Lilith, il nome archetipico e certamente impegnativo della prima moglie di Adamo. Lola, un nome pop e un po’ frivolo: due nomi in reciproca compensazione, che ben si adattano alla leggerezza di una penna lieve e sorridente e alla profondità dei temi, dei sentimenti, dei momenti restituiti in narrazioni brevi e sfavillanti.

Per chi ama leggere racconti, e soprattutto storie al femminile, non posso non consigliare l’ultimo libro di Elianda Cazzorla, Lilith e Lola (Iacobelli, 2024), che raccoglie “diciotto racconti per una storia”. Storie esili, delicate e forti, drammatiche ed esilaranti, ritagliate nel quotidiano, cucite insieme con il filo dell’ironia (e della buona scrittura) e affidate a un io narrante mobile: Anna, Lucia, Marina, Arianna, Mimma, Luisa, Emma, Zoe, la stessa Lilith…

Sono donne nate negli anni Cinquanta, in un’epoca di certezze esistenziali non ancora abbattute (ma già con molte crepe) quanto alle aspettative, ai sogni, ai desideri delle donne. Insomma, i famosi e famigerati stereotipi. E poi ci sono anche le loro figlie e i loro figli: figlie lesbiche, figlie queer, figlie che non vogliono pelare le patate e non vogliono una vita da femmina; e poi il figlio macho o il figlio larva

Donne che sono passate dal desiderio etero-diretto del principe azzurro al dilemma amletico, ma tutto pratico, se darla o non darla (darla!).

E lei si abbandonò e… lui entrò in quella fessura d’ostrica per cogliere la perla. E la colse. Luce vivida nel cielo. Un tuono rombò nel mare.

– Oddio, cosa hai fatto? – ella urlò.

Lui non rispose. E mentre si rivestivano a lei sovvenne Giulietta al balcone e al balcone si aggrappò.

– Mi ami tu? So che dirai di sì, ed io ti crederò… O gentile Romeo, se mi ami, dimmelo veramente…

– Ma certo Anna, cosa vai a pensare. (p. 41)

E così si passa dalle telefonate al telefono fisso – quel pezzo di archeologia con i numeri da comporre sulla rotella, superando il filtro di genitori e sorelle che rispondevano al posto della persona con cui si voleva parlare – alla ricerca più disincantata di un compagno occasionale attraverso i social, tra nickname, schermaglie e foto ben scelte.

Donne stigmatizzate come adultere che divorziano e temono di perdere l’affidamento dei figli. Donne che conoscono la malattia nelle sue varie forme; donne che hanno imparato sulla loro pelle, nel loro ventre, cosa sia la maternità, che non è uno status né un vademecum di biberon, pappe e ninne nanne puntuali. Ma è relazione.

Vedrai cosa vuol dire avere un figlio! Signora Laura, bisogna esser mamme per capirlo, quando è nata Marina non c’era mica tutta questa roba, fili, ventose, pennini, si partoriva in casa ed era un fuggi-fuggi con bacinelle d’acqua calda e panni di lino da cambiare, mi ha dato filo da torcere, sa! Meno male che c’era la signora Stella, la mammana del paese, quanti bambini ha fatto nascere, ora… …E le parole son lontane, sempre più lontane e ovattate come se ci fosse qualcun altro ad ascoltarle… sorrido, accenno qualche sì e mi assopisco. Qualcuno mi scuote. Cosa fai, dormi? Ascolta. Mi hanno detto che bisogna comprare: quattro biberon di vetro, lo sterilizzatore a caldo, le tettarelle, la pasta di Fissan, i pannolini. Deve essere tutto pronto al rientro. Devo portare il baby-pass, una copertina e un ricambio completo. Spero di non dimenticare nulla. Ah! A proposito, ha telefonato la tua amica, Mimma, ti manda tanti saluti, mi ha detto di dirti di stare tranquilla e di pensare che tutte le altre donne lo hanno fatto. Sì, tutte! Tutte. Tutte. Tutte. Ripeto. (p. 58)

C’è poi l’emancipazione dal corredo delle tovaglie da lavare stirare piegare. Evviva le tovaglie di plastica!

Sono le undici, mi fermo in merceria e compro cinquantaquattro bottoni per le federe del corredo. Saranno vent’anni che devono essere attaccati. Dice mia madre. Venti. E le federe sono ancora nuove e hai anche ventiquattro tovaglie. Quando le userai? (p. 119).

E uomini ancora titubanti, presenze diafane nei racconti, uomini a cavalcioni tra secondo e terzo millennio che stentano a trovare un’identità, o anche solo un galateo di corteggiamento (come quello dei personaggi Teflon e Quasar: Non inviare frasi lamentose. Mantenere spazi di segretezza. Non rispondere sempre subito, e così via…).

Nove protagoniste dentro una cornice narrativa originale: Lilith, che sente il bisogno di riscoprire relazioni umane autentiche, incontra Lola, un po’ cartomante e un po’ fattucchiera, una donna con un cappello a cilindro e un boa di piume di struzzo azzurre intorno al collo, seduta davanti a un tavolino rosa. Lola, in un gioco di carte doppie, Paso doble, incoraggia Lilith a recuperare le storie delle sue compagne di liceo, di cui ha perso le tracce nella corsa continua del vivere quotidiano, nella solitudine che si è scavata, con qualche inclinazione alla depressione. Dice Lola a Lilith:

Paso doble. Lei si concentrerà sull’amica che desidera contattare, pronuncerà il suo nome e in base alle due carte che verranno fuori dal mazzo conoscerà i frammenti della vita di Anna, Marina, Lucia, Zoe, Arianna, Emma, Luisa, Mimma. Prima però lei deve uscire dalla solitudine con determinazione (p. 17).

A ciascuna delle nove protagoniste sono dedicati due soli racconti: ma ogni dittico illumina un’intera esistenza ed è un romanzo potenziale, che non serve raccontare per intero ma si costruisce per sottrazione, o si espande per dilatazione. Come cerchi concentrici che si allargano a poco a poco in uno specchio d’acqua, e lasciano intravedere movimenti via via più lontani o più profondi.

Il lago si mostra ai suoi occhi, ha gli argini irregolari, in fondo un canneto. Le increspature a squama di pesce che luccicano e poi cerchi concentrici, piccoli vortici che sembrano un’eco di movimenti interiori, appena sotto la superficie. Immagina creature invisibili in movimento, mentre entrano nel suo cono d’osservazione, in fila indiana, sette piccole anatre guidate da una più grande. La madre è vertice del triangolo d’acqua che si allarga dietro la sua coda. Le pieghe del lago si moltiplicano quando altre quattro anatre arrivano, barchette solitarie, da punti diversi. E si creano nuovi triangoli d’acqua accanto ai cerchi concentrici. Lo specchio verde diventa una lavagna per esercitazioni geometriche. (p. 91)

Senza scomodare Giovanni Boccaccio (Il Decamerone…), o Italo Calvino (Il Castello dei destini incrociati, Se una notte d’inverno un viaggiatore), la struttura dell’opera non serve solo a confezionare i racconti in una bella architettura compositiva. Ci dice tanto di un’epoca, di una generazione di donne, della musica che attraversa i decenni (sui dischi quarantacinque giri, nelle feste fatte in casa sotto la sorveglianza di un padre semi-vigile, poi nelle discoteche… e infine nei corsi di danze folkloriche di donne che cercano soprattutto occasioni di amicizia e sorellanza…). E tanto ci dice della diaspora che è l’esistenza di tutte noi. Ognuna di noi, con le nostre compagne di classe, disperse nel mondo come una manciata di semi.

O come un mazzo di carte che non sono né quelle napoletane né i tarocchi: un mazzo di decine e decine di fotogrammi che si apre, si mischia e si rimischia, in una ricombinazione ininterrotta, che dà la possibilità di rimettere a contatto, per un paio di istantanee, nove esistenze incarnate nel contingente, nove storie che hanno il sapore del vero. Una metafora aderente alla vita, al suo rimescolamento continuo, alla casualità degli incontri e alle velleità dei ritorni che non sempre possiamo governare.

Ma, come scrive Elianda, è sempre possibile “riuscire a tirarmi fuori dall’imbuto del mio dolore con una lunga corda di parole”. E ogni racconto è una corda tesa, che tiene unite le vite delle donne.

Per approfondire:

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Elianda
2 ore fa

Meravigliosa recensione. Può l’autrice scorgere nella lettura di un’altra donna quello che non aveva immaginato? Può! Però ci devono essere lettrici attente, sensibili e intelligenti come Claudia Mazzilli. Grazie per avere colto lo spirito dell’architettura dell’ibrido, un testo che può essere questo e anche quello, ancora una volta qualcosa che può essere altro!

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