Lea Melandri: “Col femminismo l’idea di fare figli non si poneva”
La storica del femminismo Lea Melandri, 76 anni, ci ha lasciato una lunga e profonda testimonianza, che abbiamo diviso in tre parti. Ecco la seconda:
Leggi la prima parte della testimonianza di Lea
Io non ho mai avuto l’idea della coppia, della famiglia, del matrimonio, della convivenza ecc. Mentre molto presente nella mia vita è sempre stato il sogno d’amore, la passione come momento esaltante di fusione di anime, che poi è tutta una vicenda che ho rivissuto un po’ attraverso la lettura di Sibilla Aleramo che ha avuto tanti amanti, io pochissimi, però la logica è la stessa. Ogni volta ricostruire con l’altro questa fusione sublime, ricostruire il sogno d’amore come sogno d’armonia e di composizione degli opposti sono stati dei temi ricorrenti della mia riflessione negli anni Ottanta.
Il mio libro “Come nasce il sogno d’amore”, anche se non è un racconto di vita, non è un’autobiografia, è però il più autobiografico. La passione d’amore risponde a un’idea di eternità. E’ il “per sempre”, è l’ideale di armonia perfetta fuori dal tempo, fuori dalla costruzione della relazione. E questo per me comprende anche i pochi rapporti che ho avuto e che non avevano questa prospettiva.
L’unico momento in cui questo si è vagamente prospettato, è stato nel rapporto più importante, quello con Elio Fachinelli, psicanalista che è morto nel 1989. Noi abbiamo avuto una relazione che era d’impegno, abbiamo messo in piedi la rivista “l’Erba voglio”, molto importante negli anni Settanta. Facevamo insieme la rivista e abbiamo avuto una relazione che è durata 5 anni e lì vagamente, velatamente si sarebbe potuto convivere, lui mi diceva: “Sì ti vengo a trovare”. E io in realtà volevo fare la rivista, la creatura vera era la rivista, era l’inizio della mia scrittura pubblica.
Avevo conosciuto il femminismo nel 1971, quindi ero io che nascevo in quel momento. Non c’era nemmeno l’idea del “faccio un figlio”, non si poneva nei termini di scelta.
La prima volta che mi sono posta in modo diretto e specifico il problema dell’avere o non avere figli, è stato quando Paola Leonardi e Ferdinanda Vigliani sono venute a intervistarmi, anche se poi a posteriori ho pensato che indirettamente avevo già affrontato questo tema, mettendo al centro della mia ricerca teorica la questione dell’origine del rapporto tra i sessi, questa differenziazione così violenta tra natura e cultura, la donna legata nel corpo e l’uomo legato alla storia. In realtà ho sempre messo al centro la questione madre-figlio più che quella di madre-figlia, perché nella mia ipotesi c’è l’idea che nel rapporto madre-figlio ci sia l’impianto originario di questa differenziazione violenta, nel senso che è nello sguardo dell’uomo – figlio che si costruisce quest’idea di corpo femminile potente che genera da sé.
C’è voluto molto tempo prima che gli uomini realizzassero la loro partecipazione al processo generativo. Questo corpo femminile con cui sei stato tutt’uno all’origine, questo “mondo” che ti mette al mondo, ti nutre, ti dà le prime cure, ti dà anche le prime sollecitazioni sessuali, quindi un corpo intrigante, potente, minaccioso e desiderato, tutto questo è nello sguardo di un figlio. Io probabilmente mi sono pensata anche come figlio maschio per via del mio destino, per il fatto che da figlia femmina ii una famiglia contadina io abbia studiato, visto che studiare voleva significare percorrere una strada che era prevista per il figlio maschio semmai.
Quindi non è casuale la centralità che ha preso la relazione madre – figlio nei miei studi, nelle mie riflessioni teoriche, perché io probabilmente mi sono pensata inevitabilmente così perchè da figlia femmina che ha studiato, ha avuto davanti a sè una prospettiva che storicamente era quella maschile, ma che fortuna volle che mia madre volesse ed ebbe una figlia. Lei mi pensava come una bambola, io avevo i capelli già ricci, lei di notte mi faceva i boccoli ed io mi svegliavo la mattina coi pendolini. Con grandi sacrifici mi vestiva molto bene, coloratissima, era lei che insisteva sul colore. E’ stato questo che secondo me mi ha trattenuta dal diventare una donna, ed assumere un tratto più decisamente emancipato in chiave maschile. Questo dualismo è stato la mia dannazione e la mia fortuna: il dualismo era tra la condizione contadina e la scuola, ed io ho sofferto molto, quando ho iniziato il liceo.
La cultura mi ha salvato dagli aspetti più dolorosi, più violenti, della condizione sociale di questa famiglia povera, dove c’era violenza come in molte altre famiglie contadine. Allora le donne venivano picchiate, nonostante fossero molto forti.
La cultura ha segnato uno stacco per me molto violento, ha rappresentato una salvezza, perché mi ha aperto una prospettiva di mondo, anche se non era l’emancipazione -poi ho avuto modo di confrontarmi con donne che hanno avuto percorsi diversi dai miei-.
Nel femminismo l’emancipazione apparteneva alle donne che venivano da classi sociali già in parte emancipate, voleva dire viaggiare, io ho avuto paura dei treni fino a 20 anni. Avevo vergogna a dire che il primo treno che avevo con assoluta felicità fu quello della fuga dal mio paese.
Ebbi un’occasione per uscire dal paese a 19 anni, quando vinsi la borsa di studio alla Scuola Normale di Pisa. Quello fu il primo distacco dal paese, poi però qualcosa scattò, e dopo due anni sono ritornai, continuando ad insegnare per altri 4 anni come supplente del mio professore di Filosofia del liceo.
E’ stato molto duro il percorso fino ai 25 anni e soprattutto non c’era l’emancipazione che molte altre donne avevano conosciuto. La cultura emancipa, apre spazi nel pensiero, ma non ti emancipa i piedi, i piedi erano legati al mio paese, erano legati a quella terra di quella famiglia contadina. C’era questa separazione, questa contrapposizione tra corpo e mente, tra condizione contadina e questa cultura alta.
Il mio tentativo era quello di tradurre questa esperienza di corpi, di fisicità, di natura, di terra nei termini alti della filosofia, della letteratura e per fortuna avevo 10 chilometri in bicicletta tutte le mattine: 20 minuti all’andata e 20 al ritorno in cui potevo smaltire anche il peso delle notti di questa fatica, di questa violenza.
E questa dualità è stato il tema centrale di tutta la mia ricerca, perché c’era questa violenta separazione tra corpo e pensiero. Era molto faticoso per me ovviamente aprirmi uno spazio, non c’era spazio fisico, eravamo stipati in due stanze, c’era una grande promiscuità, ma per fortuna c’era la campagna.
Ecco gli alberi per me in realtà non erano secchi, come non lo sono ora. Gli alberi erano pieni di foglie perché mi nascondevano, mi permettevano di isolarmi, erano accoglienti come questo mandorlo, ecco io adoro questo mandorlo perché abbraccia questa casa – n.d.r. nel giardino della casa a Carloforte-.
Avere la mia stanza è sempre stato il mio pensiero, mi sono dovuta aprire uno spazio di solitudine e di riflessione nel pensiero, e questo anche ha segnato il proposito dell’avere figli e poi del non avere figli, il mio percorso successivo.
Quest’elemento che io non chiamo di solitudine, ma di “singolitudine” nel senso che c’è l’essere soli, ma non nel senso della solitudine, io ero in compagnia degli autori, delle cose che leggevo, la scrittura è stata una grande compagnia per me. C’era un elemento di singolarità, non ho avuto interlocutori nella mia famiglia, non ci potevano essere interlocutori, infatti credo di aver costruito nel corso della mia vita tanti piccoli miei paesi.
Nel Sessantotto ho iniziato ad insegnare in una scuola media di Melegnano, una cittadina che distava 30 chilometri da Milano, lì si respirava cultura contadina.
Poi dal 1976 all’1986 ho lavorato in una scuola di Milano e poi qui (n.d.r. in Sardegna), questo è il mio paese ideale. Devo dire che è stato l’approdo più importante per me perché evidentemente l’essere nata in un piccolo paese ha lasciato un segno profondo e l’elemento della singolitudine, come lo chiamo io, è stato centrale in tutto il percorso della mia vita. Dico sempre che non c’è stata scelta in questo, c’è stato un tratto di destino che è venuto da un’altra storia d’infanzia e adolescenza. C’è stato un trasformare la necessità in virtù, come si dice banalmente.
Ma è soprattutto col femminismo che ho potuto dare un segno diverso a quello che era il destino, anche doloroso, a dargli una prospettiva di grande novità, radicalità ed originalità.