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TRA(U)MA DI UN CORPO. La Testimonianza Di L.

TRA(U)MA DI UN CORPO. La testimonianza di L.

La testimonianza di L.

Si je ne les écris pas, les choses ne sont pas allées jusqu’à leur terme, elle ont été seulement vécues. Annie Ernaux

A Bologna quella mattina di fine inverno l’aria era particolarmente pungente.
Mi ero svegliata presto per andare in ospedale a ritirare i risultati degli esami che avevo fatto qualche giorno prima: volevo scoprire se l’acne che da qualche mese mi stava brutalmente deturpando il viso fosse di natura ormonale.
Purtroppo però, quella mattina, non solo non trovai la causa di quello sfogo ma ricevetti un’informazione che non avrei voluto ascoltare.
Il reparto di endocrinologia era illuminato da un sole ancora incerto. Una dottoressa alla mia sinistra parlava lentamente guardandomi con una faccia stanca pur essendo solo le dieci. Le sue colleghe ascoltavano in religioso silenzio, e se il mio sguardo cadeva su di loro, accennavano forzatamente un sorriso.
La dottoressa mi spiegò con calma la cosa di cui non afferrai quasi niente e poi mi fece qualche domanda su mia madre, mia zia, mia nonna. Quando all’ennesimo chiarimento mi vide ancora con lo sguardo assente, decise di congedarsi prescrivendomi ulteriori accertamenti.
Con gli occhi gonfi di lacrime avevo testardamente chiesto ancora una volta cosa significassero quelle parole: “non saprei cos’altro dirle signorina, faccia come le abbiamo detto. Vada dalle colleghe in ginecologia, loro sapranno dirle di più” rispose.
A poco a poco, le dottoresse si sparpagliarono rompendo il semicerchio che avevano precedentemente creato attorno a me. Erano venute a vedere il caso con quella patologia a soli 23 anni appena compiuti. Il loro silenzio mi costrinse a prendere disordinatamente tutte le mie carte e ad andarmene per non disturbare di più.
Mi lasciai la porta alle spalle e una volta fuori mi piacque l’aria frizzante del giardino. Poi, senza sapere come, mi ritrovai al terzo piano di pediatria.
Quando l’ascensore si aprì, corsi verso gli spogliatoi, mi cambiai in fretta ed entrai nel blocco operatorio. “Tu che ci fai qui? Il tuo turno comincia alle due”, disse la caposala girandosi verso l’orologio a led sulla parete.

“Lo so, sono venuta prima. Posso restare?” intonai con voce acuta affiché il suo sguardo tornasse su di me.
Si rigirò e mi guardò con supponenza: “non toccare niente e rimani in silenzio. Vai.”
Entrai in sala. Era freddissima e in sottofondo c’era John Coltrane: il chirurgo, che stava effettuando una colostomia su un bambino affetto da malattia di Hirschsprung, lo amava.

Qualcuno si accorse di me, lo strumentista mi sorrise. Lo notai anche se il suo viso era coperto dalla mascherina.
Poco più tardi mi fece segno di avvicinarmi: “da qui vedi meglio”. Con gli avambracci e le mani al cielo mi lasciai vestire da una collega e lo raggiunsi. Seguii l’operazione con cura, non staccai mai lo sguardo dal tavolo operatorio.

Amavo la sala operatoria, quando ero solo una tirocinante: era un luogo in cui si poteva contrastare il tempo, pensavo.
L’operazione era iniziata da poco, ma gli infermieri erano già provati e non vedevano l’ora che arrivasse il cambio turno. “Ma tu perché sei qui, chi te lo fa fare?” mi disse la specializzanda che teneva una klemmer nella mano nascosta nel guanto sporco di sangue.

Quando arrivarono le due, finalmente potei collaborare. Lo strumentista mi chiese di avvicinargli un ago riassorbibile, mentre il chirurgo stava cauterizzando qualcosa col bisturi elettrico.
Senza accorgercene arrivarono le quattro, ancora un’ora e avrei finito. Rimasi invece fino alle sette, quando l’anestesista poté̀ finalmente risvegliare il paziente dopo circa otto ore di intervento.

Quando uscii da lì avevo freddo, l’alito cattivo e le gambe gonfie. I piedi erano sudatissimi negli zoccoli duri. Negli spogliatoi acchiappai i miei vestiti, mi spruzzai una manciata di deodorante sotto le ascelle, poi presi il cellulare e trovai più̀ chiamate del previsto.
Richiamai Valentina: “pasticcino ma dove sei?” “Tesoro, ero in turno, scusami, ma ora torno a casa.”.
Mentre camminavo, mi tornò in mente quello che era successo al mattino. Speravo che in sala operatoria avrei potuto rimuovere dalla mia testa quello che mi aveva detto la dottoressa, come il dottore che amava Coltrane aveva rimosso una parte di colon a quel bambino. Ma non accadde. Così, per mantenere alta la distrazione, presi il cellulare e richiamai due tra le persone che mi avevano telefonato nel pomeriggio, che mi fecero compagnia fino al portone.
Arrivai a casa, Claudia mi stava aspettando per ordinare indiano. Qualche istante dopo qualcuno suonò alla porta. Era Valentina con un dolce tra le mani: “buon compleanno amore mio.”

Nei mesi immediatamente successivi, frequentai spesso il reparto di endocrinologia. Mi presentavo a cadenza mensile, esattamente tra il primo e il terzo giorno del ciclo, per eseguire particolari esami del sangue attraverso i quali avremmo potuto tenere costantemente sotto controllo i livelli ormonali. A tutto questo si aggiunsero periodiche visite in ginecologia. Nella sala d’aspetto mi annoiavo parecchio mentre lasciavo che la vescica si riempisse. Ogni tanto buttavo un occhio sui quadri alle pareti: raffiguravano per lo più̀ corpi di donne nudi, talvolta con neonati che si nutrivano dei loro seni.

Con me, c’erano coppie particolarmente silenziose. Non si sentivano urla né vagiti. Quel silenzio e lo stare lì da sola rendevano tutto meno digeribile.
Quando arrivava il mio turno, le dottoresse mi lasciavano entrare nella stanza semibuia, mi facevano poggiare sul lettino e mi spruzzavano del gel trasparente sul basso ventre. I nostri silenzi venivano poi immediatamente inondati di ultrasuoni che la sonda produceva a contatto col mio corpo.

Le nostre conversazioni erano sempre uguali:
“Sei pronta?”
“Ve l’ho detto, io non vorrei prima di… Ma ci sono dei rischi per la terapia ormonale? È sicura? (…) Lo chiedo perché́… insomma non so se potrebbe dare problemi. (…) Nella mia famiglia ci sono stati molti casi di tumore.”
“Pensaci ancora un po’. Ci vediamo il mese prossimo.”
“Ok. Grazie. Arrivederci.”
L’ultima volta che le vidi, la conversazione fu più o meno la stessa: “Pensaci ancora un po’. Nel frattempo ti lasciamo il consenso informato. Firmalo e quando torni ne riparliamo.”
“Ok, grazie (…) Arrivederci.”
Me ne tornai a casa confusa, cupa, colpevole.
Sistemai il foglio nel raccoglitore che poi nascosi sotto i maglioni nell’armadio. Dopodiché uscii per fare due passi. Avevo bisogno d’aria.
In quel reparto non ci avrei messo più piede per i successivi otto anni.

“Dottore, io devo dirle una cosa.”
“Dica.”
“Io sono qui anche per un altro motivo”
“E qual è?”
“Io non lo so di preciso, ma ho una sensazione strana.” “Cioè?”
“Ho paura di non fare in tempo”
“Per cosa?”

“Non lo so.”

Cominciai l’analisi cinque anni dopo quella maledetta visita. Erano i primi di dicembre: io ancora non lo sapevo, ma a me quell’inverno sarebbe apparso più rigido del previsto.
Quel pomeriggio le luci di Natale e l’odore di caldarroste invadevano già le strade del centro e io mi sentivo completamente svuotata e priva di forze. Avevo paura.

Suonai il campanello e uno sconosciuto mi invitò ad entrare. La stanza in cui ci sedemmo una di fronte all’altro era calda e accogliente. Mi vergognavo tremendamente di essere lì e di quello che avrei subito raccontato.
Si dice che la vergogna sia un sentimento adulto ma io della me adulta non conoscevo ancora nulla. Come non conoscevo il quartiere in cui mi diede appuntamento il dottore: ero a Roma da due mesi ma per colpa del coprifuoco non ero riuscita a vedere granché.

Solo qualche giorno dopo avrei scoperto che lo studio si trovava nei pressi di via Merulana: perfetto per custodire i “pasticciacci brutti” dell’anima.
Di quell’esperienza, cui mi sarei sottoposta tre volte a settimana per anni – agosto e Natale esclusi – avrei ricordato perché anche quella fu decisamente vergognosa, o perché col tempo si rivelò essere un presagio. Ma all’epoca era troppo presto per considerarla tale.

Era il periodo di Pasqua. Ero sdraiata sul lettino, nervosa e triste, e a poco a poco che mi parlavo scoprivo che stavo così per via delle festività: a me le feste non m’erano mai piaciute.
Mi venne in mente spontaneamente un aneddoto per il quale eccome se odiavo quella festa: era la domenica di Pasqua, io ero bambina, avrò avuto sei anni. Avevamo appena finito di mangiare e insieme a mio fratello aspettavo con ansia l’uovo di cioccolato. Quello che mi trovai davanti però fu un tantino meno dolce e più indigesto: lo sguardo serissimo di mio padre, di quelli che aveva ogni qualvolta una nuova legge scritta veniva emanata dentro casa. Scritta, sì, perché le leggi di famiglia mio padre le scriveva nella sua agenda.

Creonte (questo fu il soprannome che scelsi per lui da quel giorno) aveva scritto a caratteri cubitali “da quest’anno niente più uova di Pasqua”. Ecco, il punto esatto in cui è finita la mia infanzia penso sia stato quello. Col cuore infranto mi buttai sul letto in camera mia e da allora recitai benissimo la parte di Antigone. Invano.

Non fu a questo punto che provai vergogna nello studio analitico ma il giorno seguente. Raccontare a voce alta quella cosa, mi aveva scatenato rabbia (e forse pure fame). Avevo capito il gioco, l’inganno, o quello che era: se non volevo più permettere al tiranno che era in me di continuare a murarmi viva dovevo cominciare a non seguire più le sue leggi.

Cominciai subito, appena uscita dallo studio. Corsi verso il primo supermercato anche se sapevo che non avrebbe chiuso nei successivi cinque minuti. Una volta dentro acchiappai un uovo di Pasqua con la stessa foga che si ha dinanzi al cibo quando si è a digiuno da giorni, e dato che io, da quell’uovo, ero a digiuno da anni, lo slancio fu davvero impetuoso. Lo mangiai appena ritornata a casa, nonostante fosse solo il mercoledì santo. Non potevo aspettare la domenica, non dopo un fioretto durato 23 anni.

Il giorno dopo, contentissima e con la glicemia un po’ più alta, non vedevo l’ora di raccontare quello che avevo fatto. A seduta quasi finita esclamai: “capisce dottore, l’ho comprato! L’ho pure mangiato! Tutto!”
Il dottore rimase in silenzio per qualche secondo, ma per me furono minuti interminabili: mi sentii improvvisamente triste e mi vergognai profondamente, fino a che con voce piatta il dottore disse: “abbiamo finito.”

Sgattaiolai fuori di lì con notevole imbarazzo e una strana dose di eccitazione.

Il 17 aprile ho fatto l’ennesimo accertamento in un ospedale di Roma.
“Metta i piedi lì e si avvicini quanto più può alla punta del lettino. Senta, ma lei ha mai voluto un figlio?” “No.” “Adesso lo vorrebbe?” “Non lo so.” “Non ha un compagno?” “Attualmente no.” “Mi dispiace dirglielo, ma è tutto finito.” “Come sarebbe è tutto finito? Ma io ho ancora il ciclo.” “Non significa niente.”
Sono andata in tilt.
“Voi donne non sapete proprio quello che dite” e ha continuato “mi dispiace, ma voi non capite che non funziona come dite voi.” Sono scoppiata a piangere. Poi, con estrema calma: “ma come potrei pensare di volere un figlio se non ho le condizioni economiche, come potrei farlo se non ci sono le condizioni affettive?”
Non riuscivo a credere che la dottoressa mi avesse davvero parlato in quel modo.
All’improvviso, la specializzanda che era con noi ha esclamato: “aspetti dottoressa, vedo un follicolo.”
La dottoressa ha replicato: “aspetti, aspetti.” Ha esitato un attimo, poi ha continuato: “senta, io non so cosa dirle, io più di così non posso aiutarla. Comunque adesso io non posso più darle retta, perché ho fatto un favore al mio collega facendola venire, ma mi sta facendo perdere tempo. Ho altri pazienti.”
Sono uscita da lì stordita. Non sentivo più le gambe. Ho pagato il ticket e poi ho preso il primo autobus per andare in università.
Quando la lezione è finita, ho chiesto alla mia amica Lavinia di fare due passi: “ho bisogno di parlare con qualcuno di una cosa, ti va di ascoltarmi?”
Le ho raccontato tutto, dall’inizio. Ho raccontato della visita fatta otto anni prima e della diagnosi ricevuta che mi ha tenuta paralizzata per tutto quel tempo; di come da due anni stavo cercando finalmente di affrontarla girando per ospedali, cliniche, studi privati, consultori che mi davano diagnosi ogni volta diverse; della visita fatta tre ore prima.
Lavinia mi ha preso la mano, il suo sguardo era immobile su di me. Ha fatto solo un respiro profondissimo: “ripetimi il nome di questa cosa”
“Menopausa precoce. All’epoca mi avevano detto che si potevano congelare gli ovociti. Adesso non lo so più. (…) Io avevo paura. Ero in un corpo diverso. E poi avevo paura della terapia ormonale per quello che era successo a mia madre. Io adesso sono da sola, se non fossi da sola magari, ma…” “E adesso cosa pensi di fare?”

“Cosa si ricorda?”
“Era il giovedì santo. Eravamo andati in un ospedale di un paesino vicino, mia mamma aveva la visita lì. Stava durando molto, e io avevo fame. Così papà ha comprato un po’ di focaccia. Ne abbiamo lasciata un po’ per mamma. Quando è tornata in macchina però ha detto che non ne voleva. A me parve strano. Poi ricordo che eravamo a casa, io ero in camera mia e ho sentito mamma che piangeva. Sono corsa in salotto a vedere cosa stava succedendo. Mamma e papà erano abbracciati, e poi mamma ha detto non voglio morire. Papà la stringeva fortissimo e forse piangeva pure lui. Può darsi, sì (…) poi basta non ricordo più niente. Non ho immagini di lei che vomitava, di lei che stava male, niente. Ha voluto che noi non vedessimo nulla per non avere ricordi brutti. (…) Però ora mi ricordo una cosa”
“Cosa?”
“Aveva voluto a tutti i costi che andassi con lei a comprare i pigiami. Nel negozio voleva che scegliessi io quelli che mi piacevano di più. Ero arrabbiatissima. A me non fregava niente di quei cazzo di pigiami.”
“Sì”
“Comunque la ricordo anche con la testa rasata: una volta quando papà glieli ha tagliati e un’altra volta quando è venuta a vedere la mia recita. A scuola faceva caldo, allora si è tolta il cappello. Io ero sul palco, l’ho vista togliersi il cappello e mi sono vergognata. Mi dispiace. Non avrei dovuto. Ma mia mamma così era brutta.”

“Quindi è tornata a Bologna?”

“Sì, il 4 maggio.”
“Cosa le hanno detto?”
“Pare che si possa ancora fare qualcosa. Dovrò fare degli esami e poi possiamo procedere.”
“Bene.”
“Sì (…) Dottore, che cosa sta succedendo?”
“Cosa non le è chiaro?”
“Perché sono tornata a Bologna, se dall’ultima visita pare che sia tutto finito?”
“Lei quando ha visto quel follicolo ha capito che forse non è ancora finita. E adesso lei sta correndo verso quel follicolo, verso quell’ultimo follicolo.”
Ricordai immediatamente la corsa sfrenata verso l’uovo di Pasqua fatta quel pomeriggio di due anni prima.
“Dottore, e adesso?”
“Si dia il tempo.”

👉 Questa testimonianza è la storia personale di L., se vuoi raccontare la tua storia o condividere una riflessione su argomenti Lunàdigas, scrivici a info@lunàdigas.com

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