Sulle donne di Susan Sontag
Susan Sontag (femminista americana, ebrea, omosessuale; New York 1933 – New York 2004) ha scritto riflessioni capaci di scavalcare gli anni di cui fu osservatrice diretta. I saggi oggi ripubblicati da Einaudi ci interrogano sugli obiettivi di emancipazione non ancora raggiunti e sui rischi di regresso.
Recensione di Claudia Mazzilli
Sulle donne (Einaudi 2024, a cura di David Rieff, con prefazione di Benedetta Tobagi e traduzione di Paolo Dilonardo) raccoglie alcuni famosi saggi di Susan Sontag, scritti negli anni dal 1972 al 1975.
Fa un certo effetto rileggere questi scritti sugli stereotipi di genere, sulla bellezza femminile con i suoi canoni restrittivi, sull’invecchiamento vissuto dalle donne con vergogna e ansia precoce appena sono fuori dall’adolescenza, sulle diseguaglianze nell’accesso alle professioni, su arte e propaganda fasciste e comuniste. Ci si immerge nelle lotte femministe e nei dibattiti anche accesi tra le femministe: si pensi alla polemica tra Adrienne Rich e Susan Sontag a proposito della valutazione delle opere di Leni Riefenstahl, la regista cinematografica della propaganda nazista (il giudizio, per le due pensatrici, coinvolge in modo diverso la postura militante femminista e i metodi e le epistemologie della critica d’arte).
Questa immersione negli anni Settanta ha poco di vintage. Chi legge non riesce ad avere un approccio documentario e archeologico; ogni riga trasuda di flagrante attualità. E viene da chiedersi quali e quanti obiettivi femministi siano stati raggiunti (e dove), o addirittura se non siamo di fronte a un regresso (e di quale portata).
Qualche esempio. Susan Sontag, in più d’uno fra questi scritti, nota che fin dall’infanzia si insegna alle bambine a dare un’importanza eccessiva all’aspetto fisico, persino a non corrugare la fronte per non segnare il viso con rughe, e in generale a “conservare una bellezza” che è un ideale di giovinezza inerme, docile e delicata, sottomessa e consona a ruoli decorativi, ancillari o di accudimento, destinata ad essere depotenziata anno dopo anno dall’età che avanza e che porta con sé un’inesorabile e progressiva svalutazione della donna come oggetto del desiderio sessuale. “La bellezza, occupazione primaria delle donne nella nostra società, è il teatro del loro asservimento” (p. 30). Al contrario gli uomini possono potenziare il corpo, perché per loro c’è un doppio canone di bellezza, il ragazzo e l’uomo. Non devono limitarsi a conservare la giovinezza ma possono e anzi devono fare crescere la muscolatura, la forza, la potenza, dentro un’armonia complessiva che tollera difetti naturali e accetta con disinvoltura i segni della senescenza. Il corpo delle donne è invece colonizzato in ogni sua parte (capelli, viso, collo, seno, giro vita, fianchi, glutei, cosce, polpacci, caviglie, piedi) sul mercato della cosmetica, del cinema e della televisione, persino delle professioni. Perché a nessuna donna, anche a quella che ha raggiunto ruoli apicali, si può perdonare l’essere brutta, poco curata, sciatta, vecchia. E bellezza e bianchezza vanno insieme, nell’intersezione di classe, razza e genere.
La bellezza è un sistema classista, che opera all’interno di un codice sessista; le sue spietate procedure di valutazione e la sua inflessibile tendenza ad alimentare sentimenti di inferiorità o superiorità persistono, a dispetto (e forse a causa) di un sorprendente grado di mobilità verso l’alto o verso il basso (p. 107).
E se ai tempi di Susan Sontag la cattiva maestra era la televisione, per dirla con Karl Popper, adesso la pervasività dei corpi femminili oppressi e auto-oppressi viaggia anche sui social. Eppure le pagine di Susan Sontag erano profetiche non solo rispetto allo scenario più recente della rete. Andavano rilette postume (Sontag muore nel 2004) insieme ai contributi che nel 2009 ha pubblicato la giornalista Lorella Zanardo: un documentario e un libro per Feltrinelli dal titolo esplicito, Il corpo delle donne. I canali Fininvest/Mediaset (poi anche la RAI berlusconizzata) erano già da tempo il mattatoio del corpo delle donne, esibite agli occhi di tuttə noi. Occhi educati a poco a poco a uno sguardo sessista, in cui ciò che è “tipico e standardizzato” è sezionato in parti come i tagli delle carni in macelleria: glutei sodi, seni alti e rotondi, cosce tornite, visi finti e inespressivi, con zigomi alti e labbra a braciola. Con sottofondo di battute sessiste non ideologicamente neutre.
Chi era adolescente negli anni ’90, come me, o si sorbiva tutto questo o spegneva la televisione e leggeva un libro. Quanto questo immaginario abbia avuto influenza sulle nostre menti (e sui corpi di chi ha voluto emulare veline e bellimbusti…) chiunque può valutarlo secondo i propri gusti politici, feticistici, o in base alle proprie biografie, aspirazioni ecc.
Acute sono anche le analisi di Susan Sontag su femminilità, ecologia, riproduzione come destino biologico o scelta: riflessioni capaci di oltrepassare gli anni di cui Susan Sontag fu osservatrice diretta, per farsi frecce acuminate offerte al nostro arco: negli sviluppi più recenti il pensiero della differenza (si pensi ad Adriana Cavarero) riconosce nella facoltà di generare non un destino biologico normato entro l’istituto della maternità patriarcale, ma un’esperienza conoscitiva entro un’ecologia radicale.
Susan Sontag, negli stessi anni in cui Elena Gianini Belotti scrive Dalla parte delle bambine, riflette sull’educazione che perpetra gli stereotipi di genere. In una pagina, con ritmo incalzante e programmatico, scrive:
Esigere che le donne ricevano pari retribuzione per un lavoro di pari valore è riformista; esigere che abbiano accesso a ogni tipo di lavoro o professione, senz’alcuna eccezione, è radicale. La richiesta di parità retributiva non infrange il sistema della stereotipizzazione sessuale. Retribuendo una donna con lo stesso stipendio percepito da un uomo che svolga le sue stesse mansioni, ci si limita a un genere di parità puramente formale. Soltanto quando le donne costituiranno grossomodo la metà di coloro che compiono ogni genere di lavoro, quando ogni tipo di impiego e di responsabilità pubblica sarà pienamente condiviso dai due sessi, la stereotipizzazione sessuale avrà fine – non prima (p. 80).
Dunque Susan Sontag, come bell hooks, opera una distinzione tra femminismo riformista e femminismo radicale e riflette sul rapporto tra femminismo e politica, senza porre in termini dogmatici la relazione tra riformismo e rivoluzione culturale femminista (che riguarda la trasformazione profonda di ciò che chiamiamo potere, e investe il linguaggio, l’economia e la burocrazia, il tempo da dedicare al lavoro e alla creatività, la trasformazione del concetto di famiglia…).
Il rapporto tra movimenti femministi, partiti e rivoluzione, con le possibili pratiche politiche, dipende dal contesto di ciascun Paese, ma quasi sempre, dove le donne sono cooptate (come è avvenuto, ad esempio, nella Resistenza italiana e francese), alla fine gli uomini le respingono nei ruoli domestici tradizionali.
Viene spontaneo pensare alle donne iraniane e alle sorelle di tutto il mondo che hanno inneggiato “Donna, Vita, Libertà” sia quando Susan Sontag parla di rivoluzione sia quando scrive della geografia dei diritti delle donne, così disomogenea su scala globale. Ma anche leggendo le sue pagine sul femminismo che opera entro il sistema patriarcale e istituzionale per assicurare obiettivi minimi (come il diritto all’aborto, la parità salariale, l’accesso ai contraccettivi, le leggi a contrasto della violenza di genere), non si può non pensare a quanto queste rivendicazioni siano parziali e nello stesso tempo fragilissime, ora che in Italia i consultori sono stati aperti alle associazioni pro-life, ora che il diritto all’aborto è messo in discussione in tanti Paesi occidentali, mentre altri Stati si sfilano dalla Convenzione di Istanbul, che è il dispositivo legislativo più avanzato per contrastare la violenza maschile sulle donne nelle sue varie forme.
Susan Sontag scrive pagina ancora cariche di futuro quando intravede nel fascismo non “un’aberrazione politica rivelatasi estremamente plausibile soltanto nell’Europa a cavallo tra le due guerre mondiali”, ma “la condizione normale dello Stato moderno: la condizione verso cui tendono tutti i Paesi industriali avanzati”. Citando Le tre ghinee di Virginia Woolf, per la quale la liberazione delle donne è una lotta contro il fascismo, Susan Sontag ci offre chiavi di lettura ancora valide in tempi in cui le democrazie sono ormai democrature e le donne ai ruoli apicali sono molto più che complici: sono le prime responsabili della conservazione delle diseguaglianze, le madrine dei cesarismi regressivi, delle democrazie dell’investitura in cui domina il sogno erotico-estetizzante del leader machista e del suo popolo stuprato e, attraverso lo stupro, silenziato e sottomesso.
Dichiarando di non sentirsi una donna completamente liberata, Susan Sontag non si erge sul piedistallo, non fa sua la truffa della meritocrazia, non interrompe ma riallaccia la sorellanza tra donne e ci aiuta a ritrovare il punto da cui ripartire non solo per uscire di casa per andare a lavorare ed essere nel mondo, ma per trasformare il mondo.