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Tra Il Nido E Il Volo. La Testimonianza Di Giorgia

Tra il nido e il volo. La testimonianza di Giorgia

Giorgia Ester Serra (laurea in filosofia, professione sceneggiatrice) ci regala la sua storia di lunàdiga. Una storia che si schiude nel nido degli affetti familiari più intimi (la casa in campagna dei nonni) e si apre all’osservazione della natura, con i suoi ritmi semplici di nascita, cura e svezzamento dei “non umani”, ponendo così in discussione schemi e credenze sui doveri assoluti della genitorialità.

In campagna si sta sempre dieci anni indietro.

Quando mi svegliavo a casa dei nonni, il mio respiro faceva i “fumini” e le coperte erano così pesanti che sembrava di avere un sottile materasso addosso. Sgattaiolavo fuori da quel giaciglio-panino di cui ero stata ripieno notturno, mi avvolgevo in una vestaglia a fiori e correvo giù dalle scale per rifugiarmi nel tepore della cucina. Nonna aveva già messo il latte sulla stufa e i soliti e terrificanti biscotti stavano ad aspettarmi sul tavolo. Ogni tanto ancora li sogno, nei miei incubi peggiori: quei quadrati merlettati di farina e non so che, con il loro sapore di sapone e la consistenza viscida. Erano i rotti che mia nonna comprava allo spaccio del forno del paese, li vendevano in grossi pacchi da tre chili e duravano settimane.

In quelle mattine di freddo-porco e umidità di pianura amavo stare alla finestra della cucina che dava sulla tettoia dove mio nonno teneva il trattore. Ogni anno, tra le travi e l’ondulina verde che copriva la struttura, una famiglia di rondinelle proliferava in maniera sempre consistente. Ricordo che stavo lì con la tazza di latte caldo e grasso tra le mani a seguire il ritmo sincopato di quelle piccole grandi bocche gialle che si spalancavano come calle dal nido-conchiglia aggrappato in alto. Vedevo il via vai di rondini adulte che portavano colazioni, pranzi e cene a quei becchi capricciosi. Pensavo che anche io era stata così ed ero felice che la mia fame non dipendesse più da qualcun altro: spesso, appena nonna se ne andava, prendevo un uovo dallo stipo della cucina, una noce di burro giallo dal frigo, e mi facevo un occhio di bue – lasciando quei biscotti spaventosi e raffermi al loro destino. Mi sentivo una che non ha bisogno di nessuno, una che si prende quello che vuole, non quello che gli adulti le danno.

Avevo sei anni ed ero già scappata di casa due volte, o meglio, me ne ero andata: il mio zaino di Sailor Moon in spalla, un ovetto kinder e la voglia di prendere il volo.

Le mattine d’autunno le passavo così. Prima di andare a scuola, mi affacciavo alla finestra e ogni giorno vedevo i progressi delle rondinelle – sempre meno spelacchiate, sempre più indipendenti. Dopo due settimane già svolazzavano intorno al nido, facendo strane e goffe gare tra di loro. Pensavo alle mie fughe, alle mie partenze, sempre goffe e incerte e alle corse per tornare a casa, con la mia ombra che diventava un mostro nero da cui scappare. Dopo un mese, sotto la tettoia non restavano che un paio di rondini. Non c’era più gioco, non c’erano più capricci, solo una gran tranquillità. E, mentre mi sforzavo a tirar giù l’ultimo biscotto moscio restato sul fondo del grande pacco, mi immaginavo tutti quei cuccioli che, nel pieno delle loro facoltà volatili, facevano una piroetta intorno al campanile del paese per poi disperdersi per il mondo come scintille d’artificio. Lo sognavo anche per me e l’ho sognato per tanto, anche troppo.

Questa cosa perversa degli umani di tenersi almeno vent’anni i figli in grembo proprio non l’ho mai accettata. Poi ho capito che era più un’abitudine italiana e ho desiderato di esser nata altrove – dove a diciott’anni, come la mia amica Anaïs, ti mandano fuori casa a studiare, a imparare.

Io, invece, la figlia non voluta ma sopravvissuta a cinque minacce d’aborto, sono sempre stata un miracolo da tenersi vicino, come un santino sul comodino, carico di tutta la responsabilità del buon auspicio, del bisogno che gli altri avevano di me: come un cucciolo di rondine che da sfamato, in poco, si trova a dover sfamare, senza che nessuno gli abbia insegnato a usare le ali per paura che le usasse e volasse via. Non credo ci siano colpe in questo gioco di bisogni soddisfatti o soffocati, ma ci sono delle credenze, degli schemi – a cui ci si assoggetta spesso senza dubbi o domande – che incastrano le individualità nei legami famigliari, nel senso di riconoscenza per il “regalo della vita”, nel dovere della cura. Io questi schemi li ho sempre vissuti come una gabbia, fatta sì di parole ma tremendamente appiccicosa – come una bolla dalla quale si può uscire ma della quale ti restano pezzetti gommosi addosso, tutto dove andrai.

Non c‘è scampo.

Vorrei essere nata rondine e vorrei che, in qualche modo, mia madre me l’avesse chiesto prima – che cosa volevo essere. È di qui che non posso far nascere uomo chi si sente pesce o formica, albero o fuoco, vento o profumo.

Giorgia Ester Serra

 

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