Biglietto blu di Sophie Mackintosh. Una recensione di Claudia Mazzilli
Sophie Mackintosh racconta in Biglietto blu quando è lo Stato a decidere chi può avere figli
A chi ha amato Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie, 2017), consiglio un altro romanzo sul tema del controllo del corpo delle donne: Biglietto Blu (Einaudi, 2021) di Sophie Mackintosh (nata in Galles nel 1988 e residente a Londra).
Una distopia forse più sottile e minimalista, senza la costruzione articolata di ruoli e gerarchie che c’è nel romanzo della Atwood, ma altrettanto avvincente: al menarca, le bambine si vedono assegnare da una lotteria impersonale un biglietto bianco (che significa matrimonio e figli) o un biglietto blu (una vita libera in tutto, col solo divieto di procreare). Da allora i destini delle une e delle altre si divaricano per sempre in una sorta di apartheid. Per tutto il resto quella del romanzo può apparire una società dotata di un efficiente welfare e tutto sommato libera, dove anche la bisessualità sembra diffusa e accettata come una cosa normale, eppure basta quell’unico divieto inerente la libera maternità a suscitare in chi legge un senso di oppressione claustrofobica. Con una penna essenziale e sicura Sophie Mackintosh rappresenta una società repressiva e totalitaria nella quale, attraverso i medici, si esercita un controllo non solo sui corpi delle donne ma persino sui loro pensieri e sogni notturni (gli uomini sono invece liberi di frequentare una biglietto bianco o una biglietto blu). Una rappresentazione sociale che sembra formarsi dalle sue pagine senza fatica e senza sforzi di fantasia, in un Paese che resta anonimo, perché le ingerenze nel privato delle donne sono sempre ad un palmo di naso da noi nel passato, nel presente e nel futuro (dalla politica del figlio unico in Cina, smantellata dopo 40 anni, alle restrizioni del diritto all’aborto in tanti paesi del mondo…).
Calla, la protagonista, è convinta di non essere propensa alla maternità, all’empatia, all’accudimento. Quando ottiene in sorte il biglietto blu ne è felice. Persuade sé stessa che ci sia una logica nell’assegnazione del biglietto (in realtà tutto è casuale), anche per giustificare i tanti esami medici a cui è stata sistematicamente sottoposta. Finché non sente affiorare in lei il desidero di maternità, che all’inizio sembra un capriccio, il gusto del frutto proibito, poi diventa un potente sentimento oscuro che giunge alla frenesia, al delirio, al feticismo quando vede bambini piccoli, o addirittura la spinge nei negozi di prodotti per l’infanzia o la induce a cullare bottiglie o calzettoni pieni di farina come fossero neonati.
Calla riesce clandestinamente a rimuovere la spirale che le era stata impiantata senza che potesse scegliere, come a tutte le biglietto blu. La forza della scrittura di Mackintosh è nel descrivere situazioni paradossali e surreali con asciutta e cruda verosimiglianza. Ecco dunque che la scena in cui Calla si strappa la spirale non può non ricordare per analogia la pratica di un aborto clandestino. Ogni cosa, in questo romanzo, assomiglia al suo contrario. E ogni aberrazione, ogni degradazione, ogni imposizione è già qui, ad un passo da noi. Calla frequenta un uomo, si fa mettere incinta con l’inganno, gli propone poi di sfidare la legge, ma sarà abbandonata dal compagno. Quando la pancia comincia a crescere viene scoperta: sarà bandita dalla casa dove risiede, tramite un emissario che le porta una busta gialla. L’episodio in cui le donne del quartiere assistono alla comunicazione del pubblico ufficiale e si trasformano in belve rabbiose, distruggendo la casa di Calla, ha la forza di una lapidazione arcaica. Ma questa pagina del romanzo molto dice su quanto le donne possano essere le peggiori nemiche delle donne, le più ostinate sentinelle di un patriarcato gretto, ottuso, opprimente.
In seguito Calla si accamperà in una baracca con altre donne in fuga. Tre incinte, biglietto blu come lei; un’altra invece è una biglietto bianco che ha abortito illegalmente, anche lei vittima di un sistema che toglie alla donna la libertà di scegliere. Una figura essenziale per comprendere che il destino delle une e delle altre è in realtà lo stesso: la negazione del diritto alla scelta. Non una parola di più sulla trama, che non merita spoiler e semplificazioni. Ma mai in questo romanzo le donne sono davvero solidali tra loro. Ciascuna è bestia alla ricerca delle radici profonde di una bestialità e di una carnalità negate, in un’esplorazione forsennata del mistero della propria fecondità rimossa o imposta: tutte sono sole, la solidarietà è fugace, transitoria, legata alla sopravvivenza.
“Ero un animale femmina a sangue caldo. Ero una bambina con un’altra bambola dentro. Ero il pollo che un giorno avevo aperto scoprendo che per sbaglio gli avevano lasciato dentro lo stomaco una sacca perlacea ancora piena delle granaglie del suo ultimo pasto” (p. 91)
Calla infatti, una volta espulsa come una criminale, inizia un viaggio erratico, nascondendosi perché sa di poter essere catturata. Dorme ora in alberghi ora per strada ora in boschi, ha con gli uomini rapporti occasionali, spesso violenti o umilianti, vive la difficoltà di procurarsi il cibo, di lavarsi, di nascondere la propria identità. La trasformazione del suo corpo non è solo quella della gravidanza, ma è anche nelle tappe di un esodo che la rende sporca e scalza, che le rompe o le sfila le scarpe e le trasforma i piedi in utensili coriacei di fuga, che la fa dipendere dall’alcol, che la porta a vedere tutto blu come il biglietto nel medaglione che ha al collo; e anche nella descrizione del degrado la Mackintosh tocca punte di straordinario, paradossale realismo: il vagare di Calla potrebbe essere quello di una qualsiasi senzatetto delle nostre città. La sua ricerca del confine verso un paese migliore potrebbe essere quella di un qualsiasi profugo e di una qualsiasi migrante. La frontiera da superare coincide con la scoperta del volere, del potere anche distruttivo ma ineludibile della scelta (volere o no i figli), che non può essere demandata alla lotteria di Stato e apre la faglia tra il prima e il dopo. Così, attraverso la ricerca di un altrove, di un diritto alla mobilità non condizionata da esibizioni di documenti bianchi o blu, da dogane, da tampinamenti o inseguimenti da parte di medici ed emissari, nell’immaginazione di chi legge, questo viaggio verso la libertà collega potentemente colonialismo interno (sulla parte da sempre subalterna dell’umanità: le donne) e colonialismo esterno (sui popoli più deboli e respinti ai margini della Storia).
Il romanzo si fa denuncia di qualsiasi dispotismo, che tante volte sa persino vestire i panni della gentilezza, dell’irreprensibile serietà professionale, della diplomazia più asettica o dell’amore libero e incandescente.