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“Scrivere è Sempre Un Atto Politico”

“Scrivere è sempre un atto politico”

Ramona Onnis (In viaggio verso un figlio, Meltemi 2024) esplora le scritture sulla procreazione assistita e il docufilm di Lunàdigas, con uno sguardo interdisciplinare e inclusivo, tra medicina, letteratura, scienze sociali, diritti riproduttivi di chi desidera generare e di chi rivendica la libertà di non riprodursi.

di Claudia Mazzilli

Recensire libri per una biblioteca lunàdiga è un’avventura d’incontro e accoglienza, in cui teniamo insieme opere diverse, senza distinguere tra storie vere e storie inventate. Sullo stesso scaffale digitale abitano il saggio di sociologia o di filosofia e le testimonianze di attivistə. “Storie” (questo è il titolo della nostra pagina) che attraversano le credenze e le utopie, gli stereotipi e il loro superamento. Libri che intrecciano vita incarnata e immaginario, personale e politico, materialità della singola esistenza e tendenze demografiche generali. Non vogliamo istituire gerarchie. Riteniamo che queste tassonomie siano proprie del pensiero patriarcale. Oltretutto non siamo delle specialiste, leggiamo e scriviamo per aprire confini permeabili tra i saperi, con un approccio il più possibile divulgativo, rivolto a lunàdigas curiose come noi. I libri sono solo una piccola parte della nostra esplorazione, rivolta in primis alle testimonianze dirette (l’Archivio vivo), ma anche alle arti visive (Prendo pArte!): in qualsiasi modo lo si faccia, con la scrittura, con una scultura, con la parola parlata davanti a una telecamera, raccontare è un gesto politico”.

Sì. “Raccontare è un gesto politico”: lo ribadisce Ramona Onnis, autrice di In viaggio verso un figlio. Raccontare la procreazione assistita (Meltemi, 2024): un’opera che, sia pure con i filtri più esperti di uno studio accademico, utilizza un metodo che abbiamo sentito affine al nostro. Il libro nasce dall’impulso di creare conoscenza intorno alla “ferita” dell’infertilità e alla procreazione medicalmente assistita (Pma), che in Italia è regolata dalla legge 40/2004. Tale legge è stata aggiornata da quattro sentenze della Corte costituzionale e da una sentenza della Corte europea dei diritti umani; dal 2014 è possibile anche la fecondazione eterologa, ma permane un’impostazione conservatrice: la Pma resta preclusa a donne lesbiche e single, costrette a un “esilio riproduttivo” nelle cliniche estere (in Francia invece dal 2021 alla Pma possono accedere anche le donne sole e le coppie lesbiche).

Anche a voler analizzare soltanto le emozioni e il vissuto delle coppie eterosessuali, affiora uno spettro di esperienze variegato: al di là delle diagnosi di patologie più o meno gravi (malattie autoimmuni, tumori, endometriosi ecc.), sono sempre di più le coppie che intraprendono la Pma perché difficoltà economiche e lavorative portano le donne a posticipare la maternità a momenti del ciclo biologico in cui la fertilità si riduce fisiologicamente; altre cause sono ancora poco considerate: tra queste c’è la connessione tra infertilità e questioni ambientali, che incide notevolmente sulla fertilità maschile. D’altronde i percorsi di Pma sono molteplici, alcuni più “naturali”, altri più complessi (la fecondazione eterologa; la crioconservazione…): alcuni trattamenti sono coperti dal servizio sanitario nazionale, altri sono prerogativa di centri privati. Diversificate, quindi, sono le prestazioni, che possono comportare notevoli sacrifici economici, non sempre coronati dal successo (molte donne e coppie credono ingenuamente che la scienza e la tecnica “tutto può” o ignorano rischi ed effetti collaterali dei trattamenti, quali ipertensione, diabete gestazionale, gravidanze multiple…). L’intersezione di razza, genere, classe ricade pesantemente anche nella procreazione assistita, con esperienze plurali e disomogenee.

Ramona Onnis ha selezionato alcune opere narrative che raccontano la Pma: romanzi di scrittrici, ma non solo; sono presi in esame anche il docufilm di Lunàdigas, scelto dai Festival di 27 Paesi, il progetto multimediale dell’Archivio Vivo (ne parleremo più avanti) e il film di Paolo Virzì, Tutti i santi giorni (2012), che mette in relazione il desiderio di procreare e la precarietà del mondo del lavoro. Quella di Ramona Onnis è dunque una ricerca interdisciplinare, che va ben oltre la critica letteraria e confronta il modo in cui le scrittrici narrano la Pma con i dati messi a disposizione dalle scienze sociali e dagli studi medici e psicologici. E veniamo ad alcuni dei testi studiati: le autrici stesse, interrogate sul rapporto tra esperienza autobiografica e carattere finzionale della propria opera, si posizionano ciascuna in modo diverso. Annarita Briganti (Non chiedermi come sei nata, Cairo, 2014) considera la propria opera un memoir la cui protagonista, Gioia, è alter ego dell’autrice. Antonella Lattanzi, in Cose che non si raccontano (Einaudi, 2023), narra la sua esperienza di procreazione assistita, la dolorosa perdita dei tre feti già considerati figli e chiamati ciascuno col proprio nome, la violenza ostetrica subita, le complicazioni che hanno messo a rischio la sua vita (con un’embolizzazione e un’isteroscopia operativa). L’autrice, pur raccontando una vicenda autobiografica, ne rivendica la letterarietà oltre la dimensione puramente testimoniale: “scrivere un romanzo non è mai lasciarsi andare, è sempre un tenere le redini molto tese”, dichiara nell’intervista che chiude il libro di Ramona Onnis. Ricca di umorismo è la scrittura di Eleonora Mazzoni (Le difettose, Einaudi, 2012), in cui l’esperienza personale è filtrata da un alter ego, Carla Petri, per evitare l’eccesso di autobiografismo (infatti Mazzoni è madre di due bambini concepiti con la Pma; invece l’alter ego Carla Petri rinuncia a realizzare il suo sogno di maternità). Giorgia Surina (In due sarà più facile restare svegli, Giunti, 2022), che dichiara di essersi ispirata alla vicenda di un’amica, compone invece un romanzo a due voci, con protagoniste due amiche single che decidono di affrontare insieme il percorso della Pma; e anche quando ritornerà il compagno di Gaia, sarà l’amica (Bea) a orientarne le scelte. A Ramona Onnis non sfugge che quello del controllo invadente dell’amica è un aspetto problematico nel romanzo, che però sembra voler ricreare un doppio ordine simbolico femminile (su cui hanno scritto Luce Irigaray e Luisa Muraro): in orizzontale attraverso la sorellanza, in verticale attraverso la matrilinea madre-figlia. Maddalena Vianello, esperta di politiche di genere, è autrice di In fondo al desiderio. Dieci storie di procreazione assistita (Fandango, 2021): tra queste storie c’è quella autobiografica dell’autrice, ma spiccano anche la storia di Marilena e Laura (una coppia lesbica che ricorre alla fecondazione eterologa in Spagna) e la vicenda di Tina, affetta da una grave forma di endometriosi, che comporta la rimozione delle ovaie e una menopausa precoce (qui Pma, affidamento e adozione si intrecciano come soluzioni possibili al desiderio di maternità).

Lo studio di Ramona Onnis ha a che fare con la “medicina narrativa”, che si sta lentamente radicando nelle università italiane e che è stata inaugurata nei primi anni Duemila dai lavori dell’internista americana e studiosa di letteratura Rita Charon, che la considera “un’attività di cura che si forma attraverso la pratica della lettura, della scrittura, della narrazione e della ricezione” (p. 19). Nell’ambito delle Medical Humanities, in cui medicina e letteratura s’incrociano secondo vari approcci e filoni, spesso l’area medica ha finito col prevalere, con la sua dimensione asettica. Ramona Onnis intende appunto ribilanciare la riflessione con il contributo della dimensione letteraria, per valorizzare sia l’empatia e la relazionalità nel percorso di cura sia l’agentività della parola delle scrittrici rispetto ai saperi patriarcali. Infatti anche quello della medicina ufficiale è un discorso maschile, con il suo corredo di asimmetrie di potere e di genere.

Ad esempio, per la fecondazione eterologa, è interessante confrontare le narrazioni delle scrittrici con i dati degli studi psicologici. La scelta di affidarsi a donatori esterni alla coppia può essere dolorosa, per la mancanza del legame biologico con il figlio o perché implicherà la difficile decisione di parlargli o no delle sue origini. L’importanza data alla genetica tende comunque a scemare man mano che si consolidano i legami relazionali tra genitori e figli e, quando una figlia o un figlio vuole scoprire chi è la donatrice o il donatore di ovociti o spermatozoi, questa ricerca è orientata a una definizione della propria identità e non comporta la delegittimazione dei propri genitori: è il caso di Jessie, nato da ovociti donati da Antonia a Myrtha, nel romanzo di Antonella Sarchi Il dono di Antonia (Einaudi, 2020). Questo tema, ancora poco frequentato in letteratura, è stato approfondito da neuropsichiatri infantili, pediatri e psicologi, per alcuni dei quali il diritto a conoscere le proprie origini è inalienabile, mentre per altri prevale il diritto dei genitori a mantenere il segreto. La questione ha importanti implicazioni giuridiche: in Italia la norma prevede l’anonimato del donatore e, anche se dal 2015 l’Istituto Superiore di Sanità ha istituito un registro nazionale dei donatori per la Pma eterologa, tuttavia, a causa di non poche lacune normative, non è ben disciplinato l’accesso alle informazioni da parte dei nati da Pma, ad eccezione di quelle strettamente sanitarie. E siamo al cuore del problema: secondo studiosi come Irène Théry e Carlo Flamigni bisognerebbe considerare la Pma non solo come una terapia dell’infertilità ma come una nuova forma del generare, che culturalmente produce un altro modello di genitorialità, superando così l’opposizione tra il genitore biologico e quello psicologico (p. 121 e note 60-62).

Più in generale, i protocolli di Pma troppo spesso vedono trionfare la tecnica, marginalizzando la dimensione umana e psichica, che proprio le arti e la letteratura possono rimettere al centro, riportando le pratiche mediche a una visione umanistica, senza creare barriere tra racconti di scrittrici, rielaborati o inventati, e narrazioni puramente testimoniali. Nelle opere letterarie esaminate il corpo è sempre al centro, mai disgiunto dalla sua parte emozionale. Il sangue è un motivo ricorrente, contro ogni tabù che da millenni lo lega alla tossicità e impurità. Come osserva Ramona Onnis citando la filosofa francese Camille Froidevaux-Metterie, tali scrittrici contribuiscono a una “svolta genitale femminile”, emancipandoci dal pensiero patriarcale (p. 34). Le scrittrici, insomma, concorrono a costruire quella filosofia della narrazione di cui parla Adriana Cavarero (Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Castelvecchi, 2022 e Donne che allattano cuccioli di lupi. Icone dell’ipermaterno, Castelvecchi, 2023): uno spazio di parola relazionale, aperto all’alterità, il cui soggetto è la vita unica, irripetibile e incarnata nel contingente, contro l’universale maschile e astratto.

Dalle narrazioni emerge il senso di vergogna che provano le donne nel ricorrere alla Pma: le donne la vivono in solitudine, per evitare lo stigma tipico della mentalità tradizionalista cattolica, per la quale riproduzione e sessualità sono tra loro inseparabili, ma anche a causa di un dibattito pubblico che confonde o sovrappone Gpa (gestazione per altre/i) e Pma (procreazione medicalmente assistita), a volte agitando i fantasmi delle derive transumanistiche, eugenetiche e di mercificazione neoliberale del vivente. Preoccupazioni che è bene porsi, ma che non devono mettere le tecnologie e le loro applicazioni tutte sullo stesso piano, con il rischio di ricadere in una visione essenzialista della maternità (pp. 41-49). Citando Rosi Braidotti (p. 44), Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti, in nome di una nuova soggettività politica femminile Ramona Onnis auspica che questa letteratura contribuisca ad aprire una terza via: “accogliere la sfida del mutamento portato dalle tecnologie, senza nessuna nostalgia del corpo-natura a cui eravamo condannate, ma neanche voler fuggire dalla corporeità” (p. 65). È interessante che nessuna delle protagoniste di questi romanzi si affidi alla tecnica in modo acritico (pp. 49-54); queste donne denunciano sia l’ipermedicalizzazione sia la violenza ostetrica, che passa nel linguaggio asettico (“riduzione embrionale”; “materiale abortivo”…), o attraverso giudizi colpevolizzanti da parte del personale medico (alle assistite, ad esempio, si rimprovera di essersi decise troppo tardi a mettere su famiglia!), o attraverso procedure inopportune (collocare negli stessi reparti le donne sofferenti per l’infertilità e quelle che hanno appena partorito contribuisce a far sentire le prime sbagliate, difettose…).

Significativi sono soprattutto i racconti delle scrittrici che mettono a fuoco l’inconciliabilità del lavoro produttivo (la professione che svolge la donna in Pma) e del lavoro riproduttivo, spesso invisibilizzato, come nota la sociologa Irène-Lucile Hertzog (p. 62 e nota 117): sì, perché diventa un vero e proprio lavoro fare analisi cliniche e sottoporsi a trattamenti ormonali e farmacologici che assorbono tempo ed energia e che richiedono una programmazione assai puntuale, calendarizzata in settimane, giorni, ore e minuti! Lo stress talvolta porta le donne ad atteggiamenti recriminanti persino verso il partner, le cui emozioni sono trascurate perché le tecniche di Pma coinvolgono l’uomo in modo meno invasivo, con la conseguenza che gli uomini provano sentimenti di esclusione, con perdita di autostima e sensi di colpa (pp. 143-152). Anche nei casi in cui si rinuncia alla procreazione si vive un dolore invisibilizzato, come notano le sociologhe, psicologhe e psicoterapeute citate da Ramona Onnis (p. 70, note 147-150): rispetto ai lutti socialmente accettati, perdere quel che non si è mai avuto (un figlio mai esistito) è un’esperienza che trova scarsa comprensione e accoglienza.

Spesso le protagoniste non sono disposte a delegare il controllo di sé o, dopo essersi affidate per anni a procedure alienanti pur di raggiungere l’obiettivo di un figlio, sentono il bisogno di riprendere le redini del proprio corpo, ormai da troppo tempo agito da altri, anche rinegoziando i propri progetti di vita e relativizzando il desiderio di un figlio. Queste narrazioni, dunque, mettono al centro il concetto di “limite”: è il limite che ognuna sente di non poter superare, anche se la fine dei trattamenti non comporta “un restaurarsi dello status quo ante” e “il corpo resta ferito” (p. 70; pp. 165-167). Un limite non normativo né assoluto: un limite che è posizionato e rafforza l’autodeterminazione, a dispetto di chi crede che essere madre significhi essere conformi all’archetipo della mater dolorosa, e maternità sia sempre disponibilità naturale al sacrificio, al dono di sé, inclinazione femminile innata persino nella procreazione assistita. Per le stesse ragioni, quando l’obiettivo di essere madri è raggiunto, le donne che hanno fatto ricorso alla Pma più delle altre madri non osano lamentarsi del carico di cura gravoso che la genitorialità comporta e, per usare le parole della psicologa Valentina Berruti, la credenza diffusa è “che, se hanno desiderato tanto un figlio, non dovrebbero lagnarsi della fatica che ne consegue” (p. 122 e nota 65). Ma anche queste madri soffrono di ansia da prestazione e, per dirla con il titolo del saggio di Orna Donath, possono “pentirsi di essere madri”. Sentimenti misti di fatica, senso di colpa e solitudine hanno ispirato ad Antonella Lattanzi un altro libro, Questo giorno che incombe (HarperCollins, 2021), in cui una madre non sa più se vuole esserlo e nel contempo si rimprovera di aver posticipato troppo la maternità per privilegiare la carriera. Lattanzi d’altronde non nutre alcuna speranza in una rivoluzione culturale foriera di ruoli di genere nuovi e alternativi e resta convinta che in Italia maternità e realizzazione professionale siano destinate ancora a lungo ad escludersi a vicenda. Silvia Ranfagni invece nel romanzo Corpo a corpo (E/O, 2019) propone un modello di madre single, benestante, narcisista, che decide di fare un figlio con la Pma per capriccio, per mera gratificazione personale. In tal modo l’autrice tenta – con qualche incertezza, comune ad altre autrici – di rovesciare il paradigma patriarcale della maternità sacrificale e appagante.

Nei testi esaminati da Ramona Onnis, a conferma di quanto sostenuto da psicoterapeute e psicologhe come Laura Marcone e Alessia Greco, le protagoniste che si cimentano nella Pma non immaginavano quanto potesse essere estenuante (pp. 63-64). Su un versante squisitamente letterario, Ramona Onnis esamina le metafore usate. L’infertilità come viaggio. O come malattia da curare: queste narrazioni possono essere accostate alle patografie (fiorite negli ultimi decenni, da quando la malattia non è più sentita come un evento ordinario e può entrare nella narratività), anche se l’infertilità non sempre dipende da una patologia ma da cause fisiologiche legate all’età e, oltretutto, nel corpus letterario analizzato da Ramona Onnis, non sempre è considerata una malattia dalle protagoniste (p. 69 e p. 80). Degne di nota sono le metafore belliche (guerra, battaglia, nemico…), sulle quali già Susan Sontag (La malattia come metafora. Aids e cancro, Einaudi, 1979, tr. it.) aveva aperto una riflessione critica, allo scopo di non sovraccaricare il malato di responsabilità e sensi di colpa, e su cui di recente ha scritto Daniele Cassandro (Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore, in “Internazionale”, 21 marzo 2020): un linguaggio che “ci rende ubbidienti, docili e, in prospettiva, già vittime designate” (p. 68). Ramona Onnis analizza anche lo stile di queste scritture, spesso franto e carico di silenzi, con narrazioni non lineari, ricche di flash-back e anticipazioni o con scelte pronominali originali (dall’io al tu, come nel romanzo di Silvia Ranfagni, Corpo a corpo), o con ibridazioni tra romanzo e saggistica (Maddalena Vianello, In fondo al desiderio): tecniche narrative tipiche del “narratore ferito” e della “narrazione caotica”, che è il tentativo di dire l’indicibile (le definizioni sono di Arthur Frank, The Wounded Storyteller – Body, Illness, and Ethics, University of Chicago Press, 1995).

Scrivere non sempre fa guarire ma, come dichiara Antonella Lattanzi nell’intervista finale (pp. 183-190), permette di non soccombere al dolore. Per molte autrici scrivere è anche il modo di costruire comunità solidali di donne: creare conoscenza intorno a maternità, infertilità, genitorialità; reagire a narrazioni edulcorate che lasciano nell’ombra o nel buio, nel silenzio dell’indifferenza o della vera e propria censura, altri modi di diventare ed essere madri e padri, o di non riuscire a diventarlo, o di non voler essere affatto genitori. Sono scritture che invocano una maternità/non maternità desiderante (e a proposito di maternità desiderante, anche noi, come Ramona, vogliamo citare il bel numero della rivista Leggendaria n. 161, settembre 2023).

Il viaggio di Ramona Onnis si chiude con le pagine dedicate a Simonetta Sciandivasci (I figli che non voglio, Mondadori, 2022) e al progetto multimediale di Lunàdigas, con un capitolo dedicato alle nostre attività e un’intervista a Nicoletta Nesler. Un approfondimento che non trascura i rigurgiti patriarcali e le politiche regressive che, in questi anni, minacciano i diritti delle donne e che vuole partire proprio dalla parola lunàdigas, un lemma che afferma invece di negare (a differenza di formule come childfree, childless, “senza figli”, “che non vogliono…”). In tal modo la rappresentazione dei desideri delle donne non è unilaterale (rivolta cioè solo alle donne che desiderano un figlio nonostante le diagnosi di infertilità) ma include anche le donne che si sentono complete senza aver generato, perché figli non ne desiderano in nome dell’autodeterminazione, e non per ragioni socioeconomiche. Si supera, dunque, la facile dicotomia tra le une e le altre nullipare, quelle che non riescono ad avere figli e quelle che non li vogliono; diverse ma entrambe difettose e inadempienti: “nullipara” è d’altra parte un termine della veterinaria “fortemente stigmatizzante che riduce la donna alla sua posizione nell’ordine della riproduzione” (p. 35). Perché è patriarcale il bipolarismo che oppone le donne afflitte dalla “malattia del vuoto” (p. 29) e quelle che non sentono il desiderio di figli. Per questo – lo ripetiamo ancora – “scrivere è sempre un atto politico”, che lo si faccia sulla spinta della testimonianza diretta o della creazione letteraria, senza alzare muri tra chi agita il vessillo del proprio vissuto e chi crea, senza produrre chiusure identitarie che rischiano di precipitare le donne nella reciproca incomunicabilità. Come Antonella Lattanzi, crediamo che non “si debba scrivere di ciò che si è vissuto, ma di ciò che si è provato”, anche con le risorse dell’empatia e dell’immaginazione.

Con la recensione di Claudia Mazzilli prosegue la nostra collaborazione con Ramona Onnis, che abbiamo incontrato a Parigi. Ramona Onnis, di origine sarda, è professoressa associata di Italianistica presso l’Université Paris Nanterre; i suoi interessi di ricerca vertono sulla rappresentazione del corpo della donna e della relazione tra maternità e tecnica. In occasione del mese dell’egalité, a inizio marzo 2024, ha desiderato organizzare nell’università in cui insegna la proiezione del docufilm Lunàdigas ovvero delle donne senza figli e la presentazione dell’Archivio Vivo. Il suo generoso invito è stato accolto dal collettivo di Lunàdigas con grande entusiasmo. Promuovere l’indagine sui temi dei diritti riproduttivi attraverso l’Archivio Vivo, cuore pulsante di Lunàdigas, rappresenta uno degli obiettivi più alti della nostra ricerca che si nutre dello scambio con autrici, esperte, studiose e testimoni.

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