La questione della mercificazione del corpo femminile in rapporto alla libertà
Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato di Valentina Pazé
Una recensione di Antonella Ippolito
Il libro di Valentina Pazé si confronta con alcuni temi centrali del dibattito attuale ponendo in primo piano la questione della mercificazione del corpo femminile in rapporto alla libertà.
Il punto di partenza per l’autrice, che insegna Filosofia politica all’Università di Torino, è la riflessione sul dibattito filosofico che, dalla Grecia classica fino alla modernità, ha riguardato il problema del libero arbitrio. Questa retrospettiva, in relazione agli sviluppi sociali del mondo attuale basato sul neoliberismo che estende le regole del mercato all’intero corpo sociale considerando gli individui “imprenditori di se stessi”, conduce ad una constatazione fondamentale: se è vero che il concetto di libertà, colpa, responsabilità si è notevolmente trasformato a seconda dell’autorappresentazione dell’essere umano come soggetto che agisce da solo o in rapporto a un ambiente ed a una serie di circostanze che ne determinano le scelte, è vero anche che, per l’individuo del ventunesimo secolo, la questione della libertà si pone in termini assai più complessi.
Nel mondo attuale, infatti, i nuovi modelli di impresa sembrano garantire un’autonomia decisionale superiore a quella delle prime forme capitalistiche di sfruttamento: mentre l’operaio dei tempi di Karl Marx poteva accettare o rifiutare le condizioni a lui imposte dal datore di lavoro, oggi il passaggio a nuove forme di organizzazione basate su un “contratto”, frutto di un incontro tra domanda e offerta, sembra legittimare relazioni di subordinazione e di dominio più che tradizionali dissimulandole attraverso questa forma giuridica. Il soggetto, in altre parole, è più libero che in passato di scegliere cosa accettare o cosa rifiutare, ma è spesso indotto dal sistema stesso a interiorizzare le norme del circolo produzione-consumo, accettando in modo apparentemente volontario di divenirne parte a scapito di libertà fondamentali. La sostanza dei rapporti di forza resta, come pure la prevaricazione del forte sul debole resta.
È su questa base che l’autrice prende in esame i tre temi della prostituzione, della maternità surrogata e del velo islamico. In comune ai primi due vi è il concetto di libertà di disporre del proprio corpo, in quanto oggetto di cui si è proprietarie e che può essere messo a disposizione per ricavarne qualcosa o per fini altruistici; il terzo, invece, si pone piuttosto sul piano della libertà di espressione.
Uno dei pregi fondamentali del saggio è che la sua prospettiva di fondo è scientifica, non ideologica: il che comporta una disamina di diversi punti di vista aperta alla complessità dei problemi legati al diritto-potere di decidere sul proprio corpo e all’inalienabilità della libertà individuale. Al centro della riflessione, per quanto riguarda prostituzione e maternità surrogata, vengono posti il diritto a utilizzare il corpo di una donna e il diritto di quest’ultima a lasciarlo usare, considerando la donna stessa protagonista – nelle sue percezioni e nelle sue sensazioni – con tutte le ambivalenze che questo comporta e con tutte le differenze che caratterizzano i racconti individuali. Così, le nuove “regole” che dirigono il mercato della prostituzione come sex working sono messe a confronto con le ricerche esistenti sulla percentuale di casi di stress post-traumatico tra le lavoratrici e sul rischio di problemi psichiatrici seri, che fanno sì che quest’attività, pur sgombrando il campo da pregiudizi, non possa non considerarsi un lavoro particolarmente usurante, in cui spesso il soggetto protagonista deve mettere in atto veri e propri meccanismi di dissociazione psicologica.
La discussione sulla maternità si svolge proprio nella consapevolezza dell’estrema complessità di questa materia in campo etico, filosofico e giuridico. L’autrice parte da una presa d’atto delle differenze terminologiche oggi in uso in riferimento alle pratiche di gestazione per altri, le quali, considerate con attenzione, presentano quasi sempre una sfumatura che tradisce una valutazione di merito (si pensi allo sprezzante “utero in affitto”). Pazé preferisce utilizzare la formula “maternità surrogata” perché non dissocia la figura della donna dalla sua funzione nel processo procreativo, al contrario di “gestazione per altri”, che sembra isolare questo momento, come pure il termine “portatrice” con cui la madre biologica è spesso chiamata.
Il capitolo 3, Libertà di donarsi, e di donare? mette a fuoco, a partire dalla diversità delle testimonianze esistenti in merito, le sfumature, non tutte rassicuranti, della rappresentazione della maternità surrogata come dono. Il discrimine giuridico tra la procreazione d’appoggio che avviene dietro compenso e quella altruistica è solo in apparenza chiaro e basato sulla differenza tra il compenso stesso e il semplice rimborso delle spese sostenute per la gravidanza: tale rimborso, nei fatti, è spesso di notevole entità, anche superiore a quella della retribuzione prevista per una maternità surrogata di tipo commerciale, e il fatto che spesso a rendersi disponibili siano donne disoccupate o lavoratrici precarie con un livello d’istruzione piuttosto basso sembra sfumare notevolmente le distinzioni.
Un ulteriore problema è la pluralità di soluzioni per i contratti stessi, quelli già esistenti e quelli ancora possibili in senso astratto, per quanto concerne la cessione della potestà genitoriale. Se si mette al centro della riflessione la donna come soggetto senziente e non solo come ingranaggio di un meccanismo (biologico o di scambi consensuali), si tratta di un aspetto di grande importanza, che riguarda le sensazioni della donna stessa al momento del distacco. Senza voler postulare l’esistenza di un fantomatico “senso materno”, l’autrice riferisce, a partire da esistenti studi, come la codificazione giuridica della maternità surrogata in realtà in minima parte rifletta il fatto che la capacità di vivere questa esperienza con distacco non è univoca in tutte le donne coinvolte e può variare nel corso della gravidanza.
Tutte le esperienze a cui Pazé ha avuto accesso raccontano di una scelta del tutto libera, basata sul consenso informato attraverso il mezzo giuridico del contratto di diritto privato e spinta in moltissimi casi da ragioni altruistiche. Ciò nonostante, il vissuto personale delle persone coinvolte appare differenziato: a fronte di donne che riescono a vivere la loro gravidanza e il distacco dal bambino in modo neutro e tranquillo, altre raccontano di aver provato una vera sofferenza al momento di affidarlo ai genitori. Si delinea quindi un problema fondamentale, specialmente nella misura in cui, in particolare in alcuni Paesi nei quali la GPA commerciale ha avuto grande espansione, le donne selezionate per diventare surrogate vengono trasferite in appositi centri e preparate, attraverso appositi “percorsi di formazione”, a un disciplinamento delle emozioni che le porti a sentirsi soltanto contenitori temporanei (cf. p. 91-92). Per contro, in contesti diversi, come quello statunitense, le strategie finalizzate a minimizzare l’eventuale impatto psicologico si concentrano sulla relazione tra la madre surrogata e i genitori intenzionali del nascituro, idealmente invitati a conoscersi e a mantenere un rapporto. La possibile affettività della madre surrogata viene, in questo modo, deviata sulla coppia dei committenti, salvo delusioni se questi, in seguito, si allontanano.
Soltanto in Gran Bretagna la potestà genitoriale resta alla donna per le prime sei settimane dal parto e l’accordo si perfeziona successivamente attraverso una formale rinuncia. Questo, però, riduce di molto la possibilità reale che la madre biologica, in caso cambi idea, si veda realmente assegnare il bambino, che nel frattempo è già stato affidato alla coppia di genitori intenzionali, spesso benestanti e quindi in condizione di vantaggio (in nome dell’interesse superiore del bambino stesso) in un eventuale contenzioso (p. 99). Inoltre, la presenza di un contratto giuridicamente vincolante, sia per l’accordo commerciale che per quello altruistico, prevede in effetti delle limitazioni accuratamente codificate della libertà delle donne di fare o non fare determinate cose, incluso regole dietetiche, e obblighi precisi per il bene del nascituro, decisi dai committenti. In questo contesto, l’autrice si chiede perché sia necessario insistere nel qualificare il ruolo della madre surrogata in termini di dono e quanto il ricorso a questo campo semantico non sia una strategia – meno consapevole nel caso delle donne, forse più nel caso degli imprenditori del settore – volta a dissimulare le dinamiche di un rapporto che ha più punti in comune con lo scambio commerciale di quanto sembrerebbe.
La lettura di Libertà in vendita è assolutamente da consigliare proprio a causa della trattazione rigorosa e del tutto priva di pregiudizi religiosi o ideologici. Lettori e lettrici interessati ad un approccio accurato e lontano dalle semplificazioni dei mass-media e dei social networks, ma anche da facili banalizzazioni sull’onda di effetti emotivi, troveranno qui una discussione seria dei problemi legati all’idea dell’inalienabilità dei diritti fondamentali, del potere di decidere su se stessi e sul proprio corpo, ma anche del rapporto tra desideri e diritti, oltre che consapevole della necessità di evitare in tutti i casi un atteggiamento giudicante che si sostituisca agli individui coinvolti per stabilire il “loro bene”. La questione è, piuttosto, di chiarire cosa significhi compiere una scelta davvero libera e volontaria e di stabilire, a livello giuridico, modalità opportune per tutelare la genuinità del consenso, proteggendo anche la persona che consegna volontariamente una parte della propria libertà di fronte a possibili nuove e mascherate forme di sfruttamento neoliberale.